Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
La giuria scientifica della XII edizione 2025 del Premio nazionale di storia contemporanea Friuli Storia (presieduta da Tommaso Piffer e composta da Elena Aga Rossi, Roberto Chiarini, Ernesto Galli della Loggia, Ilaria Pavan, Paolo Pezzino, Silvio Pons, Andrea Possieri e Andrea Zannini) ha selezionato lo scorso giugno come opere finaliste tre libri: Italia occupata 1917-1918. Friuli e Veneto orientale da Caporetto a Vittorio Veneto (Gaspari, 2024) di Gustavo Corni, Pane quotidiano. L’invisibile mercato mondiale del grano tra XIX e XX secolo di Carlo Fumian (Donzelli, 2024) e Le mani di mio padre. Una storia di famiglia russa (Mimesis, 2024) di Irina Scherbakova, premio Nobel per la pace 2022 e cofondatrice dell'Ong russa "Memorial" (Associazione per i diritti umani e lo studio delle repressioni nell’epoca sovietica), affreschi di storiografia contemporanea, che affrontano temi, aree geografiche di riferimento e approcci molto diversi tra loro – politico-sociale, economico-globale e famigliare-autobiografico – ma tutti caratterizzati da un rilevante livello di qualità.
«Forse mai come quest’anno – spiegava Tommaso Piffer – in finale gareggiano tre volumi così diversi tra di loro, per argomento e anche per approccio storiografico. Ma proprio questo, oltre alla qualità dei lavori, rende la terzina particolarmente interessante: un invito ai lettori ad addentrarsi al di fuori di quelle che sono le proprie letture abituali. Il premio Friuli Storia nasce per creare nuovi lettori di storia, proponendo dei saggi storici a chi non li legge abitualmente, oppure proponendo testi inusuali a chi già ha familiarità con questo genere».
La monografia di Gustavo Corni si concentra su un episodio cruciale e spesso trascurato della storia italiana: l’occupazione austro-tedesca del Friuli e del Veneto orientale dopo Caporetto. Un lavoro rigoroso, basato su fonti archivistiche e diari, che restituisce il volto complesso di un anno di occupazione militare nel cuore dell’Italia in guerra.
Carlo Fumian firma invece un saggio di respiro globale e lungo periodo, che intreccia storia economica, geopolitica e trasformazioni tecnologiche per raccontare come il grano, da bene locale e fragile, sia diventato una merce planetaria. Un'indagine originale che collega campi e borse merci, mulini e contratti finanziari, in una narrazione avvincente sulle origini della globalizzazione. [ilbolive.unipd.it/it/news/societa/mondo-chicco-grano...]
Infine, l'opera ibrida di Scherbakova, che unisce il racconto autobiografico, a partire dai ricordi della bisnonna Etlja Jakubson, alla grande storia russa del Novecento. Attraverso la vicenda della sua famiglia ebrea di origini ucraine ricostruisce le ferite lasciate dalle repressioni sovietiche, dalle guerre e dalle illusioni della rivoluzione, con uno sguardo personale e toccante. Gli Scherbakov «tra il 1924 e il 1945 vissero in due stanze del celebre Hotel Lux, l’albergo del Comintern a pochi passi dal Cremlino. In quelle stanze alloggiavano i segretari dei partiti comunisti di tutto il mondo, riuniti nel nome della rivoluzione mondiale. Le numerose fotografie che accompagnano il racconto aiutano a conoscere da vicino i membri delle diverse generazioni della famiglia, incluso il padre dell’autrice: le sue mani, segnate dalle ferite della guerra, evocano il destino dei tanti invalidi e mutilati che affollavano le città sovietiche nel dopoguerra, prima di essere lentamente rimossi dalla scena pubblica».
Nella terna, lo scorso 8 settembre Irina Scherbakova è stata infine scelta quale vincitrice dalla giuria popolare di 360 lettori (il 55% dei quali risiede in Friuli Venezia Giulia, primo bacino di utenza del premio, e il restante 45% è diffuso in Italia). La cerimonia di premiazione è prevista a Udine, sabato 25 ottobre 2025. (messaggeroveneto.it/cultura-e-spettacoli/il-premio-friuli-storia-a-irina-scherbakova...). È ben comprensibile il favore incontrato nella giuria popolare dall'autrice, per il degno alone che promana dal suo Nobel per la pace e la materia incandescente di un secolo di storia russa, dalla rivoluzione bolscevica guidata da Lenin, alle purghe staliniane, fino alle guerre dell’epoca di Putin.& Lavori di grande interesse sono, comumque, anche quelli di Gustavo Corni e Carlo Flumian, non solo per essersi anch'essi meritati i riflettori del Premio Friuli Storia.
La ricerca di Gustavo Corni, in particolare, porta a compimento la ricostruzione e la riflessione – già intraprese qualche decennio fa – su un segmento della nostra storia nazionale e locale a lungo tempo tra i meno problematizzati e indagati, se non da memorie individuali di superstiti e documenti parziali via via rinvenuti e portati alla luce senza un'inquadratura storiografica generale. Abbiamo perciò ritenuto davvero utile (noi di locusglobus.it, Archivio Parrocchiale di Oderzo, Archivio Storico Cenedese) invitare ad una presentazione del libro di Gustavo Corni in loco, con la presenza dell'autore, del ricercatore Giuliano Casagrande, che modererà l'incontro, di Maria Teresa Tolotto, direttrice dell'Archivio Parrocchiale di Oderzo, e di Bruno Callegher, direttore della rivista Archivio Storico Cenedese.
L'appuntamento è per sabato 18 ottobre prossimo, presso il Cinema Turroni di Oderzo alle ore 17.
Per presentare i tre libri finalisti del Premio Friuli Storia, Valerio Marchi ne aveva intervistato gli autori per il Messaggero Veneto
Non a molti è noto che Aldo Zanardo, docente di filosofia morale all'università di Firenze e storico direttore della rivista Critica marxista, mancato il 28 agosto scorso a Sesto Fiorentino, dove risiedeva, era nato ad Oderzo nel 1931.
Chi se ne ricorda conoscerà probabilmente uno dei suoi testi più letti, Filosofia e Socialismo (Editori Riuniti, 1974) e, dal punto di vista politico, l'importante intervista che fece alla vigilia del rinnovo del Parlamento Europeo ad Enrico Berlinguer, L'Europa, la pace, lo sviluppo, sul tema del futuro della Comunità europea, pubblicata su «Critica marxista», n. 1-2 del 1984.
Aldo Zanardo (coetaneo e compagno di scuola di Mario Bernardi), laureatosi alla Normale di Pisa nell’a.a. 1955-56 con una tesi su Aspetti della formazione filosofica di Carlo Marx (relatore Cesare Luporini) e poi borsista a Napoli, grazie ad una borsa di studio dell’Istituto italiano per gli studi storici fondato da Benedetto Croce (cfr. iiss.it/member/z-archivio-borsisti/), divenne dal 1969 docente di filosofia morale all’università di Firenze per più di un trentennio.
Parallelo fu l'impegno diretto anche nell’attività politica e nell’organizzazione culturale: consigliere alla Provincia di Firenze, componente per diversi anni del Comitato centrale del Partito Comunista e, soprattutto, direttore della prima serie di «Critica marxista», la rivista teorica del Pci, guidata dal 1985 al 1991 (Nota).
Dopo la fine del Pci, divenuto Pds, che ne aveva deciso la chiusura, diede vita e continuò a dirigere, insieme ad Aldo Tortorella (cui era molto legato), la nuova serie di «Critica marxista», che prosegue a tutt’oggi le sue pubblicazioni.
Un profilo culturale di Zanardo è stato brevemente rievocato da Sergio Petrucciani nel Manifesto del 5 settembre 2025:
«Come filosofo, Aldo Zanardo era una figura decisamente originale. Il suo interesse principale era quello di approfondire, come recita il titolo del suo libro più importante, pubblicato nel 1974, il rapporto tra Filosofia e socialismo. Sebbene si fosse formato in un’epoca di ortodossie, niente era più lontano da lui del marxismo ortodosso. Da esso si distanziava perché al centro del suo pensiero vi erano (oltre a una forte attenzione per il mondo cattolico) tre tematiche profondamente intrecciate l’una con l’altra: l’etica, la libertà, l’individuo.
Con Tortorella, anche lui recentemente scomparso, Zanardo condivideva la tesi che, nonostante il realismo di cui Marx aveva sempre fatto professione, non avesse senso parlare di socialismo senza muovere da una radice etica. Di qui discendeva anche il suo interesse per il socialismo neokantiano tedesco e austriaco del primo Novecento, al quale aveva dedicato un denso studio. Ma l’etica socialista non poteva essere altro che un’etica della libertà, della libertà effettiva di tutti e di ciascuno. Il tema era fortemente presente in Marx, ma nonostante questo restava una domanda che non si poteva eludere: il marxismo aveva pensato la questione della libertà in modo adeguato, oppure certi nefasti esiti politici erano collegati anche a insufficienze teoriche di fondo?
Con questa problematica Zanardo si confronta in uno dei suoi saggi più belli: La teoria della libertà nel pensiero giovanile di Marx, pubblicato nel 1966 su «Studi storici». Scrivendo nei fervidi anni Sessanta, quando il marxismo poteva ancora apparire come l’orizzonte teorico capace di decifrare l’epoca e i suoi contrasti, Zanardo non esitava a sottolineare, accanto ai meriti, anche i limiti della visione marxiana della libertà: una visione che, per dirla in breve, gli appariva insidiata da una troppo facile e ottimistica visione dei rapporti tra individui e società.
Come se bastasse togliere di mezzo la proprietà privata e il capitalismo per conciliare e superare tutti gli antagonismi. La società moderna, avvertiva invece Zanardo, è fatta di individui differenti e irriducibili, e dunque anche conflittuali. Ed è necessario un grande scavo teorico per capire se e come in essa possano ancora trovare ascolto le istanze solidaristiche che furono proprie della tradizione socialista».
Nota
>>> I contributi teorici e politici di Aldo Zanardo (Vedi)
Qui si torna. Da qui si riparte. Ogni anno.
«Impressioni di Settembre non è soltanto una canzone: è un varco, una specie di Stargate»
>>> Impressioni di settembre (1971) ... se non è storia questa! >>>
Dal 20 luglio al 28 settembre 2025 al Meve "Memoriale Veneto della Grande Guerra" è allestita la mostra Grande Guerra Volti Momenti Relitti che espone una selezione - operata dallo stesso artista e donata al Comune di Montebelluna - di 40 dipinti realizzati nel 2018 da Paolo del Giudice, recentemente scomparso.
La mostra è un omaggio al suo viaggio artistico che ha guardato al mondo con grande maestria e sensibilità attraverso la lente del colore e delle forme. Sono immagini tratte da fonti storiche (ritratti, paesaggi segnati dalle distruzioni, scene di vita e combattimento), ma la trasfigurazione delle figure dei protagonisti della guerra, soggetti e luoghi, evoca la fragilità umana di fronte agli stravolgimenti di un conflitto che fu un'esperienza traumatica collettiva senza precedenti. Sfilano i volti (dal soldato semplice ai generali, da Francesco Baracca alla madre del Milite Ignoto), la vita di trincea e paesaggi di guerra, con particolare riferimento alle vicende susseguenti a Caporetto e alla distruzione di chiese e monumenti.
La rielaborazione del passato attraverso il medium pittorico e figurativo dei contenuti storici, in un rapporto comunque stretto con fonti storiche, soprattutto iconografiche, ottiene di trasferire il passato in una dimensione, se non senza tempo, certo di universalizzazione del momento storico determinato che può perennemente interrogare anche il presente: immagini iconiche che si alzano dal piano della cronaca al continuum della vita e delle azioni umane.
[ memorialegrandeguerra.it ] Nato a Treviso nel 1952, si avvicina alla pittura in giovane età con riprese dal vero di paesaggi. Dal 1968 sposta il suo interesse sulla figura umana, che affronta in chiave espressionista. Nel 1970, all’età di 18 anni, ottiene il primo premio alla X edizione della Biennale Triveneta d’Arte di Cittadella.
Si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove incontra artisti come Viani, Bacci, Vedova e partecipa alle iniziative della Fondazione Bevilacqua la Masa, che lo vedranno coinvolto tra il 1973 e il 1983 in esposizioni personali e collettive in Italia e all’estero.
La sperimentazione che contraddistingue i linguaggi artistici degli anni Settanta lo conduce ad abbandonare la pittura a favore della ricerca multimediale: sviluppa assemblaggi di reperti fotografici della vita quotidiana, manipolati attraverso il mezzo serigrafico e il successivo intervento pittorico. Da questo momento il rapporto con la fotografia diventa ineludibile nel suo lavoro, anche in seguito al ritorno al medium pittorico.
Nel biennio 1982/83 realizza due grandi dipinti murali sulle facciate esterne di edifici pubblici a Venezia e Marghera; a Venezia espone con continuità alla storica Galleria Santo Stefano e alla Galleria La Fenice. Negli anni successivi si allontana dalla figura umana, iniziando un’indagine sui luoghi della vita, dell’arte e della memoria che lo vede coinvolto tuttora. Ne sono risultato la rassegna di Oggetti (esposta alla Galleria Avida Dollars di Milano nel 1985), i grandi altari veneziani (esposti l’anno successivo all’Attico di Fabio Sargentini a Roma) e il ciclo Archeologie, dove ai fantasmi dell’arte passata, soprattutto barocca, si sovrappongono tracce e relitti della realtà umana e urbana contemporanea.
Nel 1991 inizia la collaborazione con lo Studio Gastaldelli di Milano. Sono numerose le esposizioni dedicate alla sua opera: dall’ampia retrospettiva Dieci anni di pittura nelle sale di Villa Brandolini a Pieve di Soligo (2000), alla spettacolare Biblion nel Salone Abbaziale di Sesto al Reghena, alle personali a Milano, Roma, Bologna e in altre città italiane.
Elabora cicli pittorici dedicati a temi specifici (come Pier Paolo Pasolini: volti 1988 – 2005, presentato nel 2006 presso il Palazzo Ducale di Mantova, e l’importante affondo visivo nella vita e nella cultura italiana raccolto nel ciclo Viaggio in Italia del 2006-2007). Alla sua città natale dedica l’evento Percorsi dipinti – sguardi quotidiani su Treviso (2011), un’esposizione diffusa in nove sedi del centro storico, tra chiese, musei e spazi pubblici, mentre in Inseguire Venezia – dipinti 1969- 2017 (Centro Culturale Bafile, Caorle) l’artista si confronta con la città lagunare e la sua immagine stratificata nei secoli.
Nel 2018, in occasione del Centenario della Grande Guerra, presenta il ciclo Grande Guerra – volti, momenti, relitti presso il Forte Mezzacapo di Zelarino e nel Museo della Battaglia a Vittorio Veneto (ripreso successivamente nel 2021 alla Galleria Sagittaria di Pordenone). Le immagini (ritratti, paesaggi desolati, scene di vita e combattimento), tratte da fonti storiche, sono trasfigurate attraverso una pittura che confonde i contorni e le identità, i soggetti e i luoghi, in un viluppo di materia e gesto da cui affiorano, come in una rimembranza, le figure tragiche dei protagonisti della guerra.
Si riapre agosto e molti di noi saranno o si improvviseranno - come ogni anno - dei "menarósti".
Ripropongo la leggera meditazione fatta nel 2020 nel primo lockdown causa covid. Ma non ha perso motivo per rileggerla.
Ho aggiornato vari link, che nel frattempo erano interrotti.
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Menarósto, il girarrosto, addetto agli spiedi su brace, ha il suo grande proscenio nelle grigliate estive e in ogni festa patronale o delle proloco che si comandi. Quest'anno, anche su terrazze e giardini di casa, causa lockdown e susseguente momento liberatorio attuale (forse...). Gran rispetto per la grande professionalità di alcuni (pochi) o almeno la passione di altri (i più) ... ma quando ognuno di noi si accingerà a girare l'arrosto suo non dimentichi di poter essere un "menarosto" anche in altro senso, non referenziale, di "girare a vuoto".
Menarósto detto di un individuo - fuori del lavoro al braciere e allo spiedo - non ha preso una piega neutra o positiva, ma invece negativa: inconcludente perditempo o chiaccherone instancabile, persino seccatore noioso. Si equipara a roda (da molin), anch'esso detto di chi parla a lungo senza stancarsi (linguaveneta.net/Dizionario-Veneto-italiano-Piccio). Menarósto, però, in veneziano arriva a significare "disobbediente, impertinente, birichino” (skardy.it/news/82-niente-in-ordine-tuto-fora-posto-menarosto).
Godiamoci un po' di riferimenti all'uno e all'altro significato.
Davide Drusian sta presentando la sua recente pubblicazione "Il diario di fra Benvenuto Grava e altre testimonianze inedite sull'occupazione nazifascista a Motta di Livenza" in una serie di incontri serali in varie sedi della zona. Ha cominciato il 4 aprile all'auditorium di Rustignè di Oderzo, proseguendo poi l'11 aprile alla biblioteca comunale a Motta di Livenza, il 28 nella sala parrocchiale di Sant'Anastasio di Cessalto. Per chi non ha potuto ancora partecipare i prossimi appuntamenti saranno giovedì 8 maggio salle 20.45, presso il parco festeggiamenti di Malintrada di Motta di Livenza, e venerdì 16 maggio alle 20.45, all'auditorium comunale di Meduna di Livenza.
Il libro tratta del rastrellamento per rappresaglia che l’esercito tedesco mette in opera il 15 settembre 1944 a Ponte di Piave, Oderzo, Motta di Livenza e alcuni paesi della Bassa friulana, prelevando - soprattutto fra gli abitanti altolocati dei singoli paesi - cinquantaquattro ostaggi che vengono imprigionati nelle prigioni della caserma “Scipio Slataper” di Sacile. Vi resteranno per dodici giorni, in angosciosa attesa che i partigiani della zona rimettano in libertà quattro ingegneri tedeschi, addetti al controllo della linea ferroviaria, catturati a inizio mese. Fra Benvenuto Grava, padre guardiano dei frati francescani di Motta, è uno degli ostaggi e redige un diario scrupoloso di quella detenzione. Riportando giorno per giorno tutto ciò che accadde, il frate lascia un documento storico fondamentale per comprendere le ansie e le paure che si vivevano nel territorio dell’Opitergino-Mottense durante la guerra, con le nefandezze dei nazifascisti a far sempre da macabro sfondo.
Giacinto Bevilacqua, titolare delle edizioni Alba, ha inviato al blog degli storici del Friuli occidentale "lastorialestorie" un capitolo rappresentativo del libro di Davide Drusian con la foto di fra Benvenuto, la foto del ritrovo degli ostaggi nel 1954 e una foto d’epoca della Caserma Slataper di Sacile, a cui rinviamo | storiastoriepn.it/il-diario-di-fra-benvenuto/
![]() Il Cardinale La Fontaine lo ordina sacerdote il 21 luglio 1929 ai Tolentini di Venezia. Fatta eccezione per i sei anni trascorsi tra il convento di Lonigo e quello veneziano di San Francesco della Vigna, fra Benvenuto Grava spende la sua vita religiosa tra Gemona (dove morirà nel 1984) e Motta di Livenza, in qualità di insegnante e superiore. Durante il secondo conflitto mondiale è appunto guardiano della Basilica mottense e subisce, per mano tedesca, la triste sorte della prigionia. Il ritrovamento inaspettato del suo diario, ricco di dettagli storici e aspetti umani finora ignorati, apre una pagina inedita sull’occupazione nazifascista a Motta di Livenza. |
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Grazie al recupero del repertorio di Giulio Ettore Erler progressivamente avvenuto negli ultimi anni, viene riproposta una nuova mostra completa delle sue opere, articolata in ben quattro sedi espositive d'eccezione visitabili fino al 25 giugno 2025.
L'esposizione propone quattro sezioni, coinvolgendo le sedi Portobuffolè, Oderzo e Treviso:
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[a. m.] Stoccafisso o baccalà? Quanto alla materia prima non c’è differenza: è sempre il merluzzo nordico (gadus morhua), pesce dalla carne bianca e dal gusto delicato. Ad essere completamente diverso tra l’uno e l’altro è il metodo di conservazione: lo stoccafisso è essiccato ai venti del Nord Europa, il baccalà è conservato sotto sale, entrambi antichi ma ben distinti metodi di lavorazione per conservare il cibo.
Per un’inversione linguistica mai del tutto spiegata, a Venezia, nel Veneto e nelle zone appartenute alla Serenissima (Bergamo, Brescia, Friuli, Istria, Dalmazia) lo stoccafisso – dal norvegese stokkfisk oppure dall’olandese antico stocvisch, (stock = bastone e visch = pesce), oppure dall'inglese stockfish, cioè pesce da stoccaggio, scorta, approvvigionamento, comunque mutuato dall'olandese antico, con lo stesso significato di "pesce bastone" - viene chiamato bacalà.
I prelibati bacalà mantecato (veneziano) e bacalà alla vicentina sono dunque fatti con lo stoccafisso. Nel versante tirrenico, invece, si è conservata la denominazione originaria: baccalà è il merluzzo sotto sale, non quello essiccato.
Il personaggio storico che ha segnato le sorti culinarie dello stoccafisso nella tradizione italiana è Pietro Querini, mercante, navigatore, nonché Senatore della Repubblica di Venezia nel XV secolo.
[a. m.] Pietro Querini è il nobiluomo capitano della caracca "Cocca Querina" partita da Creta il 25 aprile 1431 con a bordo sessantotto marinai, carica di vino, spezie e altre mercanzie di valore, diretta nelle Fiandre, mai giunta a destinazione, scomparsa a settembre all’imbocco della Manica e finita alla deriva nell’oceano in pieno inverno. A Venezia lo si crede morto, ma sorprendentemente, trascorsi ventuno mesi dalla partenza, ritorna in patria con i pochi compagni d’avventura rimasti, dopo un lungo percorso a piedi e a cavallo attraverso la Svezia e la Germania.
Che cosa era accaduto? La "Cocca Querina", sorpresa da ripetute tempeste dopo aver superato Capo Finisterre, disalberata e resa ingovernabile dai danni al timone, fu portata fuori rotta al largo dell'Irlanda sempre più verso ovest, per diverse settimane, e sospinta dalla Corrente del Golfo nei mari del Nord sopra il Circolo polare artico. Parte dei marinai aveva già perso la vita. L'equipaggio, il 17 dicembre 1431, decise di abbandonare il relitto semiaffondato ancora capiente di «800 barili di malvasia, cipressi lavorati, pepe, gengiovo, ed altre ricche merci», e si divise in due gruppi tirando a sorte, 21 sullo schiffo (una piccola scialuppa), 47 su una lancia più grande, compresi i tre ufficiali: il capitano e i due luogotenenti, Nicolò di Michiel, patrizio veneto, e Cristoforo Fioravante, comito. La prima barca di salvataggio sparisce presto col suo carico di uomini. La seconda scampa all'affondamento e, dopo altre settimane alla deriva fra razionamenti di viveri e morti continue, senza mai riuscire ad avvicinarsi ai sassosi scogli che intravedevano, approdano fortunosamente il 14 gennaio 1432 entro una «valle posta fra duoi prossimi monti» innevati dell'isola di Sandøy (un posto «in Culo Mundi» come lo chiamò con il suo linguaggio colorito nel diario il navigatore della Serenissima), nell’arcipelago norvegese delle Lofoten: non ci sono più che 21 sopravvissuti dei 47 saliti a bordo. Bivaccano sulla costa fino all'inizio di febbraio nutrendosi di molluschi e di un grande pesce spiaggiato, accendendo fuochi per scaldarsi, fino all'arrivo di soccorsi dagli abitanti dell'isola di Røst (chiamata Rustene dai veneziani) che, avendoli avvistati proprio grazie a quei fuochi, salvano gli ultimi 11 superstiti, essendo spirati nel frattempo altri loro compagni.
Rifocillati e curati, godono di disinteressata ospitalità nelle case dei pescatori («si dimostrarono molto benevoli – raccontarono Cristoforo Fioravante e Niccolò di Michiel nella loro relazione per il Senato della Serenissima – et serviziosi, desiderosi di compiacere più per amore che per sperare alcun servitio o dono»), convivendo in una per loro inusuale promiscuità di uomini e donne(1). Conoscono per la prima volta e assaporano i pesci secchi, duri come il legno, di cui si cibano gli isolani, i stocfisi, merluzzi fatti essiccare senza sale al vento e al sole propizi di quelle latitudini boreali e resi commestibili da un trattamento particolare: «quando i voleno mangiare l bateno con el roverso de la manara e fali come nervo, componeno butiro e specie per darli sapore». Lo stoccafisso è anche «grande e inestimabile mercadantia per quel mare de li Alemanii», perché una volta all'anno a maggio viene portato a Berge (Bergen) in Norvegia, «dove a quella muda di molte parti vengono navi ... cariche di tutte le cose che nascono in Alemagna, Inghilterra, Scoccia e Prusia, dico necessarie al vivere e vestire», per essere barattato con ogni genere di mercanzia di cui hanno bisogno.
A metà primavera, Pietro Querini e i suoi, rimessi in sesto dal generoso trattamento ricevuto, furono pronti per tentare di tornare a Venezia. Il 15 maggio del 1432, anch'egli s'imbarcò con i pescatori isolani diretto a Bergen, fornito di 60 stoccafissi essiccati come merce di scambio per assicurarsi le risorse per il viaggio, lungo e costoso. Fatto scalo a Trondheim, udendo che «gli Alemanni erano in guerra col re di Norvegia», ritenne prudente non andare più oltre e s'informò quale altra via più opportuna vi fosse per raggiungere la Germania oppure l'Inghilterra. Gli venne consigliato di andare a trovare un ricco veneziano di nome Zuane (Giovanni) Franco, fatto cavaliere dal re di Dacia (Svezia), proprietario di un castello a Stinchimborgo (Stegebord) nell'East-Gothland. Camminò cinquantatrè giorni verso levante per coprire i 700 km di distanza, sulla via che passava anche per Vadstena, terra natale di Santa Brigida(2). Accolto con simpatia e generosità dal concittadino, si trattenne presso di lui per qualche tempo, finché alla «solenne festa e indulgenza di santa Brigida», celebrata ogni primo d'agosto (dove «innumerevoli persone da ogni parte come Alemagna, Olanda, Scozia, fin oltre da 600 miglia erano concorse»(3)) venne a sapere che al porto di Lodese, distante 8 giornate, «v'erano due navi, una per Alemagna ossia per Rostoch, l'altra per Inghilterra». Ricevuti aiuti e cavalli dal loro ospite, per primi partirono per la Germania Nicolò di Michiel, Cristoforo Fioravante e Ghirardo da Vinsescalco, e pochi giorni dopo, il 14 settembre, Querini con gli altri sette per l'Inghilterra. Sbarcati all'Isola di Ely, passarono per Cambris (Cambridge) e arrivarono a Londra, trovando ospitalità per due mesi presso l'allora potente comunità veneziana che risiedeva sul Tamigi. Venezia non era più un miraggio. La raggiunse finalmente il 12 ottobre 1432, cavalcando per 24 giorni attraverso l'Europa, via Basilea, accompagnato da Girolamo Bragadin, uno dei mercanti londinesi.
Non aveva dimenticato di essere un mercante, portando dai lontani mari del Nord alcuni esemplari di stoccafisso. Tentò di proporne al Senato acquisti massicci come provvista da imbarcare - per le sue caratteristiche di conservazione nel tempo - sulle navi della Serenissima Repubblica. Con scarso successo per la verità... Comunque, l'anno seguente, convinto che prima o poi lo stoccafisso avrebbe sfondato anche sulle terre controllate da Venezia, Querini tornò dai suoi amici di Røst(4) per scambiare vino e spezie con stoccafisso.
Note
I racconti originali del naufragio della Cocca Querina, tramandati dai codici manoscritti - quello di Pietro Querini, patrone della nave, dal Codice Vaticano Vat. Lat. 5256 (Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana) collazionato col frammento marciano It. XI 110 7238 (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana) e quello di Cristofalo Fioravante, uomo di consiglio, e Nicolò de Michiele, scrivano, dal Codice marciano ms. It. VII 368 (7936) scritto «per lo riferire», cioè raccolto, dall’umanista fiorentino Antonio di Corrado de Cardini - sono stati pubblicati per la prima volta integralmente e tra loro messi a confronto (Viella, 2019) con edizione, note e cura di Angela Pluda che ne aveva già fatto oggetto di tesi di laurea nel 2007 presso l'Università di Padova con la supervisione del prof. Manlio Pastore Stocchi. Il volume ancora facilmente reperibile è: “Infeliçe e sventuratta coca Querina”. I racconti originali del naufragio dei Veneziani nei mari del Nord, Edizione e note a cura di Angela Pluda, Introduzione di Andrea Caracausi e Elena Svalduz, Viella, 2019 | viella.it/libro/9788833130996
Le due relazioni di Pietro Querini e dei suoi luogotenenti sono state conosciute e lette soprattutto nella versione rielaborata sui manoscritti originali da Ramusio inserita un secolo dopo nel secondo volume della raccolta Delle navigazioni et viaggi, in prima edizione nel MDCLIX (1559) in Venetia nella Stamperia de Giunti: Il naufragio di M. Pietro Quirino gentilhuomo Venetiano, portato per fortuna sessanta gradi sotto la Tramontana. Ramusio è un «abile manipolatore» (Angela Pluda, p. 24): lingua, sintassi e contenuti sono spesso alquanto diversi, per volontà non certo di falsificazione, ma di normativizzazione linguistica (regolarizzazione della grafia, toscanizzazioni di desinenze verbali e lessemi, sistemazioni sintattiche, aggiunta di informazioni e dettagli, riesposizioni più ampie o più sintetiche di blocchi di testo, drammatizzazione di scene che originariamente sono di natura più prosaica, amplificazione del concetto della “misericordia di Dio” quando si determina una svolta del corso degli avvenimenti da negativo a positivo…) a garanzia di maggiore diffusione e leggibilità dei contenuti. Il veneziano popolare del Fioravante e del De Michiele come pure il dialetto più controllato di un nobile veneziano fornito di istruzione scolastica qual era Querini, unitamente a un certo disordine espositivo, non erano il veicolo più consono per raggiungere un pubblico non solo veneziano e non solo di medio-bassa cultura.
L'opera di Ramusio si può leggere nelle edizioni Cinquecentine o in quella curata da Marica Milanesi per Einaudi (1978-1988)
Prima che Ramusio lo desse alle stampe, il viaggio di Querini veniva ricordato nel famoso Mappamondo di fra’ Mauro (1457-1459): «questa provincia di Norvegia scorse misier Piero Querino come e noto». Nei secoli successivi il diario di viaggio fu segnalato dapprima nell'Ottocento (1818 e 1881) e successivamente negli anni Trenta del Novecento. Agli anni Cinquanta risale una mostra documentaria sui navigatori veneti insieme ai più famosi Pigafetta e Magellano.
In tempi recenti s'è registrato nuovo interesse per la storia del naufragio della Querina, legato alla duratura tradizione della narrativa di viaggio e alla cultura gastronomica. La rinnovata fortuna divulgativa del diario del comandante della Querina è infatti dovuta non secondariamente al racconto della pesca, della conservazione e del consumo dello stoccafisso. Di queste riprese "romanzate", che attingono ora dai manoscritti ma più spesso dal testo del Ramusio, restano godibili
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[a.m.] Dopo il periodo di profugato con la famiglia a Sermide (MN), il padre avviò il ragazzo a bottega presso il pittore e decoratore Giuseppe Moro. Le qualità dimostrate lo portarono a frequentare prima il Liceo artistico di Venezia poi a iscriversi all'Accademia di belle arti, seguendo per i primi tre anni come maestro di figura Ettore Tito.
Le prime rilevanti esperienze furono nell'ambito dell'arte sacra. Nel 1925, appena ventenne, vincitore in un concorso, ebbe l'incarico di eseguire la pala del santo per la riedificata Chiesa di San Cristoforo di Tonezza del Cimone (VI), andata completamente distrutta nei furiosi combattimenti che sconvolsero la zona durante la prima guerra mondiale. Dal pittore e architetto trevigiano Antonio Beni - che aveva un ruolo importante nell'opera di ricostruzione degli edifici sacri distrutti - impedito da problemi di salute, gli fu affidato anche il completamento delle pale d'altare, già approvate in bozzetto dalla Commissione d'arte sacra, per le chiese della diocesi di Treviso danneggiate.
Affrontò in seguito anche la figurazione storico-patriottica, quando nel 1930, durante il servizio militare come sottotenente del 55º Reggimento fanteria "Marche", dipinse su incarico dei suoi superiori due grandi tele raffiguranti gli episodi della morte di Edmondo Matter e Cesare Colombo(1), entrambi caduti sul Carso e medaglie d'oro al valor militare alla memoria, e il Ritratto del Colonnello Rossi.
Per la reputazione nell'ambito della pittura storica di impostazione celebrativa, nel 1934 gli furono commissionati quattro grandi pannelli per la sala consigliare del palazzo Comunale di Oderzo che illustravano episodi e personaggi della cittadina lungo la sua millenaria vicenda.
Chiamato alle armi nel periodo della seconda guerra mondiale, dovette abbandonare temporaneamente il lavoro e ritornò a Treviso solo dopo l'armistizio. Il suo studio andò distrutto nel bombardamento di Treviso del 7 aprile 1944 e fu costretto a lavorare temporaneamente a Dosson nello studio di Antonio Beni (morto nel 1941)
Nell'immediato dopoguerra partecipò alla vita amministrativa della città. Eletto consigliere comunale nella lista della Democrazia Cristiana come indipendente, fece parte della giunta comunale prima come assessore supplente all'edilizia, poi come assessore effettivo ai servizi generali, e restò membro della Commissione edilizia per la toponomastica cittadina per circa un ventennio. In quel periodo gli fu anche proposta la candidatura a deputato parlamentare, ma rifiutò per non abbandonare il suo lavoro.
Negli anni sessanta, diminuite drasticamente le commissioni di arte sacra dopo il Concilio Vaticano II, si diradò anche il suo intervento in questo ambito e si dedicò maggiormente alla pittura paesaggistica e alla natura morta e proseguì nella ritrattistica. Fu l'occasione per allestire alcune mostre personali: la sua prima nel febbraio 1968 e la seconda a gennaio-febbraio del 1971, entrambe ospitate dalla galleria Giraldo di Treviso. A luglio dello stesso anno moriva per un infarto.
Alla fine del 1978 il Comune di Treviso organizzò presso il Museo Ca' da Noal la mostra retrospettiva Gino Borsato, la sua terra e la sua gente, curata dal critico d'arte Luigina Bortolatto.
Note
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