Dopo l'incontro del settembre scorso alla Sala Coletti del Museo Santa Caterina a Treviso, Raffaello Padovan presenta ad Oderzo la monografia Giulio Ettore Erler (1876-1964). Pittore. Dipinti e disegni della collezione Gian Antonio Favero, appena pubblicata, che ha dedicatao al pittore di origini opitergine.
L'appuntamento è per sabato 26 ottobre, alle 17.30, presso la Sala Auditorium del Museo del Duomo di Oderzo (dietro il campanile). L'opera di Erler sarà rivisitata nel dialogo tra l'autore, Maria Teresa Tolotto (direttrice del Museo del Duomo), l'editore Lanfranco Lionello, Roberto Costella (presidente della Fondazione Oderzo Cultura) e Gian Antonio Favero (collezionista del pittore).
Per gli estimatori di Archivio Storico Cenedese e coloro che ancora non conoscessero il periodico di "Studi e Ricerche tra Piave e Livenza", c'è un appuntamento venerdì 25 ottobre alle 18 all’Auditorium di Banca Prealpi SanBiagio a Tarzo per la presentazione dell’ultimo numero ma anche di tutto il recente percorso di crescita della rivista che l'ha portata a meritare il riconoscimento di "rivista scientifica" da parte dell’ANVUR (Agenzia Nazionale per la Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) per le aree disciplinari 10 e 11, cioè Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche e Scienze storiche, filosofiche e pedagogiche.
→ Archivio Storico Cenedese | Fresco di stampa il numero 8 della Rivista annuale
→ Archivio Storico Cenedese | Fresco di stampa il numero 9 della Rivista annuale
Dal 28 settembre 2024 al 25 marzo 2025
Oderzo, Fondazione Oderzo Cultura, Palazzo Foscolo
Nella ricorrenza del 70° anniversario dalla morte di Alberto Martini (Oderzo 1876 - Milano 1954) − a culmine di un intero anno di celebrazioni dedicate da Oderzo Cultura al pittore simbolista e precursore del surrealismo, di origini opitergine − aprono due mostre ad Oderzo e a Milano, per ripercorrere, nella prima, centrata sulle illustrazioni dei racconti di Edgar Allan Poe, il suo mondo onirico e il "lato oscuro" dell'arte e della poetica dell'artista e per ricordare, nella seconda, il tema della Danza macabra, soggetto variamente indagato da Martini, alle cui opere (conservate nel Gabinetto dei Disegni e nella Raccolta delle Stampe A. Bertarelli del Castello Sforzesco) verranno affiancati esempi di grafica europea dedicati al tema della Totentanz nei secoli.
Un'ampia presentazione della mostra di Oderzo si può già leggere nel sito oderzocultura.it
Dal 2 ottobre 2024 al 19 gennaio 2025
Milano, Castello Sforzesco, Salette della Grafica
Nell'ambito delle celebrazioni dell'artista nel 70° anniversario dalla morte − in concomitanza con la mostra Le Storie Straordinarie: Alberto Martini ed Edgar Allan Poe, aperta ad Oderzo dal 28 settembre 2024 al 25 marzo 2025 presso Palazzo Foscolo − anche il Castello Sforzesco di Milano, in collaborazione con la Fondazione Oderzo Cultura, esporrà l'importante nucleo di lavori di Alberto Martini presenti nelle collezioni civiche milanesi.
La mostra indaga il tema dell’allegoria della morte e della danza macabra, affrontato da Martini nell'eccezionale ciclo di disegni L’Albo della morte (1894-1896) e nella serie delle 54 celebri cartoline postali litografate intitolata Danza macabra europea, pubblicate dall’editore Longo di Treviso in occasione del primo conflitto mondiale. Ai documenti martiniani sono affiancati preziosi esempi di grafica europea dedicati al tema della Totentanz.
È disponibile in libreria e in vendita sul sito ascenedese.it/.../asc9 l'ultimo numero della rivista Archivio Storico Cenedese.
Dopo l'estate sarà presentato in alcuni incontri pubblici nel Vittoriese e nell'Opitergino.
Archivio Storico Cenedese: dal 2024 è "rivista scientifica" riconosciuta dall’ANVUR
A coronamento dei molti anni di lavoro di gruppo, è giunto dall'ANVUR (Agenzia Nazionale per la Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) il riconoscimento di rivista scientifica ad Archivio Storico Cenedese per le aree disciplinari 10 e 11, cioè Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche e Scienze storiche, filosofiche e pedagogiche. È una delle poche, in Italia, ad arrivarci diciamo da “indipendenti”, come progetto editoriale dal basso, figlia di un’associazione locale, non emanazione di università, atenei o centri di ricerca strutturati.
Vi anticipiamo intanto il sommario degli Studi&Ricerche e delle Comunicazioni presenti:
Alessandro Manzato, Anabattismo e dissenso religioso a Serravalle nel Cinquecento
Ivette Marli Boso, O talian entre proibição e redescoberta. Dialetos vênetos nas zonas de colonização no sul do Brasil
Giampietro Fattorello, Dire la sindrome da ineffabilità: la poesia di Luciano Cecchinel (II)
Giacomo Bernardi, Gli affreschi della chiesa di San Bernardo a Cesana
Matteo Venier, Pietro Edo in Serravalle: un’omelia per l’ordinazione di Domenico da Lentiai
Silvia Bevilacqua, Un inedito intervento di Paolo Pajetta nell’ex Casa Canonica della Cattedrale di Ceneda
Brevi
Recensioni
[a. m.] Stoccafisso o baccalà? Quanto alla materia prima non c’è differenza: è sempre il merluzzo nordico (gadus morhua), pesce dalla carne bianca e dal gusto delicato. Ad essere completamente diverso tra l’uno e l’altro è il metodo di conservazione: lo stoccafisso è essiccato ai venti del Nord Europa, il baccalà è conservato sotto sale, entrambi antichi ma ben distinti metodi di lavorazione per conservare il cibo.
Per un’inversione linguistica mai del tutto spiegata, a Venezia, nel Veneto e nelle zone appartenute alla Serenissima (Bergamo, Brescia, Friuli, Istria, Dalmazia) lo stoccafisso – dal norvegese stokkfisk oppure dall’olandese antico stocvisch, (stock = bastone e visch = pesce), oppure dall'inglese stockfish, cioè pesce da stoccaggio, scorta, approvvigionamento, comunque mutuato dall'olandese antico, con lo stesso significato di "pesce bastone" - viene chiamato bacalà.
I prelibati bacalà mantecato (veneziano) e bacalà alla vicentina sono dunque fatti con lo stoccafisso. Nel versante tirrenico, invece, si è conservata la denominazione originaria: baccalà è il merluzzo sotto sale, non quello essiccato.
Il personaggio storico che ha segnato le sorti culinarie dello stoccafisso nella tradizione italiana è Pietro Querini, mercante, navigatore, nonché Senatore della Repubblica di Venezia nel XV secolo.
[a. m.] Pietro Querini è il nobiluomo capitano della caracca "Cocca Querina" partita da Creta il 25 aprile 1431 con a bordo sessantotto marinai, carica di vino, spezie e altre mercanzie di valore, diretta nelle Fiandre, mai giunta a destinazione, scomparsa a settembre all’imbocco della Manica e finita alla deriva nell’oceano in pieno inverno. A Venezia lo si crede morto, ma sorprendentemente, trascorsi ventuno mesi dalla partenza, ritorna in patria con i pochi compagni d’avventura rimasti, dopo un lungo percorso a piedi e a cavallo attraverso la Svezia e la Germania.
Che cosa era accaduto? La "Cocca Querina", sorpresa da ripetute tempeste dopo aver superato Capo Finisterre, disalberata e resa ingovernabile dai danni al timone, fu portata fuori rotta al largo dell'Irlanda sempre più verso ovest, per diverse settimane, e sospinta dalla Corrente del Golfo nei mari del Nord sopra il Circolo polare artico. Parte dei marinai aveva già perso la vita. L'equipaggio, il 17 dicembre 1431, decise di abbandonare il relitto semiaffondato ancora capiente di «800 barili di malvasia, cipressi lavorati, pepe, gengiovo, ed altre ricche merci», e si divise in due gruppi tirando a sorte, 21 sullo schiffo (una piccola scialuppa), 47 su una lancia più grande, compresi i tre ufficiali: il capitano e i due luogotenenti, Nicolò di Michiel, patrizio veneto, e Cristoforoo Fioravante, comito. La prima barca di salvataggio sparisce presto col suo carico di uomini. La seconda scampa all'affondamento e, dopo altre settimane alla deriva fra razionamenti di viveri e morti continue, senza mai riuscire ad avvicinarsi ai sassosi scogli che intravedevano, approdano fortunosamente il 14 gennaio 1432 entro una «valle posta fra duoi prossimi monti» innevati dell'isola di Sandøy (un posto «in Culo Mundi» come lo chiamò con il suo linguaggio colorito nel diario il navigatore della Serenissima), nell’arcipelago norvegese delle Lofoten: non ci sono più che 21 sopravvissuti dei 47 saliti a bordo. Bivaccano sulla costa fino all'inizio di febbraio nutrendosi di molluschi e di un grande pesce spiaggiato, accendendo fuochi per scaldarsi, fino all'arrivo di soccorsi dagli abitanti dell'isola di Røst (chiamata Rustene dai veneziani) che, avendoli avvistati proprio grazie a quei fuochi, salvano gli ultimi 11 superstiti, essendo spirati nel frattempo altri loro compagni.
Rifocillati e curati, godono di disinteressata ospitalità nelle case dei pescatori («si dimostrarono molto benevoli – raccontarono Cristoforo Fioravante e Niccolò di Michiel nella loro relazione per il Senato della Serenissima – et serviziosi, desiderosi di compiacere più per amore che per sperare alcun servitio o dono»), convivendo in una per loro inusuale promiscuità di uomini e donne(1). Conoscono per la prima volta e assaporano i pesci secchi, duri come il legno, di cui si cibano gli isolani, i stocfisi, merluzzi fatti essiccare senza sale al vento e al sole propizi di quelle latitudini boreali e resi commestibili da un trattamento particolare: «quando i voleno mangiare l bateno con el roverso de la manara e fali come nervo, componeno butiro e specie per darli sapore». Lo stoccafisso è anche «grande e inestimabile mercadantia per quel mare de li Alemanii», perché una volta all'anno a maggio viene portato a Berge (Bergen) in Norvegia, «dove a quella muda di molte parti vengono navi ... cariche di tutte le cose che nascono in Alemagna, Inghilterra, Scoccia e Prusia, dico necessarie al vivere e vestire», per essere barattato con ogni genere di mercanzia di cui hanno bisogno.
A metà primavera, Pietro Querini e i suoi, rimessi in sesto dal generoso trattamento ricevuto, furono pronti per tentare di tornare a Venezia. Il 15 maggio del 1432, anch'egli s'imbarcò con i pescatori isolani diretto a Bergen, fornito di 60 stoccafissi essiccati come merce di scambio per assicurarsi le risorse per il viaggio, lungo e costoso. Fatto scalo a Trondheim, udendo che «gli Alemanni erano in guerra col re di Norvegia», ritenne prudente non andare più oltre e s'informò quale altra via più opportuna vi fosse per raggiungere la Germania oppure l'Inghilterra. Gli venne consigliato di andare a trovare un ricco veneziano di nome Zuane (Giovanni) Franco, fatto cavaliere dal re di Dacia (Svezia), proprietario di un castello a Stinchimborgo (Stegebord) nell'East-Gothland. Camminò cinquantatrè giorni verso levante per coprire i 700 km di distanza, sulla via che passava anche per Vadstena, terra natale di Santa Brigida(2). Accolto con simpatia e generosità dal concittadino, si trattenne presso di lui per qualche tempo, finché alla «solenne festa e indulgenza di santa Brigida», celebrata ogni primo d'agosto (dove «innumerevoli persone da ogni parte come Alemagna, Olanda, Scozia, fin oltre da 600 miglia erano concorse»(3)) venne a sapere che al porto di Lodese, distante 8 giornate, «v'erano due navi, una per Alemagna ossia per Rostoch, l'altra per Inghilterra». Ricevuti aiuti e cavalli dal loro ospite, per primi partirono per la Germania Nicolò di Michiel, Cristoforo Fioravante e Ghirardo da Vinsescalco, e pochi giorni dopo, il 14 settembre, Querini con gli altri sette per l'Inghilterra. Sbarcati all'Isola di Ely, passarono per Cambris (Cambridge) e arrivarono a Londra, trovando ospitalità per due mesi presso l'allora potente comunità veneziana che risiedeva sul Tamigi. Venezia non era più un miraggio. La raggiunse finalmente il 12 ottobre 1432, cavalcando per 24 giorni attraverso l'Europa, via Basilea, accompagnato da Girolamo Bragadin, uno dei mercanti londinesi.
Non aveva dimenticato di essere un mercante, portando dai lontani mari del Nord alcuni esemplari di stoccafisso. Tentò di proporne al Senato acquisti massicci come provvista da imbarcare - per le sue caratteristiche di conservazione nel tempo - sulle navi della Serenissima Repubblica. Con scarso successo per la verità... Comunque, l'anno seguente, convinto che prima o poi lo stoccafisso avrebbe sfondato anche sulle terre controllate da Venezia, Querini tornò dai suoi amici di Røst(4) per scambiare vino e spezie con stoccafisso.
Note
I racconti originali del naufragio della Cocca Querina, tramandati dai codici manoscritti - quello di Pietro Querini, patrone della nave, dal Codice Vaticano Vat. Lat. 5256 (Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana) collazionato col frammento marciano It. XI 110 7238 (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana) e quello di Cristofalo Fioravante, uomo di consiglio, e Nicolò de Michiele, scrivano, dal Codice marciano ms. It. VII 368 (7936) scritto «per lo riferire», cioè raccolto, dall’umanista fiorentino Antonio di Corrado de Cardini - sono stati pubblicati per la prima volta integralmente e tra loro messi a confronto (Viella, 2019) con edizione, note e cura di Angela Pluda che ne aveva già fatto oggetto di tesi di laurea nel 2007 presso l'Università di Padova con la supervisione del prof. Manlio Pastore Stocchi. Il volume ancora facilmente reperibile è: “Infeliçe e sventuratta coca Querina”. I racconti originali del naufragio dei Veneziani nei mari del Nord, Edizione e note a cura di Angela Pluda, Introduzione di Andrea Caracausi e Elena Svalduz, Viella, 2019 | viella.it/libro/9788833130996
Le due relazioni di Pietro Querini e dei suoi luogotenenti sono state conosciute e lette soprattutto nella versione rielaborata sui manoscritti originali da Ramusio inserita un secolo dopo nel secondo volume della raccolta Delle navigazioni et viaggi, in prima edizione nel MDCLIX (1559) in Venetia nella Stamperia de Giunti: Il naufragio di M. Pietro Quirino gentilhuomo Venetiano, portato per fortuna sessanta gradi sotto la Tramontana. Ramusio è un «abile manipolatore» (Angela Pluda, p. 24): lingua, sintassi e contenuti sono spesso alquanto diversi, per volontà non certo di falsificazione, ma di normativizzazione linguistica (regolarizzazione della grafia, toscanizzazioni di desinenze verbali e lessemi, sistemazioni sintattiche, aggiunta di informazioni e dettagli, riesposizioni più ampie o più sintetiche di blocchi di testo, drammatizzazione di scene che originariamente sono di natura più prosaica, amplificazione del concetto della “misericordia di Dio” quando si determina una svolta del corso degli avvenimenti da negativo a positivo…) a garanzia di maggiore diffusione e leggibilità dei contenuti. Il veneziano popolare del Fioravante e del De Michiele come pure il dialetto più controllato di un nobile veneziano fornito di istruzione scolastica qual era Querini, unitamente a un certo disordine espositivo, non erano il veicolo più consono per raggiungere un pubblico non solo veneziano e non solo di medio-bassa cultura.
L'opera di Ramusio si può leggere nelle edizioni Cinquecentine o in quella curata da Marica Milanesi per Einaudi (1978-1988)
Prima che Ramusio lo desse alle stampe, il viaggio di Querini veniva ricordato nel famoso Mappamondo di fra’ Mauro (1457-1459): «questa provincia di Norvegia scorse misier Piero Querino come e noto». Nei secoli successivi il diario di viaggio fu segnalato dapprima nell'Ottocento (1818 e 1881) e successivamente negli anni Trenta del Novecento. Agli anni Cinquanta risale una mostra documentaria sui navigatori veneti insieme ai più famosi Pigafetta e Magellano.
In tempi recenti s'è registrato nuovo interesse per la storia del naufragio della Querina, legato alla duratura tradizione della narrativa di viaggio e alla cultura gastronomica. La rinnovata fortuna divulgativa del diario del comandante della Querina è infatti dovuta non secondariamente al racconto della pesca, della conservazione e del consumo dello stoccafisso. Di queste riprese "romanzate", che attingono ora dai manoscritti ma più spesso dal testo del Ramusio, restano godibili
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Menarósto, il girarrosto, addetto agli spiedi su brace, ha il suo grande proscenio nelle grigliate estive e in ogni festa patronale o delle proloco che si comandi. Quest'anno, anche su terrazze e giardini di casa, causa lockdown e susseguente momento liberatorio attuale (forse...). Gran rispetto per la grande professionalità di alcuni (pochi) o almeno la passione di altri (i più) ... ma quando ognuno di noi si accingerà a girare l'arrosto suo non dimentichi di poter essere un "menarosto" anche in altro senso, non referenziale, di "girare a vuoto".
Menarósto detto di un individuo - fuori del lavoro al braciere e allo spiedo - non ha preso una piega neutra o positiva, ma invece negativa: inconcludente perditempo o chiaccherone instancabile, persino seccatore noioso. Si equipara a roda (da molin), anch'esso detto di chi parla a lungo senza stancarsi (linguaveneta.net/Dizionario-Veneto-italiano-Piccio | 162.235.214.76/piccio/dicty). Menarósto in veneziano arriva a significare "disobbediente, impertinente, birichino” (Veneziani a Tavola - Sir Oliver Skardy | venezianews.it).
Godiamoci un po' di riferimenti all'uno e all'altro significato:
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