Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
Franz Paludetto | Oderzo, 30.6.1938 - Rivara (To), 16.5.2023
[a. m.] Di Franz Paludetto, nato ad Oderzo il 30 giugno 1938, non avevo finora mai sentito parlare. È stato uno dei più importanti ed esuberanti galleristi d’arte contemporanea, figura vulcanica della scena artistica torinese e internazionale, instancabile viaggiatore e talent scout di artisti.
Attraverso i social, pochi giorni fa, il figlio Davide ha dato notizia della morte del padre, a 85 anni, nella propria abitazione, il Castello di Rivara, a 30 chilometri da Torino nelle valli del Canavese, divenuto – oltre che sede espositiva d'elezione – soprattutto Museo d’arte contemporanea.
Ad Oderzo aveva vissuto fino alla metà degli anni Cinquanta, quando arrivò a Torino per «caso», sbagliando treno. Lo “sbarco casuale” fu una nuova ripartenza. «Mi sento torinese», ammetteva a distanza ormai di molti d’anni, nell’intervista del 2014 con Claudia Giraud[1], benché i suoi genitori fossero triestini, anzi di Pirano, e sua nonna viennese. Era capitato che, diretto a Basilea, dovendo cambiare a Milano e prendere il treno per Chiasso, fosse salito invece, alle 4 e mezza di mattina, un po’ confuso, sul treno per Chivasso. Così si era trovato a Torino, a novembre, in una città grigia, piena di nebbia, e grazie all’indicazione di un tassista era riuscito a farsi portare «da una signora che affittava ai sottotenenti». Non sapeva che cosa avrebbe fatto, ma lì rimase.
Qualche premonizione del suo futuro fra arte e pittura gli si era manifestata da decenne a Oderzo: «ho conosciuto – in quel piccolo paese, dove vivevo per ragioni politiche di mio padre – tre artisti che frequentavo perché mi interessava il loro modo di dipingere, di vedere le cose, specialmente i panorami». E ancora dall’infanzia fatta in montagna vicino a Cortina, dove s’era trasferito, pensava di aver ricavato sia l’amore per la natura sia il gusto di vivere «sempre a una certa altezza».
Per Fabio Vito Lacertosa, curatore di tante mostre volute dal gallerista, è da cercare nel trauma storico patito la sorgente dell’inesausta inquietudine che l'ha sempre mosso: «instancabile viaggiatore, investigatore di pensieri nuovi, avventuriero e talvolta incosciente navigatore di acque non battute da alcuno».
«Classe 1938, Franz Paludetto nasce dalla parte sbagliata della Storia. Suo padre, infatti, è podestà di [...] Oderzo[2]. Viene sradicato ben due volte dall’infanzia: la prima per via del regime militare cui è sottoposto in famiglia; la seconda, alla fine della guerra, quando osserva cambiare il suo status e saggiando lo scotto dell’umiliazione pubblica, trattato come “il figlio del fascista”. È appena un bambino e ovviamente non ne capisce il perché, ma da allora la sua vita vira nel segno della ricerca di un’identità e di un posto nel mondo che fosse solo suo e nel quale nessuno potesse mettere definitivamente becco. Da questo angolo visuale nasceranno tante scelte anticonformiste e scabrose degli anni ’60 e ’70, e tanti sodalizi successivi con il mondo di matrice tedesca, una cultura che si trovava a fare i conti con la storia attraverso un tipo di approccio molto affine al suo vissuto personale».
Fermatosi a Torino, fa il barista in un chiosco davanti alla Fiat a Mirafiori; poi ha «una botta di fortuna»: va a lavorare al Rifugio Torino sul Monte Bianco e, alla morte del gestore, ha la possibilità di diventare responsabile dell’albergo-rifugio. «Lì feci la prima mostra nel ’58, vendetti il primo quadro a Courmayeur, all’Hotel Lo Scoiattolo. Fino agli Anni Sessanta feci un po’ di soldi, poi tornai a Torino e incontrai quella che divenne mia moglie».
A Torino nel ’68 è ancora un venditore d’auto in una concessionaria, ma di fronte all’Accademia Albertina di Belle Arti. Vede professori, ascolta al bar le loro discussioni, sente l’entusiasmo dei giovani. Chiede ad alcuni se vogliono fare una mostra in un piccolo spazio a fianco del negozio, ma valutandone la competizione e l’indecisione di stare assieme per proporre le proprie idee, decide lui di aprire la sua prima galleria, Franzp, con personaggi come Marco Gastini, Ezio Bersezio e Nanni Cortassa.
L’incontro con Gina Pane[3], performance artist francese, lo portò di lì a poco ad inaugurare un nuovo spazio, la Galleria LP220, diventando anche socio di Jean Larcade (il gallerista di Yves Klein[4]), e da quei due piani in via Carlo Alberto partì «tutta la sua storia». Altri spazi nasceranno in piazza Solferino, in via Susa, in via Mazzini, fino all’avventura che sembrava “follia” al Castello di Rivara, avviata nel 1985, ospitando alcuni protagonisti dell’arte d’avanguardia della seconda metà del ‘900.
Dopo le performance della giovanissima Gina Pane (1969-70), fu la volta delle mostre di Luigi Ontani[5], Roman Opalka[6], Tania Moreaud, Jean Pierre Reynaud e Joseph Beuys nei primi anni Settanta. Quindi le performance di La Monte Young, Marian Zazeela, Pandit Pran Nath e Terry Riley (1971). Poi, l’incontro con l’azionismo viennese di Hermann Nitsch e Arnulf Rainer (1972-1973). A seguire, lungo gli anni Settanta, Giuseppe Chiari, Ugo La Pietra[7], Gianni Piacentino[8], Giorgio Ciam, Aldo Mondino, Pier Paolo Calzolari, ancora Luigi Ontani, e le attività di Calice Ligure con il progetto A Calice ligure non c’è il mare.
Durante gli anni Ottanta le numerose mostre di Alighiero Boetti, Edward Kienholz[9], ancora Calzolari Nitsch e Mondino, Paul Renner[10], Pino Pascali. Dal 1985 si susseguono le molte mostre al Castello di Rivara: Sergio Ragalzi, Salvatore Astore, Ferdi Giardini; la collettiva annuale “permanente” denominata Equinozio d’Autunno; l’incontro degli artisti inglesi, Julian Opie, Angela Bulloch[11], Richard Wentworth[12]…, e tedeschi, Stephan Balkenhol[13], Bernd & Hilla Becher, Isa Genzken, Candida Höfer ... (nel 1989); il gruppo di matrice milanese (ma non solo) composto da Umberto Cavenago, Marco Mazzucconi, Maurizio Arcangeli, Luca Vitone e Maurizio Vetrugno, dalla fine degli anni Ottanta.
Gli anni 90 sono gli anni di grandi mostre personali (Candida Höfer e Hermann Pitz, John Armleder, Dan Graham, Gordon Matta-Clark, Paul Thek) e la collettiva Itinerari con le installazioni site-specific di Felix Gonzales-Torres. Del 1992 è «celeberrima e celebrata» la mostra Viaggio a Los Angeles con le residenze – al Castello – di Raymond Pettibon, Charles Ray, Paul McCarthy, Larry Johnson, Lari Pittman, Jeffrey Vallance.
Sempre del 1992 è Il gioco del pensiero a cura di Angela Vettese e Una Domenica a Rivara con il soggiorno di Maurizio Cattelan che termina con la realizzazione dell’iconico intervento Fuga dal Castel Vecchio che diede il titolo alla mostra.
Nel 1993 si ammirano le mostre collettive Time to Time, Menschen Welt e le mostre personali di Allan McCollum e di Nicus Lucà. Nel 1996 Pittura, nel 1998 Boris Michailov e nel 1999 Miriam Cahn. Nei primi 2000 le mostre Figurare e Paloma Varga-Waisz. Ogni anno la grande Equinozio d’Autunno. Si fa intanto centrale l'iniziativa del Centro di Documentazione.
Agli inizi degli anni 2000, Norimberga – città sempre presente tra i viaggi di Paludetto – è ben più che una semplice deviazione: insieme alla seconda moglie Carolin Lindig, vi sposta per anni parte la sua attività creando la Galleria Lindig in Paludetto, «ponte “artistico” ideale tra Italia e Germania che ha caratterizzato gli ultimi 25 anni della Sua carriera».
Nel 2010 il Castello di Rivara apre una prima vetrina a Roma, nel quartiere San Lorenzo, con una serie di mostre personali di artisti tedeschi. Con l’esperienza romana sono coinvolti anche Daniela Perego, Elvio Chiricozzi, Oreste Casalini… Nel 2011 si apre anche una seconda vetrina a Torino, in via Artisti, con il nuovo spazio la Davide Paludetto Arte Contemporanea.
Una grande mostra del 2011, Su Nero nerO, indaga il colore e i materiali in tutte le sue forme[14].
Nel secondo decennio del 2000, mentre si consolida il Progetto Permanente “Museo di Arte Italiana 1985-2015” e nasce ufficialmente il Centro di Documentazione Cartaceo del Castello di Rivara (attualmente a cura di F. Arra), ricorrono gli artisti Salvatore Astore, Maura Banfo, Domenico Borrelli, Adriano Campisi, Carlo D’Oria, Ferdi Giardini, Paolo Grassino, Enrico Iuliano, Paolo Leonardo, Nicus Lucà, Sergio Ragalzi, Francesco Sena, Luigi Stoisa, Maurizio Tajoli e Guido Airoldi. Nel 2018 si fa Gotico Industriale (a cura di F. V. Lacertosa), un passaggio storico della città di Torino dagli anni ’80 ai ’90, e nel 2021 è la volta di Pittura Ambiente I, «un ritorno importante alla scelta di giovani che raccontino la contemporaneità e la pittura nel rapporto con i luoghi del Castello». Giovani come Luca Arboccò, Ruggero Baragliu, Rodrigo Blanco, Samuele Pigliapochi, Angelo Spatola, Giovanna Preve, Olga Sosnovskaya; e dal testo critico si legge: «È dunque curioso quell’impegno degli esseri umani nel decretare la morte della pittura, quando in realtà è sempre la pittura a dichiarare la morte delle cose».
È difficile, a così poca distanza dalla morte, un bilancio – per chi non l'ha conosciuto – esistenziale e culturale delle idee e dell'operato di Franz Paludetto.
Serviamoci, per alcune suggestioni, delle note di Fabio Vito Lacertosa che accompagnano il necrologio:
Fino agli ultimi giorni, una doppia natura lo ha sempre contraddistinto: da una parte il seduttore mondano, comunicatore e girovago per mezza Europa; dall’altra l’eremita, l’inappagato, il centrifugo flaneur circondato da artisti, intento a falciare l’erba del giardino del Castello. Di lui si narra dell’intuito leggendario, della sua capacità inesauribile di risorgere nell’arte dopo esser stato dato per finito più volte, decennio dopo decennio, ma anche di un carattere difficile e imprevedibile.
Nonostante una fascinazione del bel mondo, infatti, era più a suo agio al fianco di chiunque fosse ai margini della vita e della morale borghese, e si definiva appunto “uno strano personaggio ai margini dell’arte”. Per questa attitudine poteva costruire rapporti elettivi ma anche profonde idiosincrasie. Alcuni leggendari disaccordi con artisti o galleristi internazionali sono diventati temi goliardici di racconti e si contrappongono invece ad una serie di collaborazioni internazionali e sodalizi così stringenti da portargli paradossalmente maggiori riconoscimenti all’estero che in patria. Ciò che lascia al mondo è il frutto dello sguardo rivolto verso ogni sommovimento, verso ogni segno che lui ritenesse “significante” e verso ogni nuova occasione di innovare il proprio linguaggio. Nonostante il culto della novità, però, Franz Paludetto ha sempre detestato ogni forma di “consumismo” del pensiero artistico ed ha cercato di essere estraneo al concetto di mode. Per evitare di ricadervi ha messo in atto quella che lui amava definire una “verifica continua”, alternando mostre grandi a mostre piccole (dette di segnalazione) che gli permettevano un confronto perenne sulla “spinta” di una determinata scelta effettuata. Fino agli ultimi giorni di vita la sua ossessione era rimasta quella di capire quali fossero i nuovi movimenti, le ideologie a venire di un’era in cui tutti i riferimenti sicuri sembravano spariti alla vista.
Torna a Motta di Livenza − anticipato quest’anno rispetto ai consueti tempi estivi delle precedenti quattro edizioni − il meritorio Festival Luchesi, dedicato al grande compositore e organista di origini mottensi. Non si può non notare come le date prescelte si spalmino nello stesso periodo della campagna elettorale per il rinnovo dell'amministrazione comunale, ma non dubitiamo che prevarrà il significato musicale della manifestazione per gli appassionati e gli estimatori del musicista.
Il programma offre un nutrito ventaglio di proposte (localizzate in diverse chiese e luoghi) per conoscere l'opera di Luchesi e l'intorno culturale-musicale in cui operò.
Conosciamo Luchesi
Museo Bailo - Fino al 28 maggio 2023
Nel cinquantenario della morte (29 aprile 1972) Juti (Luigi) Ravenna, i Civici Musei di Treviso stanno dedicando al pittore e critico d’arte annonese una retrospettiva al Museo Bailo, a partire dall'importante nucleo di opere che la Pinacoteca conserva.
La mostra è curata da Fabrizio Malachin ed Eugenio Manzato e durerà fino al 28 Maggio 2023.
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[Ada Toffolon] Si è aperta il 3 febbraio scorso al Museo Bailo di Treviso la mostra dedicata al pittore Juti (Luigi) Ravenna. Il titolo "Juti Ravenna (1897-1972) da Annone a Venezia a Treviso" riassume il percorso umano e artistico di questo esponente della pittura veneta del Novecento, che nacque a Spadacenta di Annone Veneto e concluse a Treviso i suoi giorni nel 1972.
Il paese natale dedicò a questo suo figlio illustre una mostra retrospettiva in occasione dei cento anni dalla nascita e l’anno scorso, per i 50 anni dalla morte, lo ha ricordato con un convegno. Nella rassegna allestita nel 1997, a cura di Franco Batacchi, veniva presentato come un «antidivo, mai mondano, schivo e appartato», che, per dirla con le parole di Vittorio Sgarbi, «combatteva il destino di dimenticato in vita».
Rileggendo gli appunti biografici emerge una vita dedicata all’arte: aveva vent’anni quando, soldato nella prima guerra mondiale, tracciava i suoi schizzi raffiguranti scene dal fronte.
Nel 1920 è tra i giovani artisti di Ca’ Pesaro a Venezia e, contemporaneamente, frequenta l’Accademia di Belle Arti. Espone più volte nella città lagunare, dove conosce e frequenta tra gli altri Gino Rossi e Pio Semeghini.
A Venezia vive a Palazzo Carminati, grazie al sostegno che l’Opera Bevilacqua La Masa riservava ai giovani artisti poveri ma meritevoli e, oltre ad ospitarli, organizzava mostre dei loro lavori. Negli anni tra le due guerre espone, oltre che a Venezia, a Firenze, a Padova, a Fiume.
A Venezia per un certo periodo divide l’alloggio con Filippo de Pisis, presentatogli dal poeta Vincenzo Cardarelli, esegue su commissione pale e affreschi per il Duomo di S. Donà di Piave, per la cappella del Collegio Alighieri di Vittorio Veneto, per la residenza privata di Giovanni Comisso, per una villa privata di Castelvecchio.
In questo periodo conosce Giovanni Mesirca, medico e critico d’arte, il suo maggiore amico ed estimatore, «affascinato dal mistero di un uomo che rinuncia al mondo per dedicare la sua vita all’arte» come scrisse Batacchi a proposito di questa amicizia, pure fondamentale per far conoscere agli studiosi la figura di Juti Ravenna.
Nel 1947 si trasferisce a Treviso, forse perchè «lo strutturalista Ravenna, severo difensore del coerente rapporto tra costruzione della forma ed uso del colore in relazione alla superficie» non si ritrova più nel nuovo vento culturale che soffia su Venezia. E trova più congeniale la città del Sile «con la sua forte corrente realista, naturalistica o figurativa». È lo stesso Juti a scrivere che a Treviso «il clima prodigioso e la cordialità della gente furono stimoli risolutivi al mio lavoro sereno e proficuo».
Una stagione feconda che lo vede protagonista di varie mostre tra cui la rassegna di Palazzo Strozzi a Firenze sulla Pittura italiana della prima metà del Novecento; nel 1969 pubblica il volume Juti Ravenna, una vita per la pittura, curato da Mesirca per le edizioni Rebellato, che raccoglie numerosi contributi critici dell’artista.
Dopo la morte, 1972, la sua opera trova spazio in varie esposizioni, come la retrospettiva del 1992 a Ca’ dei Carraresi con il catalogo curato da Marco Goldin. Mentre lo stesso museo Bailo ospita nella sua pinacoteca un importante nucleo di sue opere.
Nell’omaggio che ancora una volta, ma sono passati anni e generazioni, la sua città di adozione gli dedica, viene giustamente rivalutata la fase iniziale del suo percorso: gli anni in cui giovanissimo apprende il disegno alla Scuola Arti e Mestieri di Motta e comincia a dipingere i volti e i luoghi della sua Spadacenta. L’opera di Juti Ravenna è stata avvicinata al "post impressionismo veneto", che accomuna molti giovani artisti della cerchia veneziana, e si trasferisce nel lirismo pittorico dei paesaggi, nelle luci, nei colori e nelle atmosfere che dalla campagna annonese a Venezia e poi a Treviso ne hanno definito la cifra stilistica.
[ Ada Toffolon, Un Annonese da riscoprire: Juti Ravenna "antidivo, mai mondano, schivo e appartato", «Il Popolo», 19 marzo 2023, p. 24 | Leggi pdf ]
Info
Domenica 26 febbraio presso la Sala Auditorium del Museo del Duomo di Oderzo, alle ore 17, Raffaello Padovan presenterà Le memorie del pittore Giulio Ettore Erler, un'autobiografia inedita. Introdurrà Maria Teresa Tolotto, direttrice dell'Archivio e del Museo del Duomo.
Giulio Ettore Erler (Oderzo, 1876 - Treviso, 1964), trasferitosi a Treviso,visse e operò, fino al 1944 negli spazi interni di Porta Santi Quaranta, e fu insegnante di disegno presso il "Riccati" ma, venuto in contrasto col regime fascista, abbandonò l'insegnamento alla fine degli anni venti. Fu amico e sodaIe di gran parte delle varie personalità della cultura, non solo artistica, trevigiana della prima metà del XX secolo.
Erler raccolse in una serie di quaderni i ricordi delle esperienze di vita dei suoi primi cinquant'anni circa. La lettura di quei manoscritti (poi dattiloscritti dalla sua collaboratrice Irma Simioni) ci permette di entrare e vivere nel clima di un periodo storico che va dall'ultimo trentennio del XIX secolo ai primi due decenni del successivo, visto tuttavia con gli occhi di un pittore e forse per questo più singolare e interessante. Si ritrovano curiosi aneddoti inaspettati relativi ai maestri di due Accademie di Belle Arti, quella veneziana e quella milanese, che Erler frequentò da studente e pure da insegnante. Così come taluni episodi storici ben conosciuti, da lui vissuti in prima persona, quale ad esempio la storica e tragica vicenda della repressione della sommossa popolare per ordine del generale Bava Beccaris e le immagini della Treviso sotto i bombardamenti austroungarici della Prima Guerra Mondiale.
Sui giorni di passaggio tra gennaio e febbraio non mancano leggende e tradizioni che ancora si festeggiano qua e là sul territorio. Sono in particolare gli ultimi tre giorni di gennaio dal 29 al 31 (oppure, scalando di un giorno, gli ultimi due giorni di gennaio e il primo di febbraio), i cosiddetti giorni della merla, "i più freddi dell'anno", e il 2 febbraio, la candelora.
Della candelora ho già avuto occasione di parlare nel 2020 all’inizio della pandemia quando la data "02.02.2020" ricorreva – evento molto raro – in forma palindroma (che non cambia cioè se viene letta da sinistra a destra o viceversa; dal greco antico πάλιν, pálin, «di nuovo», e δρóμος, drómos, «percorso», «che può essere percorso in entrambi i sensi»). → 02.02.2020 La candelora palindroma
Ora vorrei proporvi un excursus sui giorni della merla.
Già per la candelora si tramandano numerosi proverbi dialettali meteorologici − in ogni regione − cui si attribuisce una capacità di prevedere la fine dell'inverno, anche in contrasto fra loro (cfr. it.wikipedia.org/wiki/Per la santa Candelora se nevica o se plora dell'inverno siamo fora).
Il più noto da noi è: Da la Madona Candeòra | de l'inverno semo fora; | ma se xe piova e vento, | de l'inverno semo drento (o nella quasi corrispondente vulgata triestina: La Madona Candelora, se la vien con sol e bora | de l'inverno semo fora; | Se la vien con piova e vento, | de l'inverno semo drento).
Un po' più movimentata e scettica suona però una sua continuazione:
«Ma – disse il villano alla Candelora – acqua o neve venga giù, che l'inverno non c'è più».
Disse allora il bove: «che nevichi o che piova, l'inverno se ne va quando l'erba è sulla proda».
Disse il vecchio infreddolito: «l'inverno non se ne va prima di San Vito».
Disse la vecchia col caldano: «l'inverno starà finché la foglia di fico come un palmo sarà».
Si voltò l'asino e disse: «non viene il caldo finché tra le stoppie non spunta il cardo».
Rispose la strega: «è cosa sicura che l'inverno arriva quando arriva e dura fin che dura».
Analogamente, osservando le condizioni meteorologiche dei tre giorni della merla, si credeva che sulla base di esse i contadini potessero strologare previsioni sul tempo dei mesi di gennaio, febbraio e marzo. La fondatezza scientifica e statistica non è più questione che meriti di essere discussa attualmente, tanto sono grandi le "anomalie" climatiche verificatesi nei secoli e in questi ultimi anni. Un fondamento empirico possiamo tuttavia immaginarlo per le epoche in cui si può essere formata la credenza.
Altri vecchi adagi in terra della "Serenissima" si dimostrano più attenti ai consigli "salutistici" che alle previsioni del tempo: Se i giorni de la merla fa un fredo beco, | mescola un goto de graspa a un'ombra de proseco. | Ma se per caso te si piutosto vecio, | ciapa su on libro e ficate in leto.
Perché i giorni della merla si chiamano così?
Lasciando perdere la lotteria meteorologica, conserva un qualche interesse folcloristico chiedersi perché i giorni della merla si chiamino così.
Si dispone di una serie di nuclei narrativi smontabili e rimontabili che possono generare svariate combinazioni, alcune più consequenziali, altre sconclusionate.
Un nucleo sorgivo favolistico, ma non autosufficiente, sembra quello remoto del "merlo beffato" (ancor oggi si dà del "merlo" a qualcuno se è ingenuo, credulone, sciocco): il merlo avendo trascorso un gennaio molto temperato e dolce, e vedendo una giornata soleggiata e calda, si credette l’inverno già finito e fuggendo dal suo padrone gridò: «Più non ti curo Domine, che uscito son dal verno!», per pentirsene subito dopo perché si mise a nevicare e la stagione divenne ancora rigida.
Una risonanza quasi letterale di un detto fattosi proverbiale si affaccia anche in un verso di Dante, nell'episodio del XIII canto del Purgatorio, in cui la nobildonna senese Sapìa Salvani espia il proprio peccato insieme con le anime degli invidiosi della II cornice, patendo – come contrappasso – di avere gli occhi cuciti. Richiesta dal poeta di raccontargli di sè, confessa (vv. 119-123):
... e veggendo la caccia, | letizia presi a tutte altre dispari, | tanto ch'io volsi in sù l'ardita faccia, | gridando a Dio: «Omai più non ti temo!», | come fé 'l merlo per poca bonaccia.
La parafrasi di questi versi si può rendere così: vedendo l’inseguimento [dei senesi sconfitti e messi in fuga dai fiorentini a Colle di Val d'Elsa], mi abbandonai a una gioia senza pari, tanto che io sollevai il viso al cielo, con atteggiamento di sfida, e gridai a Dio «Ormai non ti temo più!», proprio come il merlo che in inverno canta [come se fosse già primavera] dopo solo pochi giorni di sole.
Il v. 123 avrà certo alle spalle un'arcaica reputazione del merlo come animale sciocco, in questo caso perché, quando in pieno inverno fa un po' di bel tempo (poca bonaccia), se la canta come se l'inverno fosse passato: «Più non ti curo, Domine, ché uscito son del verno». Che Dante adombrasse qui, però, la diceria sui giorni della merla, indicante proverbialmente i giorni di gennaio più freddi dell'anno, è un'interpretazione non solo troppo estensiva ma soprattutto non necessaria a giustificare la scelta della similitudine usata per Sapìa, un'estrapolazione che anzi la fa fraintendere. Non si dimentichi che di sè la donna aveva appena detto (vv. 109-11): «Savia non fui, avvegna che Sapìa | fossi chiamata, e fui delli altrui danni | più lieta assai che di ventura mia» (Nella mia vita non fui saggia, nonostante mi chiamassi Sapìa, e fui sempre contenta delle disgrazie altrui più che della mia buona sorte); e al verso 113 aggiungerà: «odi s'i' fui, com'io dico, folle» (ascolta come fui sconsiderata). Dante cesella qui una figura retorica etimologica "savia (=saggia)" e "Sapìa (=saggia)" (termini che derivano entrambi dal verbo latino sapĭo, sapĕre, «aver sapore» ma anche «essere saggio») e l'antitesi tra saggezza e follia, che s'instaura tra gli aggettivi savia (v. 109) e folle (v. 113). Perciò, il merlo scomodato nella similitudine è da pensare coerentemente entro questo alone di significati alti, non certo per i giorni della merla.
Comunque sia, quel «Più non ti curo, Domine, ché uscito son del verno»[1] può ben esser servito ad innescare l'immaginazione fiabesca per le leggende della merla, la maggior parte legate a una merla femmina "bianca" (in natura, oltre al classico merlo corvino presente in gran numero anche nelle nostre città, esiste una versione candida molto rara, una marroncina e una striata bianca e marrone). Dei puzzle componibili e scomponibili possiamo vedere subito gli esempi, come già detto, di un nucleo minimale o di una favola più articolata:
Una merla per ripararsi dal gran freddo si rifugiò con i suoi pulcini dentro un comignolo e, rimasti al caldo per tre giorni, quelli più freddi, recuperarono forze e sopravvissero, riemergendo il primo di febbraio tutti neri (o grigi) a causa della fuliggine.
Essendo l'unica merla rimasta in vita diversamente da altri uccelli non sopravvissuti, diede vita a una stirpe di merli neri, che infatti sono i più diffusi. Qui potremmo leggere un tentativo fantasioso di interpretazione del «forte dimorfismo sessuale che si osserva nella livrea del merlo (turdus merula), che è bruna/grigia (becco incluso) nelle femmine, mentre è nera brillante (con becco giallo-arancione) nel maschio» ← Associazione Ornitologica Veneto Orientale | Summa Gallicana)
Una merla dal bellissimo piumaggio bianco (i merli, in origine, non sarebbero stati neri, ma avrebbero avuto le piume candide e soffici come la neve) era regolarmente strapazzata da Gennaio, mese freddo e ombroso, il quale si divertiva ad aspettare che lei uscisse dal nido in cerca di cibo, per gettare sulla terra freddo e gelo.
La merla gli aveva chiesto di essere più breve, ma non era riuscita a convincerlo né a farlo desistere. Per l’anno successivo, stanca della continua persecuzione, decise di fare provviste sufficienti per 28 giorni (tale era allora la durata di gennaio) e si rintanò nel suo nido al riparo per tutto il mese.
Arrivato l'ultimo giorno, sperando di aver ingannato il cattivo Gennaio, uscì dal nascondiglio e svolazzava cantando e fischiando per sbeffeggiarlo. Il permaloso Gennaio per vendicarsi chiese in prestito tre giorni a Febbraio e si scatenò con bufere di neve, vento, pioggia. La merla per resistere a tanto gelo si riparò in un comignolo per cui saliva il caldo fumo di un camino acceso, acquattata per tre giorni.
Esaurita la bufera, uscì e riprese a volare. Era sì salva, ma la fuliggine aveva irrimediabilmente annerito (o ingrigito, secondo altro racconto) le sue belle piume bianche e da quel momento i merli sarebbero rimasti per sempre di questo nuovo colore.
Ê innestato qui un prerequisito di ordine storico: una diversa remota configurazione del calendario dei mesi. Per capire una richiesta di prestito di tre giorni di gennaio a febbraio, occorre figurarsi un tempo in cui gennaio avesse solo 28 o 29 giorni, come nel calendario arcaico romano cadenzato originariamente su base lunare e poi luni-solare (anche se febbraio in verità non ne ha mai avuti 30 o 31 da poterne cedere tre...). Nella riforma di Numa Pompilio (VIII sec. a. C.) quando furono inseriti i due nuovi mesi Ianuarius e Febrarius, il mese di gennaio contava solo 28 giorni. Col calendario "giuliano" (introdotto da Giulio Cesare, pontifex maximus nel 46 a. C.) gennaio divenne di 31 giorni mentre febbraio di 28.[2]
In apparenza più realisticamente ambientata in un inverno molto rigido in una Milano "di tanto tempo fa", è la storia, molto simile a quella sopra citata, di una famigliola di merli.
Tutta la città, le strade, i giardini erano coperti dalla neve scesa copiosa. Dentro il nido sotto la grondaia di un palazzo in Porta Nuova, mamma merla, papà merlo e tre piccoli uccellini nati dopo l’estate (che a quel tempo avevano le piume bianche come la neve) soffrivano il freddo stentando a sfamarsi, perché le poche briciole di pane che cadevano in terra dalle tavole degli uomini venivano subito ricoperte dalla neve. Per non morire tutti di fame e di freddo, al papà merlo dopo qualche giorno senza nulla da mangiare non restò che una decisione: partire a cercare il cibo dove la neve non era ancora arrivata. E comunicò alla moglie che intanto l'avrebbe aiutata a spostare il nido sul tetto del palazzo, a fianco del camino, per aspettare il suo ritorno senza patire freddo.
Avvicinato il nido al camino e partito il papà, la mamma e i piccoli poterono scaldarsi tra loro e grazie al fumo che usciva tutto il giorno. Tornato a casa dopo tre giorni, il papà quasi non riuscì più a riconoscere la sua famiglia, perché il fumo nero aveva tinto del suo colore tutte le piume degli uccellini. Per fortuna da quel giorno l’inverno si fece meno rigido e i merli riuscirono a trovare cibo sufficiente per arrivare alla primavera. Da allora però tutti i merli nascono con le piume nere e, per ricordare la famigliola di merli bianchi divenuti neri, gli ultimi tre giorni del mese di gennaio sono detti “i tre giorni della merla”.
Altre arzigogolature pseudostoriche
Sul perché del nome dei "giorni della merla" altre arzigogolature rievocano fatti pseudostorici, apparentemente verosimili ma non documentati, o di evidente invenzione.
Entro la cornice del reale passaggio dal calendario istituito da Numa a quello giuliano riformato, si è immaginato che, al tempo di Mediolanum, Giulio Cesare di ritorno dalle Gallie avrebbe incaricato un certo Cornelio Merula, sacerdote del sommo Giove nonché valente astronomo, di riformargli il calendario. La soluzione escogitata fu prendere a prestito tre giorni di febbraio e aggiungerli a gennaio, chiamati perciò i giorni "di Merula", ma poi – storpiati dal popolino come fa di solito con i nomi di cui non intende bene o non ricorda più il significato – ribattezzati ... "di Merla". ← milano.corriere.it/.../i-tre-giorni-merla-tutta-colpa-giulio-cesare.
A parte questo sconosciuto sacerdote-astronomo Merula, bisogna avvertire che merula – in latino sostantivo solo femminile, come lo è avis, il nome della classe degli uccelli – designa tanto il maschio quanto la femmina, mentre in italiano si è sdoppiato in merlo al maschile e merla al femminile. Il passaggio da merula all'italiano merla femminile si sarà dato facilmente, anche senza storpiatura di un ignorante popolino.
Altre leggende meno note o tramandate solo in ambiti locali sono legate al territorio e non all’animale.
A essere protagonisti in una di queste sono due giovani sposi, Merlo e Merla. Una volta celebrate le nozze al di là del Po, per tornare a casa propria dovrebbero riattraversare il fiume, ma le condizioni climatiche avverse li bloccano a casa di alcuni parenti. Dopo tre giorni la coppia decide di attraversare il fiume ghiacciato. Merla ci riuscì, perché era leggera, ma Merlo ruppe il ghiaccio con il suo peso e morì sprofondando nelle acque gelide.
Il pianto di Merla fu inconsolabile: si dice che lo si senta ancora nelle notti di fine gennaio, scambiato per i sibili del vento. In ricordo di questa tragedia, le giovani in età da marito si recavano sulle rive del Po in quegli stessi giorni per cantare una canzone propiziatoria, il cui ritornello dice: «E di sera e di mattina la sua Merla poverina piange il Merlo e piangerà».
Il fiume Po completamente gelato è coprotagonista anche di due altre storie, che si ricavano da un libro del 1740 di Sebastiano Pauli (Modi di dire toscani ricercati nella loro origine, Appresso Simone Occhi, Venezia, MDCCXL, p. 341). Nell'una, bellica, ad esempio, si doveva far passare oltre il fiume un cannone molto grande, chiamato la Merla. Per trasportarlo più facilmente, gli uomini aspettarono gli ultimi giorni di gennaio per farlo scivolare sul ghiaccio del fiume gelato. Nell'altra, di nuovo matrimoniale, invece, una nobile Signora di Caravaggio, che veniva chiamata De Merli, doveva attraversare il fiume Po per andare a prendere marito, ma riuscì a farlo solo nei giorni in cui il fiume era ghiacciato.[3]
Ne mancano infine alcune sempre in area padana a proposito di una cavalla Merla e ancora del fiume ghiacciato, molto deludenti non tanto perché tragiche nell'esito ma soprattutto perché nessun insegnamento mi sembra che se ne possa trarre (← Il mondo del Forna (Blog di Paolo Fornasari): quella di un contadino della pianura Padana, che, attraversando un fiume gelato con il carro trainato dalla cavalla Merla, è inghiottito dalle acque gelide a causa della rottura del sottile strato di ghiaccio; oppure l'altra su uno dei duchi Gonzaga (ma in alcune versioni è Napoleone) che doveva attraversare il Po.
Questo Gonzaga, bisognoso di un riposino, avvertì il suo servo, alla guida del carro, di svegliarlo quando fossero giunti al fiume. Il servo, arrivato sulle sponde del Po, vide che per il freddo intenso degli ultimi giorni le acque erano ghiacciate e, pensando di fare cosa gradita al duca, incitò la sua cavalla, chiamata Merla, per passare col carro sulla lastra ghiacciata. Siccome giudicò la traversata alquanto agevole, non ritenne necessario svegliare il suo padrone. Quando il Gonzaga si destò, il servo gli disse trionfante che «la Mèrla l’ha passà al Po», facendo montare su tutte le furie il Duca, poiché non aveva obbedito ai suoi ordini. Arrivato a destinazione, lo fece impiccare.
Si poteva finire peggio di così, essendo partiti dalla patetica storia di una merla?
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L’interesse creatosi attorno alla mostra di Paris Bordon aperta al Museo di Santa Caterina a Treviso (dal 16 settembre 2022 al 15 gennaio 2023) è il clima adatto per inserire la conferenza e la presentazione delle immagini, che si terranno a Treviso presso la Sala Rosso Coletti del Museo di Santa Caterina, il 21 dicembre prossimo (sotto l’egida del Comune di Treviso, dei Musei Civici trevigiani e dell’Ateneo di Treviso), come anticipazione di una ricerca in corso di Guerrino Lovato, Maria Teresa Tolotto e Claudio Rorato, su una nuova ipotesi attributiva degli affreschi esterni del 1524 e 1525 che ornano i palazzi Saccomani e Salvini a Oderzo.
Ogni occasione espositiva come questa straordinaria su Paris Bordone - che sistematizza il punto di approdo della ricerca critica allo stato attuale – può e deve suscitare anche sollecitazioni ad andare oltre, a riverificare e percorrere-ripercorrere i fondamenti del già noto, a non impedirsi nuove perlustrazioni.
Vedo in questa luce l’ “incursione” del vulcanico iconologo Guerrino Lovato, che ho potuto conoscere nella godibilissima conferenza di domenica 4 dicembre a Oderzo a proposito della rappresentazione nell’arte della figura della “levatrice incredula” presente nelle scene della Natività, ispirate dalla narrazione del Protovangelo di Giacomo e della Legenda Aurea.
Guerrino Lovato, in campo iconografico, agisce con l’occhio e il fiuto di un detective che - estraendo dal proprio interno database popolato di migliaia di iconografie ed iconologie pittoriche e scultoree - compara esemplari, stili individuali e di scuola, simbologie ed allegorie profane e sacre, il tutto rapportato alle culture storicamente determinate che le producono e a cui vanno commisurate. Reduce dall’aver visitato la mostra trevigiana dedicata a Paris Bordon, è da pensare così l’eureka che deve essergli scattato quando, esaminando quel che resta visibile degli affreschi della facciata esterna di Palazzo Saccomani in Piazza Grande e di Palazzo Salvini in Via Umberto I, questi gli hanno evocato uno stile ri-conosciuto: il nome del frescante a cui attribuire i dipinti – rimasto finora irrisolto ma con la probabilità che sia lo stesso per entrambi gli edifici – non avrebbe potuto essere proprio Paris Bordone?
Guerrino Lovato ha chiesto collaborazione a Maria Teresa Tolotto per una articolata “indagine” d’archivio. La sola “illuminazione” iconografica e stilistica non poteva bastare. Per insistere sull’ipotesi attributiva era indispensabile stanare qualche fondamento storico-documentale.
A una settimana dall’appuntamento di presentazione dei risultati di questo lavoro al Museo di Santa Caterina a Treviso, ho chiesto – all’esperta archivista e studiosa di storia locale sia laica sia ecclesiale – che cosa e come abbia ricercato e come e se sia riuscita a corroborare la pista “Paris Bordon”.
Tolotto non è stata avara di informazioni, com’è suo stile e come le detta il suo piacere di condividere le conoscenze e i dati storici che spesso “resuscita” col suo scavo archivistico.
«Guerrino Lovato ha visto nelle immagini, o meglio in quel che resta di quelle immagini, la mano e la fantasia “costruttiva” di un giovane genio quale il Paris. Ha affiancato l’esame di stampe di inizio '500 (essendo le date ricavabili dai due palazzi opitergini il 1524 e il 1525) per cogliere la composizione e il messaggio iconografico che il committente voleva esprimere con questo lavoro. Ma soprattutto ha riletto le immagini contestualizzandole nella storia della città e di alcuni elementi con i quali questa da sempre convive, primo tra tutti l'acqua e – in questo caso, ancor più specificamente - i mulini.
Dal canto mio ho riveduto i documenti, per altro già pubblicati in calce al catalogo stampato nella precedente mostra a Treviso su Paris Bordon, “Codice diplomatico bordoniano”, curato da Giorgio Fossaluzza (in Paris Bordon, Catalogo della mostra - Treviso 1984, A cura di Eugenio Manzato, Electa, Milano, 1984, pp. 115-140) nel quale sono riportati i documenti d'archivio relativi al pittore e la biografia scrittane dal Vasari.
La rilettura è partita per cogliere, in prima analisi, chi e in quali fondi questi documenti erano conservati, per capire se il Paris avesse un Notaio di riferimento con il quale stendesse atti e commesse; e congiuntamente continuare a consultare quel fondo se per caso c'erano dei collegamenti con Oderzo. Sono passata poi - visto che solitamente non usa lo stesso notaio se non per cose strettamente private e relative alle sue proprietà - a considerare tutte le informazioni che queste trascrizioni potevano darci. Non ho tralasciato né il carattere dell'artista come emerge dalla biografia (che lo descrive come uomo schivo, non incline ad ingraziarsi i clienti e per questo costretto ad accogliere tutti i lavori che gli si presentavano) né le diverse commesse che gli sono arrivate attraverso i parenti della moglie che avevano relazioni di parentela con pittori.
Partendo da questa considerazione, supportata dal fatto che anche alla stesura del suo testamento la moglie di Paris sceglie un cugino della famiglia dei Licino (Arrigo Licino) per controfirmare le sue volontà e che in Augusta (Augsburg, in Baviera) lavorarono sia il Paris che Giulio Licino, figlio di Arrigo, ho cercato di definire le tre diverse botteghe (Paris, Licino e Pordenone) e le possibilità di una collaborazione tra loro.
Cosa che si è subito presentata ardua perché il Vasari confonde la vita e le opere dei Licino con Pordenone (Zanantonio Licino da Pordenone, dove pare sia nato, con Zanantonio de Sacchis detto il Pordenone). Consultati altri biografi, la questione non si è chiarita del tutto ma ci ha permesso di fare altre supposizioni che attendono sicuramente la conferma di documenti da cercare con pazienza nei fondi notarili …
Tra queste in particolare abbiamo soppesato anche la possibilità di collaborazione ipotizzabile in Oderzo nei primi anni della vita lavorativa di Paris, perché le date 1524-1525 dipinte nei due palazzi opitergini riflettono il modo con cui egli firmava le sue opere posponendo alla sua firma la data in numeri romani. Altro riscontro che ha attirato la nostra attenzione è poi quello che ci hanno aperto gli Estimi della città di Oderzo del 1550, conservati presso l’Archivio di Stato di Treviso. Chi era e a quale famiglia apparteneva lo “Zanantonio depentor”, registrato tra i residenti nella piazza di Oderzo in affitto dal signor Barbieri? Documenti come “stati delle anime” e “libri canonici” della parrocchia di Oderzo non ci possono aiutare, perché cominciano dopo il 1565. Quest’inquilino di Oderzo potrebbe essere il pittore Zanantonio Licino (di cui il Vasari ricorda che negli anni tra il 1520 e 1525 fu costretto, a causa di “pestilenze” non ben definite, a lavorare nel contado per “contadini” dove esperimenta e si specializza negli affreschi) e Paris potrebbe già aver lavorato con lui?»
Maria Teresa Tolotto ha chiaro che molti sono ancora i punti in sospeso e molte verifiche sono ancora da fare, ma dà senso al suo essersi impegnata in questi termini: «provo a percorrere altre strade per capire se queste possano portare ad ampliare le conoscenze, per evitare non le medesime conclusioni, fatte da autorevoli critici d'arte, ma per non ripetere, come è capitato per la “confusione” fatta dal Vasari che si è trascinata fino agli inizi del 1900, la “perpetuazione” di errori e confusioni».
Le anticipazioni di Tolotto generano appeal sufficiente per non mancare alla conferenza. Ci aspettano anche le attese analisi e interpretazioni iconologiche comparate che curerà Guerrino Lovato (sulle quali non vogliamo togliere la sorpresa).
[a. m.] L'ultimo numero (IV-2022) della rivista liventina di cultura “La nuova Castella” è interamente dedicato alla figura di Nicola di Myra (IV secolo), il San Nicolò patrono della città di Motta di Livenza e «santo "ideale" – secondo le parole del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, nella prefazione – per riunire Oriente e Occidente». Fresca di pubblicazione, l'incontro di presentazione all'inizio di novembre è stato voluto proprio nel tempio mottense a lui intitolato. Mario Po', direttore editoriale della rivista, che ha condotto la serata, dopo l'introduzione di mons. Vittorino Battistella, arciprete di Motta, presentando i vari saggi raccolti nella monografia ne ha enfatizzato la validità quasi come «operazione identitaria» volta a fornire «una luce finalmente valorizzante al nostro santo, al rilievo e al significato della dedicazione mottense che d'ora in poi potremo decisamente amare di più». È un'accentuazione, quella del curatore, che si allinea al giudizio e all'augurio - per la comunità cristiana - che si ricava dai testi introduttivi sia del patriarca di Venezia Francesco Moraglia sia del vescovo di Vittorio Veneto Corrado Pizziolo.
In verità, anche chi non sia convinto di dover ricavare anacronisticamente ispirazione "identitaria" dal culto delle reliquie del santo e sia scettico sulla storicità della biografia e dei poteri taumaturgici, può apprezzare il contributo di studio e approfondimento sulla storia e la devozione di uno dei santi dei primi secoli del cristianesimo «più amati e venerati dalle chiese cristiane», il cui culto ha attraversato la sensibilità religiosa di moltissime generazioni ed ha grande "popolarità" anche nel Triveneto e in particolare in alcuni nostri territori vicini, ma anche nell'Oriente ortodosso, oltre che in Europa, e in diverse altre confessioni cristiane. San Nicola, peraltro, sarebbe «il santo che ha goduto nella vita della Chiesa il culto più esteso, dopo quello della Beata Vergine Maria» (P. Gerardo Cioffari OP, San Nicola, Basilica pontificia di San Nicola - Bari). Rapportarsi alle specifiche forme di presenza e persistenza del sacro è operazione tutt'altro che accessoria e superflua: (se mi perdonate l'autocitazione da un precedente articolo sui "Santi del mese") «Li può apprezzare sia chi è sensibile all’apologetica cristiana e alle virtù morali e anagogiche esemplificate dalle vite dei santi, sia chi si interessa alla dimensione antropologica, simbolica, iconografica e artistica di questo culto, come significativa componente della cultura di genti e luoghi».
Sotto entrambe le prospettive, questo numero della Nuova Castella ha perciò buoni motivi per farsi leggere.
In apertura di rivista, a Stenio Odonti, presidente dell’associazione culturale “Girolamo Aleandro”, promotrice della Nuova Castella, sembra appropriato richiamare anche il “parallelismo” tra Girolamo Aleandro da Motta, il nunzio papale inviato a Worms nel Palatinato per confutare le dottrine protestanti di Martin Luther (1521), e il vescovo di Myra, combattivo difensore dell’ortodossia contro l’eresia ariana al Concilio di Nicea (325): «Forse, viene da pensare che il Duomo fu dedicato a San Nicolò non a caso, ed è proprio quella la chiesa che fu fortemente voluta dal cardinale Aleandro».
L'articolazione della ricerca è stata affidata ad un nutrito gruppo di studiosi, in maggior parte religiosi.
Il saggio di Giorgio Maschio (Facoltà Teologica del Triveneto a Padova) s'incentra sul pensiero teologico di san Nicolò (Nicea, il concilio e la posta in gioco); il frate domenicano Alessandro Cavallo analizza com'è stato rappresentato il santo (L'iconografia di San Nicola); Athenagoras Fasiolo (archimandrita della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia) ripercorre il culto di San Nicolò di Myra nella tradizione della Chiesa Orientale; Michele Bellino (Centro Studi Storici della Chiesa di Bari) focalizza il valore del pellegrinaggio (San Nicola: Bari e l'Oriente nello sguardo di un pellegrino); padre Ludovico Secco ofm ci porta Sulle tracce delle reliquie nicolaiane.
Gli apporti "laici" sono quello di Pier Alvise Zorzi che approfondisce il culto di San Nicolò a Venezia (città che conserva parte del suo corpo) e quello di Giampiero Rorato che vaglia i documenti storici per comprendere le ragioni che hanno decretato San Nicolò, titolare del duomo di Motta.
Ad ampliamento del discorso sul culto locale di San Nicolò, Mario Po' (Appunti del diario di viaggio del 4-5 dicembre 2021) descrive la traslazione via acqua della reliquia, dopo 920 anni della sua presenza a Venezia, fino al porto fluviale di Motta, e poi chiarisce il tema raccontato nell’iconografia nicolaiana presente nelle chiese mottensi, che soprattutto nei dipinti cinquecenteschi di Pietro Malombra e Francesco Bassano rivela una duplice tradizione: quella bizantina (che vede nel vescovo di Myra il teologo difensore della duplice natura di Cristo) e quella veneziana (che affida al santo, protettore dei naviganti, «la dimensione della salvezza e della salute, della Grazia e della medicina»).
Guido di Pietro, detto Beato Angelico, Storie di S. Nicola di Bari, 1437 ca. | Tempera su tavola, cm 35 x 61,5 ciascun pannello | Musei Vaticani, Pinacoteca | https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/1000016151-0
Ambrogio Lorenzetti, Il miracolo delle navi granarie - San Nicola resuscita un fanciullo, Uffizi, Firenze | uffizi.it/.../lorenzetti-storie-di-san-nicola
Bartolomeo Vivarini, San Nicola
Museo di Santa Caterina / Treviso
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