Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
Domenica 26 febbraio presso la Sala Auditorium del Museo del Duomo di Oderzo, alle ore 17, Raffaello Padovan presenterà Le memorie del pittore Giulio Ettore Erler, un'autobiografia inedita. Introdurrà Maria Teresa Tolotto, direttrice dell'Archivio e del Museo del Duomo.
Giulio Ettore Erler (Oderzo, 1876 - Treviso, 1964), trasferitosi a Treviso,visse e operò, fino al 1944 negli spazi interni di Porta Santi Quaranta, e fu insegnante di disegno presso il "Riccati" ma, venuto in contrasto col regime fascista, abbandonò l'insegnamento alla fine degli anni venti. Fu amico e sodaIe di gran parte delle varie personalità della cultura, non solo artistica, trevigiana della prima metà del XX secolo.
Erler raccolse in una serie di quaderni i ricordi delle esperienze di vita dei suoi primi cinquant'anni circa. La lettura di quei manoscritti (poi dattiloscritti dalla sua collaboratrice Irma Simioni) ci permette di entrare e vivere nel clima di un periodo storico che va dall'ultimo trentennio del XIX secolo ai primi due decenni del successivo, visto tuttavia con gli occhi di un pittore e forse per questo più singolare e interessante. Si ritrovano curiosi aneddoti inaspettati relativi ai maestri di due Accademie di Belle Arti, quella veneziana e quella milanese, che Erler frequentò da studente e pure da insegnante. Così come taluni episodi storici ben conosciuti, da lui vissuti in prima persona, quale ad esempio la storica e tragica vicenda della repressione della sommossa popolare per ordine del generale Bava Beccaris e le immagini della Treviso sotto i bombardamenti austroungarici della Prima Guerra Mondiale.
Sui giorni di passaggio tra gennaio e febbraio non mancano leggende e tradizioni che ancora si festeggiano qua e là sul territorio. Sono in particolare gli ultimi tre giorni di gennaio dal 29 al 31 (oppure, scalando di un giorno, gli ultimi due giorni di gennaio e il primo di febbraio), i cosiddetti giorni della merla, "i più freddi dell'anno", e il 2 febbraio, la candelora.
Della candelora ho già avuto occasione di parlare nel 2020 all’inizio della pandemia quando la data "02.02.2020" ricorreva – evento molto raro – in forma palindroma (che non cambia cioè se viene letta da sinistra a destra o viceversa; dal greco antico πάλιν, pálin, «di nuovo», e δρóμος, drómos, «percorso», «che può essere percorso in entrambi i sensi»). → 02.02.2020 La candelora palindroma
Ora vorrei proporvi un excursus sui giorni della merla.
Già per la candelora si tramandano numerosi proverbi dialettali meteorologici − in ogni regione − cui si attribuisce una capacità di prevedere la fine dell'inverno, anche in contrasto fra loro (cfr. it.wikipedia.org/wiki/Per la santa Candelora se nevica o se plora dell'inverno siamo fora).
Il più noto da noi è: Da la Madona Candeòra | de l'inverno semo fora; | ma se xe piova e vento, | de l'inverno semo drento (o nella quasi corrispondente vulgata triestina: La Madona Candelora, se la vien con sol e bora | de l'inverno semo fora; | Se la vien con piova e vento, | de l'inverno semo drento).
Un po' più movimentata e scettica suona però una sua continuazione:
«Ma – disse il villano alla Candelora – acqua o neve venga giù, che l'inverno non c'è più».
Disse allora il bove: «che nevichi o che piova, l'inverno se ne va quando l'erba è sulla proda».
Disse il vecchio infreddolito: «l'inverno non se ne va prima di San Vito».
Disse la vecchia col caldano: «l'inverno starà finché la foglia di fico come un palmo sarà».
Si voltò l'asino e disse: «non viene il caldo finché tra le stoppie non spunta il cardo».
Rispose la strega: «è cosa sicura che l'inverno arriva quando arriva e dura fin che dura».
Analogamente, osservando le condizioni meteorologiche dei tre giorni della merla, si credeva che sulla base di esse i contadini potessero strologare previsioni sul tempo dei mesi di gennaio, febbraio e marzo. La fondatezza scientifica e statistica non è più questione che meriti di essere discussa attualmente, tanto sono grandi le "anomalie" climatiche verificatesi nei secoli e in questi ultimi anni. Un fondamento empirico possiamo tuttavia immaginarlo per le epoche in cui si può essere formata la credenza.
Altri vecchi adagi in terra della "Serenissima" si dimostrano più attenti ai consigli "salutistici" che alle previsioni del tempo: Se i giorni de la merla fa un fredo beco, | mescola un goto de graspa a un'ombra de proseco. | Ma se per caso te si piutosto vecio, | ciapa su on libro e ficate in leto.
Perché i giorni della merla si chiamano così?
Lasciando perdere la lotteria meteorologica, conserva un qualche interesse folcloristico chiedersi perché i giorni della merla si chiamino così.
Si dispone di una serie di nuclei narrativi smontabili e rimontabili che possono generare svariate combinazioni, alcune più consequenziali, altre sconclusionate.
Un nucleo sorgivo favolistico, ma non autosufficiente, sembra quello remoto del "merlo beffato" (ancor oggi si dà del "merlo" a qualcuno se è ingenuo, credulone, sciocco): il merlo avendo trascorso un gennaio molto temperato e dolce, e vedendo una giornata soleggiata e calda, si credette l’inverno già finito e fuggendo dal suo padrone gridò: «Più non ti curo Domine, che uscito son dal verno!», per pentirsene subito dopo perché si mise a nevicare e la stagione divenne ancora rigida.
Una risonanza quasi letterale di un detto fattosi proverbiale si affaccia anche in un verso di Dante, nell'episodio del XIII canto del Purgatorio, in cui la nobildonna senese Sapìa Salvani espia il proprio peccato insieme con le anime degli invidiosi della II cornice, patendo – come contrappasso – di avere gli occhi cuciti. Richiesta dal poeta di raccontargli di sè, confessa (vv. 119-123):
... e veggendo la caccia, | letizia presi a tutte altre dispari, | tanto ch'io volsi in sù l'ardita faccia, | gridando a Dio: «Omai più non ti temo!», | come fé 'l merlo per poca bonaccia.
La parafrasi di questi versi si può rendere così: vedendo l’inseguimento [dei senesi sconfitti e messi in fuga dai fiorentini a Colle di Val d'Elsa], mi abbandonai a una gioia senza pari, tanto che io sollevai il viso al cielo, con atteggiamento di sfida, e gridai a Dio «Ormai non ti temo più!», proprio come il merlo che in inverno canta [come se fosse già primavera] dopo solo pochi giorni di sole.
Il v. 123 avrà certo alle spalle un'arcaica reputazione del merlo come animale sciocco, in questo caso perché, quando in pieno inverno fa un po' di bel tempo (poca bonaccia), se la canta come se l'inverno fosse passato: «Più non ti curo, Domine, ché uscito son del verno». Che Dante adombrasse qui, però, la diceria sui giorni della merla, indicante proverbialmente i giorni di gennaio più freddi dell'anno, è un'interpretazione non solo troppo estensiva ma soprattutto non necessaria a giustificare la scelta della similitudine usata per Sapìa, un'estrapolazione che anzi la fa fraintendere. Non si dimentichi che di sè la donna aveva appena detto (vv. 109-11): «Savia non fui, avvegna che Sapìa | fossi chiamata, e fui delli altrui danni | più lieta assai che di ventura mia» (Nella mia vita non fui saggia, nonostante mi chiamassi Sapìa, e fui sempre contenta delle disgrazie altrui più che della mia buona sorte); e al verso 113 aggiungerà: «odi s'i' fui, com'io dico, folle» (ascolta come fui sconsiderata). Dante cesella qui una figura retorica etimologica "savia (=saggia)" e "Sapìa (=saggia)" (termini che derivano entrambi dal verbo latino sapĭo, sapĕre, «aver sapore» ma anche «essere saggio») e l'antitesi tra saggezza e follia, che s'instaura tra gli aggettivi savia (v. 109) e folle (v. 113). Perciò, il merlo scomodato nella similitudine è da pensare coerentemente entro questo alone di significati alti, non certo per i giorni della merla.
Comunque sia, quel «Più non ti curo, Domine, ché uscito son del verno»[1] può ben esser servito ad innescare l'immaginazione fiabesca per le leggende della merla, la maggior parte legate a una merla femmina "bianca" (in natura, oltre al classico merlo corvino presente in gran numero anche nelle nostre città, esiste una versione candida molto rara, una marroncina e una striata bianca e marrone). Dei puzzle componibili e scomponibili possiamo vedere subito gli esempi, come già detto, di un nucleo minimale o di una favola più articolata:
Una merla per ripararsi dal gran freddo si rifugiò con i suoi pulcini dentro un comignolo e, rimasti al caldo per tre giorni, quelli più freddi, recuperarono forze e sopravvissero, riemergendo il primo di febbraio tutti neri (o grigi) a causa della fuliggine.
Essendo l'unica merla rimasta in vita diversamente da altri uccelli non sopravvissuti, diede vita a una stirpe di merli neri, che infatti sono i più diffusi. Qui potremmo leggere un tentativo fantasioso di interpretazione del «forte dimorfismo sessuale che si osserva nella livrea del merlo (turdus merula), che è bruna/grigia (becco incluso) nelle femmine, mentre è nera brillante (con becco giallo-arancione) nel maschio» ← Associazione Ornitologica Veneto Orientale | Summa Gallicana)
Una merla dal bellissimo piumaggio bianco (i merli, in origine, non sarebbero stati neri, ma avrebbero avuto le piume candide e soffici come la neve) era regolarmente strapazzata da Gennaio, mese freddo e ombroso, il quale si divertiva ad aspettare che lei uscisse dal nido in cerca di cibo, per gettare sulla terra freddo e gelo.
La merla gli aveva chiesto di essere più breve, ma non era riuscita a convincerlo né a farlo desistere. Per l’anno successivo, stanca della continua persecuzione, decise di fare provviste sufficienti per 28 giorni (tale era allora la durata di gennaio) e si rintanò nel suo nido al riparo per tutto il mese.
Arrivato l'ultimo giorno, sperando di aver ingannato il cattivo Gennaio, uscì dal nascondiglio e svolazzava cantando e fischiando per sbeffeggiarlo. Il permaloso Gennaio per vendicarsi chiese in prestito tre giorni a Febbraio e si scatenò con bufere di neve, vento, pioggia. La merla per resistere a tanto gelo si riparò in un comignolo per cui saliva il caldo fumo di un camino acceso, acquattata per tre giorni.
Esaurita la bufera, uscì e riprese a volare. Era sì salva, ma la fuliggine aveva irrimediabilmente annerito (o ingrigito, secondo altro racconto) le sue belle piume bianche e da quel momento i merli sarebbero rimasti per sempre di questo nuovo colore.
Ê innestato qui un prerequisito di ordine storico: una diversa remota configurazione del calendario dei mesi. Per capire una richiesta di prestito di tre giorni di gennaio a febbraio, occorre figurarsi un tempo in cui gennaio avesse solo 28 o 29 giorni, come nel calendario arcaico romano cadenzato originariamente su base lunare e poi luni-solare (anche se febbraio in verità non ne ha mai avuti 30 o 31 da poterne cedere tre...). Nella riforma di Numa Pompilio (VIII sec. a. C.) quando furono inseriti i due nuovi mesi Ianuarius e Febrarius, il mese di gennaio contava solo 28 giorni. Col calendario "giuliano" (introdotto da Giulio Cesare, pontifex maximus nel 46 a. C.) gennaio divenne di 31 giorni mentre febbraio di 28.[2]
In apparenza più realisticamente ambientata in un inverno molto rigido in una Milano "di tanto tempo fa", è la storia, molto simile a quella sopra citata, di una famigliola di merli.
Tutta la città, le strade, i giardini erano coperti dalla neve scesa copiosa. Dentro il nido sotto la grondaia di un palazzo in Porta Nuova, mamma merla, papà merlo e tre piccoli uccellini nati dopo l’estate (che a quel tempo avevano le piume bianche come la neve) soffrivano il freddo stentando a sfamarsi, perché le poche briciole di pane che cadevano in terra dalle tavole degli uomini venivano subito ricoperte dalla neve. Per non morire tutti di fame e di freddo, al papà merlo dopo qualche giorno senza nulla da mangiare non restò che una decisione: partire a cercare il cibo dove la neve non era ancora arrivata. E comunicò alla moglie che intanto l'avrebbe aiutata a spostare il nido sul tetto del palazzo, a fianco del camino, per aspettare il suo ritorno senza patire freddo.
Avvicinato il nido al camino e partito il papà, la mamma e i piccoli poterono scaldarsi tra loro e grazie al fumo che usciva tutto il giorno. Tornato a casa dopo tre giorni, il papà quasi non riuscì più a riconoscere la sua famiglia, perché il fumo nero aveva tinto del suo colore tutte le piume degli uccellini. Per fortuna da quel giorno l’inverno si fece meno rigido e i merli riuscirono a trovare cibo sufficiente per arrivare alla primavera. Da allora però tutti i merli nascono con le piume nere e, per ricordare la famigliola di merli bianchi divenuti neri, gli ultimi tre giorni del mese di gennaio sono detti “i tre giorni della merla”.
Altre arzigogolature pseudostoriche
Sul perché del nome dei "giorni della merla" altre arzigogolature rievocano fatti pseudostorici, apparentemente verosimili ma non documentati, o di evidente invenzione.
Entro la cornice del reale passaggio dal calendario istituito da Numa a quello giuliano riformato, si è immaginato che, al tempo di Mediolanum, Giulio Cesare di ritorno dalle Gallie avrebbe incaricato un certo Cornelio Merula, sacerdote del sommo Giove nonché valente astronomo, di riformargli il calendario. La soluzione escogitata fu prendere a prestito tre giorni di febbraio e aggiungerli a gennaio, chiamati perciò i giorni "di Merula", ma poi – storpiati dal popolino come fa di solito con i nomi di cui non intende bene o non ricorda più il significato – ribattezzati ... "di Merla". ← milano.corriere.it/.../i-tre-giorni-merla-tutta-colpa-giulio-cesare.
A parte questo sconosciuto sacerdote-astronomo Merula, bisogna avvertire che merula – in latino sostantivo solo femminile, come lo è avis, il nome della classe degli uccelli – designa tanto il maschio quanto la femmina, mentre in italiano si è sdoppiato in merlo al maschile e merla al femminile. Il passaggio da merula all'italiano merla femminile si sarà dato facilmente, anche senza storpiatura di un ignorante popolino.
Altre leggende meno note o tramandate solo in ambiti locali sono legate al territorio e non all’animale.
A essere protagonisti in una di queste sono due giovani sposi, Merlo e Merla. Una volta celebrate le nozze al di là del Po, per tornare a casa propria dovrebbero riattraversare il fiume, ma le condizioni climatiche avverse li bloccano a casa di alcuni parenti. Dopo tre giorni la coppia decide di attraversare il fiume ghiacciato. Merla ci riuscì, perché era leggera, ma Merlo ruppe il ghiaccio con il suo peso e morì sprofondando nelle acque gelide.
Il pianto di Merla fu inconsolabile: si dice che lo si senta ancora nelle notti di fine gennaio, scambiato per i sibili del vento. In ricordo di questa tragedia, le giovani in età da marito si recavano sulle rive del Po in quegli stessi giorni per cantare una canzone propiziatoria, il cui ritornello dice: «E di sera e di mattina la sua Merla poverina piange il Merlo e piangerà».
Il fiume Po completamente gelato è coprotagonista anche di due altre storie, che si ricavano da un libro del 1740 di Sebastiano Pauli (Modi di dire toscani ricercati nella loro origine, Appresso Simone Occhi, Venezia, MDCCXL, p. 341). Nell'una, bellica, ad esempio, si doveva far passare oltre il fiume un cannone molto grande, chiamato la Merla. Per trasportarlo più facilmente, gli uomini aspettarono gli ultimi giorni di gennaio per farlo scivolare sul ghiaccio del fiume gelato. Nell'altra, di nuovo matrimoniale, invece, una nobile Signora di Caravaggio, che veniva chiamata De Merli, doveva attraversare il fiume Po per andare a prendere marito, ma riuscì a farlo solo nei giorni in cui il fiume era ghiacciato.[3]
Ne mancano infine alcune sempre in area padana a proposito di una cavalla Merla e ancora del fiume ghiacciato, molto deludenti non tanto perché tragiche nell'esito ma soprattutto perché nessun insegnamento mi sembra che se ne possa trarre (← Il mondo del Forna (Blog di Paolo Fornasari): quella di un contadino della pianura Padana, che, attraversando un fiume gelato con il carro trainato dalla cavalla Merla, è inghiottito dalle acque gelide a causa della rottura del sottile strato di ghiaccio; oppure l'altra su uno dei duchi Gonzaga (ma in alcune versioni è Napoleone) che doveva attraversare il Po.
Questo Gonzaga, bisognoso di un riposino, avvertì il suo servo, alla guida del carro, di svegliarlo quando fossero giunti al fiume. Il servo, arrivato sulle sponde del Po, vide che per il freddo intenso degli ultimi giorni le acque erano ghiacciate e, pensando di fare cosa gradita al duca, incitò la sua cavalla, chiamata Merla, per passare col carro sulla lastra ghiacciata. Siccome giudicò la traversata alquanto agevole, non ritenne necessario svegliare il suo padrone. Quando il Gonzaga si destò, il servo gli disse trionfante che «la Mèrla l’ha passà al Po», facendo montare su tutte le furie il Duca, poiché non aveva obbedito ai suoi ordini. Arrivato a destinazione, lo fece impiccare.
Si poteva finire peggio di così, essendo partiti dalla patetica storia di una merla?
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Smarrimento Venerdì 10 febbraio 2023 - ore 20.30 Scritto e diretto da Lucia Calamaro per e con Lucia Mascino Produzione Marche Teatro |
50 Years Mummenschanz Venerdì 24 Febbraio 2023 - ore 20.30 Sabato 25 Febbraio 2023 - ore 20.30 Fondatori: Andres Bossard, Floriana Frassetto, Bernie Schürch Compagnia: Floriana Frassetto, Tess Burla, Sarah Lerch, David Labanca, Manuel Schunter, Eric Sauge |
L'ATTESA Venerdì 10 Marzo 2023 - ore 20.30 Sabato 11 Marzo 2023 - ore 20.30 Domenica 12 Marzo 2023 - ore 16.30 di Remo Binosi | Regia Michela Cescon con Anna Foglietta e Paola Minaccioni produzione Teatro Dioniso, Teatro Stabile del Veneto |
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L’interesse creatosi attorno alla mostra di Paris Bordon aperta al Museo di Santa Caterina a Treviso (dal 16 settembre 2022 al 15 gennaio 2023) è il clima adatto per inserire la conferenza e la presentazione delle immagini, che si terranno a Treviso presso la Sala Rosso Coletti del Museo di Santa Caterina, il 21 dicembre prossimo (sotto l’egida del Comune di Treviso, dei Musei Civici trevigiani e dell’Ateneo di Treviso), come anticipazione di una ricerca in corso di Guerrino Lovato, Maria Teresa Tolotto e Claudio Rorato, su una nuova ipotesi attributiva degli affreschi esterni del 1524 e 1525 che ornano i palazzi Saccomani e Salvini a Oderzo.
Ogni occasione espositiva come questa straordinaria su Paris Bordone - che sistematizza il punto di approdo della ricerca critica allo stato attuale – può e deve suscitare anche sollecitazioni ad andare oltre, a riverificare e percorrere-ripercorrere i fondamenti del già noto, a non impedirsi nuove perlustrazioni.
Vedo in questa luce l’ “incursione” del vulcanico iconologo Guerrino Lovato, che ho potuto conoscere nella godibilissima conferenza di domenica 4 dicembre a Oderzo a proposito della rappresentazione nell’arte della figura della “levatrice incredula” presente nelle scene della Natività, ispirate dalla narrazione del Protovangelo di Giacomo e della Legenda Aurea.
Guerrino Lovato, in campo iconografico, agisce con l’occhio e il fiuto di un detective che - estraendo dal proprio interno database popolato di migliaia di iconografie ed iconologie pittoriche e scultoree - compara esemplari, stili individuali e di scuola, simbologie ed allegorie profane e sacre, il tutto rapportato alle culture storicamente determinate che le producono e a cui vanno commisurate. Reduce dall’aver visitato la mostra trevigiana dedicata a Paris Bordon, è da pensare così l’eureka che deve essergli scattato quando, esaminando quel che resta visibile degli affreschi della facciata esterna di Palazzo Saccomani in Piazza Grande e di Palazzo Salvini in Via Umberto I, questi gli hanno evocato uno stile ri-conosciuto: il nome del frescante a cui attribuire i dipinti – rimasto finora irrisolto ma con la probabilità che sia lo stesso per entrambi gli edifici – non avrebbe potuto essere proprio Paris Bordone?
Guerrino Lovato ha chiesto collaborazione a Maria Teresa Tolotto per una articolata “indagine” d’archivio. La sola “illuminazione” iconografica e stilistica non poteva bastare. Per insistere sull’ipotesi attributiva era indispensabile stanare qualche fondamento storico-documentale.
A una settimana dall’appuntamento di presentazione dei risultati di questo lavoro al Museo di Santa Caterina a Treviso, ho chiesto – all’esperta archivista e studiosa di storia locale sia laica sia ecclesiale – che cosa e come abbia ricercato e come e se sia riuscita a corroborare la pista “Paris Bordon”.
Tolotto non è stata avara di informazioni, com’è suo stile e come le detta il suo piacere di condividere le conoscenze e i dati storici che spesso “resuscita” col suo scavo archivistico.
«Guerrino Lovato ha visto nelle immagini, o meglio in quel che resta di quelle immagini, la mano e la fantasia “costruttiva” di un giovane genio quale il Paris. Ha affiancato l’esame di stampe di inizio '500 (essendo le date ricavabili dai due palazzi opitergini il 1524 e il 1525) per cogliere la composizione e il messaggio iconografico che il committente voleva esprimere con questo lavoro. Ma soprattutto ha riletto le immagini contestualizzandole nella storia della città e di alcuni elementi con i quali questa da sempre convive, primo tra tutti l'acqua e – in questo caso, ancor più specificamente - i mulini.
Dal canto mio ho riveduto i documenti, per altro già pubblicati in calce al catalogo stampato nella precedente mostra a Treviso su Paris Bordon, “Codice diplomatico bordoniano”, curato da Giorgio Fossaluzza (in Paris Bordon, Catalogo della mostra - Treviso 1984, A cura di Eugenio Manzato, Electa, Milano, 1984, pp. 115-140) nel quale sono riportati i documenti d'archivio relativi al pittore e la biografia scrittane dal Vasari.
La rilettura è partita per cogliere, in prima analisi, chi e in quali fondi questi documenti erano conservati, per capire se il Paris avesse un Notaio di riferimento con il quale stendesse atti e commesse; e congiuntamente continuare a consultare quel fondo se per caso c'erano dei collegamenti con Oderzo. Sono passata poi - visto che solitamente non usa lo stesso notaio se non per cose strettamente private e relative alle sue proprietà - a considerare tutte le informazioni che queste trascrizioni potevano darci. Non ho tralasciato né il carattere dell'artista come emerge dalla biografia (che lo descrive come uomo schivo, non incline ad ingraziarsi i clienti e per questo costretto ad accogliere tutti i lavori che gli si presentavano) né le diverse commesse che gli sono arrivate attraverso i parenti della moglie che avevano relazioni di parentela con pittori.
Partendo da questa considerazione, supportata dal fatto che anche alla stesura del suo testamento la moglie di Paris sceglie un cugino della famiglia dei Licino (Arrigo Licino) per controfirmare le sue volontà e che in Augusta (Augsburg, in Baviera) lavorarono sia il Paris che Giulio Licino, figlio di Arrigo, ho cercato di definire le tre diverse botteghe (Paris, Licino e Pordenone) e le possibilità di una collaborazione tra loro.
Cosa che si è subito presentata ardua perché il Vasari confonde la vita e le opere dei Licino con Pordenone (Zanantonio Licino da Pordenone, dove pare sia nato, con Zanantonio de Sacchis detto il Pordenone). Consultati altri biografi, la questione non si è chiarita del tutto ma ci ha permesso di fare altre supposizioni che attendono sicuramente la conferma di documenti da cercare con pazienza nei fondi notarili …
Tra queste in particolare abbiamo soppesato anche la possibilità di collaborazione ipotizzabile in Oderzo nei primi anni della vita lavorativa di Paris, perché le date 1524-1525 dipinte nei due palazzi opitergini riflettono il modo con cui egli firmava le sue opere posponendo alla sua firma la data in numeri romani. Altro riscontro che ha attirato la nostra attenzione è poi quello che ci hanno aperto gli Estimi della città di Oderzo del 1550, conservati presso l’Archivio di Stato di Treviso. Chi era e a quale famiglia apparteneva lo “Zanantonio depentor”, registrato tra i residenti nella piazza di Oderzo in affitto dal signor Barbieri? Documenti come “stati delle anime” e “libri canonici” della parrocchia di Oderzo non ci possono aiutare, perché cominciano dopo il 1565. Quest’inquilino di Oderzo potrebbe essere il pittore Zanantonio Licino (di cui il Vasari ricorda che negli anni tra il 1520 e 1525 fu costretto, a causa di “pestilenze” non ben definite, a lavorare nel contado per “contadini” dove esperimenta e si specializza negli affreschi) e Paris potrebbe già aver lavorato con lui?»
Maria Teresa Tolotto ha chiaro che molti sono ancora i punti in sospeso e molte verifiche sono ancora da fare, ma dà senso al suo essersi impegnata in questi termini: «provo a percorrere altre strade per capire se queste possano portare ad ampliare le conoscenze, per evitare non le medesime conclusioni, fatte da autorevoli critici d'arte, ma per non ripetere, come è capitato per la “confusione” fatta dal Vasari che si è trascinata fino agli inizi del 1900, la “perpetuazione” di errori e confusioni».
Le anticipazioni di Tolotto generano appeal sufficiente per non mancare alla conferenza. Ci aspettano anche le attese analisi e interpretazioni iconologiche comparate che curerà Guerrino Lovato (sulle quali non vogliamo togliere la sorpresa).
[a. m.] L'ultimo numero (IV-2022) della rivista liventina di cultura “La nuova Castella” è interamente dedicato alla figura di Nicola di Myra (IV secolo), il San Nicolò patrono della città di Motta di Livenza e «santo "ideale" – secondo le parole del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, nella prefazione – per riunire Oriente e Occidente». Fresca di pubblicazione, l'incontro di presentazione all'inizio di novembre è stato voluto proprio nel tempio mottense a lui intitolato. Mario Po', direttore editoriale della rivista, che ha condotto la serata, dopo l'introduzione di mons. Vittorino Battistella, arciprete di Motta, presentando i vari saggi raccolti nella monografia ne ha enfatizzato la validità quasi come «operazione identitaria» volta a fornire «una luce finalmente valorizzante al nostro santo, al rilievo e al significato della dedicazione mottense che d'ora in poi potremo decisamente amare di più». È un'accentuazione, quella del curatore, che si allinea al giudizio e all'augurio - per la comunità cristiana - che si ricava dai testi introduttivi sia del patriarca di Venezia Francesco Moraglia sia del vescovo di Vittorio Veneto Corrado Pizziolo.
In verità, anche chi non sia convinto di dover ricavare anacronisticamente ispirazione "identitaria" dal culto delle reliquie del santo e sia scettico sulla storicità della biografia e dei poteri taumaturgici, può apprezzare il contributo di studio e approfondimento sulla storia e la devozione di uno dei santi dei primi secoli del cristianesimo «più amati e venerati dalle chiese cristiane», il cui culto ha attraversato la sensibilità religiosa di moltissime generazioni ed ha grande "popolarità" anche nel Triveneto e in particolare in alcuni nostri territori vicini, ma anche nell'Oriente ortodosso, oltre che in Europa, e in diverse altre confessioni cristiane. San Nicola, peraltro, sarebbe «il santo che ha goduto nella vita della Chiesa il culto più esteso, dopo quello della Beata Vergine Maria» (P. Gerardo Cioffari OP, San Nicola, Basilica pontificia di San Nicola - Bari). Rapportarsi alle specifiche forme di presenza e persistenza del sacro è operazione tutt'altro che accessoria e superflua: (se mi perdonate l'autocitazione da un precedente articolo sui "Santi del mese") «Li può apprezzare sia chi è sensibile all’apologetica cristiana e alle virtù morali e anagogiche esemplificate dalle vite dei santi, sia chi si interessa alla dimensione antropologica, simbolica, iconografica e artistica di questo culto, come significativa componente della cultura di genti e luoghi».
Sotto entrambe le prospettive, questo numero della Nuova Castella ha perciò buoni motivi per farsi leggere.
In apertura di rivista, a Stenio Odonti, presidente dell’associazione culturale “Girolamo Aleandro”, promotrice della Nuova Castella, sembra appropriato richiamare anche il “parallelismo” tra Girolamo Aleandro da Motta, il nunzio papale inviato a Worms nel Palatinato per confutare le dottrine protestanti di Martin Luther (1521), e il vescovo di Myra, combattivo difensore dell’ortodossia contro l’eresia ariana al Concilio di Nicea (325): «Forse, viene da pensare che il Duomo fu dedicato a San Nicolò non a caso, ed è proprio quella la chiesa che fu fortemente voluta dal cardinale Aleandro».
L'articolazione della ricerca è stata affidata ad un nutrito gruppo di studiosi, in maggior parte religiosi.
Il saggio di Giorgio Maschio (Facoltà Teologica del Triveneto a Padova) s'incentra sul pensiero teologico di san Nicolò (Nicea, il concilio e la posta in gioco); il frate domenicano Alessandro Cavallo analizza com'è stato rappresentato il santo (L'iconografia di San Nicola); Athenagoras Fasiolo (archimandrita della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia) ripercorre il culto di San Nicolò di Myra nella tradizione della Chiesa Orientale; Michele Bellino (Centro Studi Storici della Chiesa di Bari) focalizza il valore del pellegrinaggio (San Nicola: Bari e l'Oriente nello sguardo di un pellegrino); padre Ludovico Secco ofm ci porta Sulle tracce delle reliquie nicolaiane.
Gli apporti "laici" sono quello di Pier Alvise Zorzi che approfondisce il culto di San Nicolò a Venezia (città che conserva parte del suo corpo) e quello di Giampiero Rorato che vaglia i documenti storici per comprendere le ragioni che hanno decretato San Nicolò, titolare del duomo di Motta.
Ad ampliamento del discorso sul culto locale di San Nicolò, Mario Po' (Appunti del diario di viaggio del 4-5 dicembre 2021) descrive la traslazione via acqua della reliquia, dopo 920 anni della sua presenza a Venezia, fino al porto fluviale di Motta, e poi chiarisce il tema raccontato nell’iconografia nicolaiana presente nelle chiese mottensi, che soprattutto nei dipinti cinquecenteschi di Pietro Malombra e Francesco Bassano rivela una duplice tradizione: quella bizantina (che vede nel vescovo di Myra il teologo difensore della duplice natura di Cristo) e quella veneziana (che affida al santo, protettore dei naviganti, «la dimensione della salvezza e della salute, della Grazia e della medicina»).
Guido di Pietro, detto Beato Angelico, Storie di S. Nicola di Bari, 1437 ca. | Tempera su tavola, cm 35 x 61,5 ciascun pannello | Musei Vaticani, Pinacoteca | https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/1000016151-0
Ambrogio Lorenzetti, Il miracolo delle navi granarie - San Nicola resuscita un fanciullo, Uffizi, Firenze | uffizi.it/.../lorenzetti-storie-di-san-nicola
Bartolomeo Vivarini, San Nicola
Il libro recente di Guerrino Lovato e Pino Usicco (la Toletta Edizioni, 2022) racconta chi sono i personaggi raffigurati nelle sculture e nei bassorilievi scolpiti negli archi delle Procuratie e della Marciana (e i loro significati spesso dimenticati o sconosciuti).
Presentazione, a Treviso, con gli autori, mercoledì 7 dicembre, ore 17, presso palazzo Rinaldi, Sala Verde.
Domenica 4 dicembre, ore 15 | Oderzo, Sala del Campanile
[a. m.] La levatrice incredula nella leggenda della Natività è il libro di Guerrino Lovato (iconologo e studioso del '500, scenografo e scultore) che verrà presentato dall'autore stesso domenica 4 dicembre p.v. alle ore 15 presso la Sala del Campanile del Duomo di Oderzo.
È un incontro - immaginiamo - pensato in sintonia con il periodo liturgico dell'anno che i credenti si apprestano a vivere (siamo alla seconda domenica di Avvento), ma - piacevolmente stupendoci - propone come tema a proposito della Natività non la narrazione dei vangeli canonici, ma quella dei vangeli apocrifi, riportata per alcuni secoli nelle immagini sacre dedicate alla Natività: la ragionevole umana «incredulità» sul parto virginale di Maria.
Partiamo dal dipinto scelto come copertina da Guerrino Lovato, la Natività di Lorenzo Lotto, esposta nella Pinacoteca nazionale di Siena.
Perché una donna mostra le mani invalide a Maria nella grotta di Betlemme?
Questa storia si è persa nel tempo e non viene quasi più raccontata, ma esistono diverse rappresentazioni sacre nelle quali è ricordata.
A Betlemme, Giuseppe si muove alla ricerca di una levatrice che aiuti Maria ormai prossima al parto, ma dopo averla trovata arrivano alla grotta già avvolta da una nube splendente, quando Gesù è ormai nato. La donna si accorge della verginità di Maria e leva stupita un inno alla nascita prodigiosa. Uscita dalla grotta, incontra un’amica, pure levatrice, Salome, rivelandole l’evento miracoloso, ma questa si rifiuta di credere che una vergine possa aver generato un figlio, e vuole constatare di persona. Entrate insieme nella grotta, quando Salomè protende il dito verso Maria per ispezionare la vagina, la mano immediatamente le si stacca, bruciata. Mentre implora subito perdono a Dio, maledicendo la propria iniquità e incredulità, appare un angelo che, rassicurandola che il Signore l'ha esaudita, la invita ad avvicinare la mano al bambino e a prenderlo in braccio. L’incredula, pentita, compie l’amorevole gesto suggeritole dall’angelo e subito viene risanata.
Le parole di Salome («Se non ci metto il dito e non esamino la sua natura, non crederò mai che una vergine abbia partorito») anticipano l'altro memorabile atto di incredulità (che leggiamo nel Vangelo canonico di Giovanni, XX, 24-29[1]) a causa del quale è rimasto proverbialmente stimmatizzato l'apostolo Tommaso, quando incontra il Risorto che gli rivolge queste parole: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Il riconoscimento finalmente da parte di Tommaso («Mio Signore e mio Dio»), non gli evita l'ammonimento da parte del Risorto: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati coloro che non videro e tuttavia credettero!».
Si tratta, nell'un caso come nell'altro, di un dubbio sui due fondamenti capitali del cristianesimo: la nascita di Dio da madre umana e la Resurrezione di Gesù.
L'episodio della Salome "levatrice incredula" (non l'omonima danzatrice, figlia di Erodiade, che fu fatale a Giovanni Battista) si trova narrato nel cosiddetto Protovangelo di Giacomo[2] (XIX, 1-3; XX, 1-4), noto anche come Vangelo dell'infanzia. Fu rifuso nell'alto medievale Vangelo dello Pseudo-Matteo[3] e poi ripreso alla fine del XIII secolo da Jacopo da Varagine nella Legenda Aurea[4].
Nel Protovangelo di Giacomo così se ne narra:
Nello Pseudo-Matteo (poco più che un riadattamento del materiale contenuto nel Protovangelo di Giacomo e nel Vangelo dell'infanzia di Tommaso, opere entrambe databili al II secolo) la storia si arricchisce di dettagli esplicativi ed enfatizza proprio la figura di Salome:
Nella Legenda aurea, Jacopo da Varagine rifonde quanto si ricava dai vangeli apocrifi, in particolare appunto dal Protovangelo di Giacomo e lo Pseudo-Matteo:
Il Protovangelo di Giacomo (il più antico fra i vangeli apocrifi, composto in lingua greca probabilmente verso il 140-170 d. C.), pur non essendo dunque incluso in alcun canone biblico, è quello che tuttavia ha esercitato la maggiore influenza sulla teologia e sull'arte, sia in Oriente che in Occidente. Molte delle "informazioni" in esso contenute sono state sostanzialmente accettate e assunte dalla tradizione cristiana "ufficiale" (la raffigurazione di Giuseppe come un uomo anziano; le notizie sulla vita di Maria e dei suoi genitori Anna e Gioacchino; la tradizione che vuole la nascita di Cristo in una grotta; la tesi della verginità di Maria, prima, durante e dopo la nascita di Gesù[5]...) e i suoi temi sono spesso riecheggiati nell'iconografia cristiana.
L'immagine della levatrice incredula, in particolare, si può ritrovare in una scultura nel ciborio di San Marco a Venezia che mostra Salomè nella nicchia centrale, in ginocchio, mentre porge la mano malata e guarda con fare supplice il bambinello; in uno dei più noti tra gli affreschi di Giotto della cappella degli Scrovegni di Padova nel quale Salomè è accanto alla Vergine che sta sollevando il bimbo in fasce perché lei possa toccarlo; nella già citata Natività di Lorenzo Lotto; nella pala dell'Adorazione dei pastori di Pietro Paolo Rubens conservata alla pinacoteca di Fermo che raffigura la levatrice come una vecchia velata di bianco che mostra le mani colpevoli alla Madonna invocando la guarigione (ultima volta, e siamo all'inizio del Seicento, che l'arte sacra riproduce il miracolo della levatrice che dubitò del prodigio) ...
L'apporto di Guerrino Lovato sta principalmente nel proporre i numerosi casi di individuazione di questo particolare evento che finora la critica d'arte ufficiale non aveva segnalato. Nel libro sono riportati una cinquantina di esempi e molti di essi sono rilevazioni del tutto inedite.
Fra le interpretazioni più significative dell’episodio, si ricorda la Natività del 1425 del pittore fiammingo Robert Campin (1375-1444), noto anche come "Maestro di Flémalle" o "Maestro di Mérode".
La scena della Natività illustrata da Campin si articola attraverso tre momenti diversi: la Natività vera e propria, l’Adorazione dei pastori e la vicenda della levatrice incredula. Le scritte sui tre cartigli ricordano i vari momenti dell’episodio.
Lo stupore per l’evento miracoloso della prima levatrice accorsa è ricordato dalla scritta: «Virgo peperit filium», una vergine ha partorito un figlio.
L’incredulità di Salomè, che vorrebbe verificare la verginità di Maria, dalla scritta: «Nullum credam quin probavero», crederò solo a quello che avrò toccato.
Il suggerimento dall’angelo per essere risanata dalla scritta: «Tange puerum et sanaberis», prendi in braccio il bambino e sarai guarita.
Sul sacro evento, seminascosto sullo sfondo, tuttavia ben visibile («caratteristica tipica della pittura fiamminga quattrocentesca, che qui ben traduce la complessa simbologia della luce del Protovangelo di Giacomo» ← letteraturaalfemminile.it), s’affaccia il sole nascente, emblema di Cristo, il "nuovo Sole" della Giustizia e della Verità.
La Vergine mostra il suo bambino ai pastori. Alle sue spalle sta San Giuseppe e a sinistra della composizione due figure maschili e due figure femminili. La figura femminile anziana è identificabile come la levatrice incredula del protovangelo di Giacomo, nell’atto di alzare al cielo le mani sanate. Un turbinio di quattro angeli sorregge un cartiglio con l’annuncio della nascita del Salvatore.
Vi invito a leggere - se non l'avete già fatto gli scorsi anni - gli spunti presenti negli articoli già pubblicati in locusglobus:
Museo di Santa Caterina / Treviso
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