Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
Dal 16 settembre 2002 al 15 gennaio 2023 sarà aperta al Museo Santa Caterina di Treviso la grande mostra (rinviata a causa delle restrizioni anticovid della primavera scorsa) “PARIS BORDON 1500-1571. PITTORE DIVINO”.
Al "Divin Pitor" (come lo definiva lo storiografo veneziano Marco Boschini col termine che usato solo per Raffaello e Tiziano) è dedicata la più ampia monografica mai realizzata finora, riunendo i capolavori dell'allievo di Tiziano provenienti dai più prestigiosi musei del mondo: l’Ermitage di San Pietroburgo, la National Gallery di Londra, il Louvre di Parigi, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, l’Ashmolean Museum di Oxford, le Gallerie degli Uffizi di Firenze e i Musei Vaticani...
La rassegna ne racconterà la varietà e la ricchezza della produzione attraverso i suoi sensuali ritratti femminili – dai primi, fortemente influenzati da Palma il Vecchio e Tiziano a quelli più tardi segnati da un sofisticato manierismo – attraverso le rappresentazioni mitologiche, le splendide allegorie, le scene sacre delle grandi pale d’altare e le piccole opere destinate alla devozione privata. In occasione dell’esposizione verrà, inoltre, appositamente restaurata la monumentale pala d’altare San Giorgio e il drago, proveniente dai Musei Vaticani.
A completamento della visita, un itinerario di confronti e rimandi, inviterà a riscoprire capolavori disseminati all’interno del territorio trevigiano e veneto come la meravigliosa Consegna dell’anello al doge di Paris Bordon, conservata alle Gallerie dell’Accademia di Venezia.
La mostra è accompagnata dal catalogo edito da Marsilio Arte | marsilioeditori.it/.../paris-bordon-pittore-divino
Il sito della mostra: mostraparisbordon.it
AGNOLET Giovanni Battista, ARGENTON Francesco, BIANCO Giovanni, BORASO Angelo, BOZZO Antonio, BRAVIN Luigi, BUFFOLO Nicolò, CALIMAN Bortolo, DAL BEN Giovanni, DAL BEN Giuseppe, DE BIANCHI Emilio, FREGONESE Enrico, MOMI Giuseppe, NARDO Eugenio (Piavon), PICCOLO Luigi, SPADOTTO Luigi, STORTO Aurelio (Piavon), VAZZOLER Luigi, VIDOTTO Pietro, ZANARDO Pietro (Piavon): sono i nomi dei 20 soldati opitergini del 55° Reggimento fanteria “Marche” morti nella più grave tragedia navale italiana, l’affondamento del piroscafo “Principe Umberto”, l’8 giugno 1916, silurato dal sommergibile austroungarico U5 al largo di capo Linguetta nelle acque albanesi del canale d’Otranto, mentre il naviglio era in trasferimento marittimo dall'Albania al fronte dell'Isonzo
Si contarono soltanto 895 sopravvissuti, mentre 1926 furono le vittime: 110 marinai dell’equipaggio, 52 ufficiali e 1764 soldati del 55° Reggimento fanteria “Marche”, di cui 521 soldati provenienti dal trevigiano. Tra loro c'erano, oltre ai già citati 20 di Oderzo,
E così via. Per giorni e giorni il mare restituì alla spiaggia di Valona corpi straziati e irriconoscibili di marinai e fanti italiani che vennero sepolti senza nome ai bordi della strada che da Valona sale verso Kanina.
L'occasione per riportare alla memoria questa immane tragedia a 106 anni di distanza è la certezza che la nave, localizzata dall'ingegnere italo-svizzero Guido Gay - esploratore di abissi in cerca di relitti - e successivamente raggiunta a 930 metri di profondità da un mezzo sottomarino robotizzato che ne ha permesso l’identificazione, sia proprio quel che resta della “Principe Umberto". «Con il sonar», ha spiegato Guido Gay, «abbiamo individuato la presenza del relitto già al primo passaggio, circa un mese fa. Le caratteristiche del relitto, addirittura con un fianco che sporgeva dal fondo, rilevate dal sonar ci davano la quasi certezza che si trattasse proprio di quella nave. L’identificazione visiva è stata effettuata la settimana scorsa. Siamo tornati sul posto qualche giorno dopo il rilevamento sonar, ma ci siamo scontrati con le forti correnti dal canale d’Otranto. Per due volte non siamo riusciti a far scendere in profondità il robot sottomarino, una volta ha raggiunto il fondo, ma è finito lontano dall’area dove il sonar aveva rilevato la massa metallica. Finalmente, il quarto tentativo è stato quello buono: il robot è riuscito a raggiungere il relitto e a ispezionarlo, scattando le immagini che ci hanno dato la certezza dell’identificazione».
Il numero 7 della rivista Archivio Storico Cenedese è stampato, disponibile in prevendita sul sito ascenedese.it/.../asc-7 e da metà giugno anche in libreria.
Un po' di attesa è stata necessaria anche quest'anno, come lo scorso, a causa delle difficoltà di accedere ad archivi e documenti incontrate durante le emergenze covid. Ora il nuovo numero potrà essere nelle mani dei lettori, in previsione di essere anche presentato in alcuni incontri pubblici nel Vittoriese e nell'Opitergino dopo l'estate.
Vi anticipiamo intanto il sommario degli Studi&Ricerche e delle Comunicazioni presenti:
Completano il numero alcune le "Brevi" di Manoel Maronese (Un nuovo testimone dell'ode di Giambattista Amalteo per Giovanni d'Austria) e Giampaolo Zagonel (Omaggio a Dino Buzzati nel 50° anniversario della scomparsa) e alcune "Recensioni".
Alberto Martini e la Divina Commedia:
"visse paradisiaco o infernale nei miei sogni"
Dal 1° maggio al 30 giugno 2022, a Palazzo Foscolo, Oderzo, è predisposto un nuovo allestimento temporaneo dei lavori grafici e pittorici di Alberto Martini che illustrano la Divina Commedia.
Alberto Martini, che nella sua carriera si è dedicato all’illustrazione di varie opere letterarie, ha mantenuto per quarant’anni un rapporto privilegiato con la Divina Commedia di Dante Alighieri, testimoniato dalle 298 tavole conservate nella Pinacoteca Martini che costituiscono il fondo più corposo dedicato all’artista.
Il percorso espositivo evidenza come Martini, dal punto di vista stilistico, si qualifica quale vero grande interprete del poema dantesco, capace di rileggerne l’opera restituendone i singoli episodi attraverso un segno espressionista all’interno di uno spazio peculiarmente sintetico e visionario.
D’altra parte, l’artista ritornerà in molte occasioni sull’opera dell’Alighieri, dichiarandosene profondo estimatore: «Tre volte, nella mia vita, seguii religiosamente il Divino Poeta attraverso i tre mondi … Il Poema Sacro mi fu sempre di grande conforto, a volte mi placò e visse paradisiaco o infernale nei miei sogni».
APERTURA STRAORDINARIA DOMENICA 1° MAGGIO
dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 19.00.
Ingresso con biglietto ridotto euro 4,00.
È recentissima (di febbraio 2022) la ristampa di un aureo libretto di Piero Brunello, Acquasanta e verderame, uscito la prima volta nel 1996 da Cierre edizioni. Con modifiche e aggiornamenti e una rifusione dei testi in nuovi paragrafi e capitoli, la riedizione porta ora il titolo Lo zolfo e l'acquasanta. Parroci agronomi in Veneto e in Friuli nel periodo austriaco (1814-1866).
L'importanza dei legami simbolici tra sacro e fertilità nelle società rurali è questione assodata. Nessuna sorpresa che anche nel Veneto rurale «le scadenze del lavoro contadino fossero segnate dalla devozione ai santi e dal calendario della Chiesa cattolica, e che il buon esito dei raccolti fosse affidato alle benedizioni del clero e alle processioni nei campi. Oltre ad allontanare malattie e avversità atmosferiche, i riti propiziatori, che si svolgevano ai confini dei poderi e davanti ai capitelli, rafforzavano simbolicamente le proprietà e le gerarchie sociali».
Nuovo è il fatto che rispetto ad innovazioni tecnologiche e moderne pratiche agronomiche, come quelle introdotte almeno a partire dalla seconda metà del Settecento, fu il parroco ad essere «il mediatore più adatto» anche per insegnare le materie agronomiche, senza che fosse sentito in contrasto «con le credenze magiche – e con esse l'ordine sociale, morale e religioso tradizionale». Il parroco, conoscitore sia del "dizionario del cittadino” sia di quello “del contadino”, spesso proveniente lui stesso dalla campagna, «impartiva nozioni utili alle tecniche agricole e allo stesso tempo norme di comportamento morale; insegnava cioè non solo come dar zolfo alle viti ma anche come le donne di campagna dovessero vestirsi e come i poveri dovessero trattare i ricchi (e viceversa)».
L'argomento del libro è dunque questo interesse dei parroci di campagna all’agricoltura e ai miglioramenti agricoli, nel contesto delle province venete e friulane che fecero parte del Lombardo Veneto austriaco, dopo esser dipese «dal governo di Venezia che, in tema di rapporti tra stato e chiesa, aveva una tradizione politica diversa dalle regioni confinanti».
«Era normale che un parroco si tenesse informato sulle novità nel campo degli aratri, delle rotazioni, dell’allevamento dei bachi da seta, dei rimedi contro la malattia della vite? Data la grande distanza tra città e campagna, chi insegnava ai contadini a mettere in pratica i suggerimenti e le scoperte degli agronomi? E infine, dal momento che ai contadini era stato insegnato che buono e cattivo tempo, raccolti abbondanti e carestie, piogge e siccità, tutto veniva da Dio, in che modo potevano accettare di combattere con lo zolfo un castigo del cielo come la crittogama?»
Brunello risponde in ognuno dei quattro capitoli del libro chiarendo un aspetto particolare.
Il primo capitolo offre una messa a punto del ruolo del parroco. Nel Lombardo Veneto, «oltre a essere ministro del culto, è anche un funzionario statale: in pratica deve mediare tra sudditi e autorità politiche» e gode di entrate economiche che gli consentono «qualche margine di autonomia sia dallo Stato che dai signorotti del paese». Nello svolgimento di questi compiti "politici", l’atteggiamento del clero cambia nel corso del tempo «dalla tradizionale fedeltà all’autorità politica – prima Venezia, poi Vienna – all’obbedienza al papatoNota 1, dopo l'Unità, e ad una visione «antistatale e antiliberale», di fine secolo. Prima il ruolo del clero nelle campagne è legittimato dalle autorità civili, poi fu assicurato «dall’organizzazione centralistica del clericalismo intransigente che fa capo a Roma».
Nel secondo capitolo Brunello esamina il ruolo di tali parroci di campagna – stretti «tra la religione popolare che li vuole stregoni e la gerarchia ecclesiastica che invece vuole distinguere nettamente religione da magia» – e delinea il loro atteggiamento nei confronti dei parrocchiani «che chiedono benedizioni contro qualsiasi disgrazia o malattia accada ai raccolti, alle piante, ai bambini, alle donne, agli animali del cortile e della stalla».
Il terzo capitolo è dedicato alla figura di Lorenzo CricoNota 2, parroco di Fossalunga nel Trevigiano, che scrisse molto su argomenti attinenti all’agricoltura e ben si presta ad esemplificare l'argomento trattato.
«Che cosa sta a cuore a un parroco agronomo? Con chi parla, e di che cosa? Parla con uomini, con donne, con capifamiglia, con giovani, con proprietari, con contadini o con artigiani? E che cosa consiglia? Quale atteggiamento assume con i contadini e con il proprietario? Ha paura delle innovazioni o cerca di imporle? Ed eventualmente come mette assieme le novità tecniche ed agronomiche con la salvaguardia dei comportamenti che egli ritiene "antichi" e "tradizionali"?»
Poiché l'attivismo culturale del Crico non è un'esperienza isolata, ma interna al grande interesse per l’agricoltura diffusosi a partire dagli anni quaranta dell’Ottocento in Veneto e in Friuli (in verità fenomeno non solo locale, ma europeo), l'autore mostra quanto si può cogliere «nei giornali, nei discorsi in pubblico e nei salotti, nel sorgere di nuove associazioni, nella quantità di studi, esperimenti e innovazioni tecniche che riguardano i lavori dei campi». Ne è un esempio il periodico L’amico del contadino, edito a San Vito del Tagliamento dal conte Gherardo Freschi. «È un giornale che vede nel parroco il maestro dei contadini nelle cose di agronomia. I parroci di campagna sono il pubblico del giornale; alcuni di loro mandano articoli, lettere»Nota 3.
Nell'ultima parte del libro l'attenzione si concentra sul quindicennio precedente all’Unità, periodo di brutti raccolti, della malattia della vite e del baco da seta. La conclusione è che «i parroci suggerivano le innovazioni agronomiche, come ad esempio lo zolfo contro la crittogama, senza abbandonare le benedizioni alle viti richieste dai contadini: in questo modo le novità tecniche potevano imporsi senza sminuire il ruolo del clero nei paesi, né compromettere gli equilibri sociali e i ruoli di genere». In termini storiografici viene sfatato che l’immagine della società contadina presentata nell’Ottocento «sia il riflesso di una realtà esistente», trattandosi invece di «uno schema retorico sul quale fondare la prescrizione di regole e di norme di comportamento».
In Appendice, Brunello riassume le prime due sezioni dei dialoghi di monsignor Lorenzo Crico, Il contadino istruito dal suo parroco, pubblicate a Venezia nel 1817, rispettivamente dedicate all’Economia domestica e all’Economia rustica, e aggiunge – rispetto alla prima edizione – una relazione tenuta presso il Dipartimento di studi storici, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dal titolo Il parroco nel Lombardo Veneto. Lettera a Demir Mustafà, rom macedone.
Dalla propria ricerca l'autore crede possibile ricavare, tra le altre cose, anche un contributo che possa spiegare meglio «il perdurare di equilibri sociali e di mentalità diffuse nei distretti industriali sorti in Veneto dopo la fine del mondo contadino».
[Le citazioni virgolettate sono tratte dall'Introduzione di Piero Brunello | edizioni.cierrenet.it/.../lo-zolfo-e-lacquasanta]
* * * * *
Angelo Natale Talier (1744-1818)
Lorenzo Crico (Noventa di Piave, 1764 – Venezia, 1835)
Giovanni Rizzo (Altichiero - Padova, 1825 - Salboro, 1902)
[1869] Catechismo agricolo ad uso dei contadini compilato dal parroco d. Gio. cav. Rizzo, con due appendici su alcuni pregiudizi dei contadini e sulle misure e pesi metrici, Coi tipi del Seminario, Padova, 1869 | Ristampa anastatica, Padova 2003, a cura di Lino Scalco | Ristampa, Panda Edizioni, 2012 | Reperibilità: amazon.it/Catechismo-agricolo-uso-dei-contadini
Non sono diventato improvvisamente venetista. La tradizione può restare fattore culturale anche senza nostalgie passatiste, superate dalla storia, e la conoscenza di elementi culturali caratterizzanti della propria storia passata è foriera di consapevolezza anche per il presente.
"Bon cao de ano" ricorda un calcolo arcaico del ciclo annuale che si faceva cominciare con la fine della stagione più fredda e l'imminente arrivo della primavera che portava al risveglio della natura, ad un nuovo inizio.
All’epoca della Serenissima, l’anno iniziava il primo marzo, non il primo gennaio come indicato dal calendario giuliano (riformato da Giulio Cesare) e poi gregoriano. Se si iniziano a contare i mesi da marzo, diventa comprensibile perché il settimo, l'ottavo, il nono e il decimo mese dell'anno conservino il nome latino di September, October, November e December. Il quinto e il sesto (originariamente Quintilis e Sextilis) erano diventati Julius e Augustus in onore di Cesare e di Augusto.
Molti antichi documenti veneziani riportano perciò la data accompagnata dalla sigla m.v. (more veneto) per specificare come il calendario fosse "secondo l'usanza veneta". La dicitura continuò ad essere usata ufficialmente fino alla caduta del XVIII secolo, anche dopo l'uniformazione alla riforma gregoriana (1582) del calendario, per non confondere i due sistemi: ad esempio, iniziando l’anno il primo marzo, il gennaio 1582 "more veneto", corrispondeva al gennaio 1583 del calendario gregoriano.
Vegnì fora zente, vegnì
vegnì in strada a far casoto,
a bàtare Marso co coerci, tece e pignate!
A la Natura dovemo farghe corajo, sigando e cantando,
par svejar fora i spiriti de la tera!
Vegnì fora tuti bei e bruti.
Bati, bati Marso che ‘l mato va descalso,
femo casoto fin che riva sera
e ciamemo co forsa ea Primavera!
Vegnì fora zente, vegnì fora!
Venite fuori, venite
venite fuori a far confusione,
venite a battere Marzo con coperchi e pentole!
Alla natura dobbiamo far coraggio, urlando e cantando,
per svegliare gli spiriti della terra!
Venite fuori tutti, belli e brutti.
Batti, batti Marzo, che il matto gira scalzo,
facciamo confusione fino a sera
e chiamiamo con forza la primavera!
Venite fuori, venite fuori!
Il Bati Marso era una festa che accompagnava sia il Cao de ano, sia i giorni precedenti: andar in giro per le strade con pentole, coperchi e altri strumenti musicali fatti in casa battendoli e facendo una gran confusione, per scacciare l’inverno e il freddo e propiziare l’arrivo della bella stagione...
La tradizione si è mantenuta nei secoli e in alcune parti del Veneto ancora si canticchia questa filastrocca.
Un Bati Marso euganeo
[Danilo Montin | euganeamente.it/bati-marso] All’imbrunire del primo giorno di marzo s-ciàpi (gruppi) di giovani andavano per le strade dei paesi, fermandosi davanti alle case delle tose (ragazze) da sposare, e con trombe, corni, campanelli e bidoni vuoti incominciavano una diabolica sinfonia, accompagnati da urla e fisci (fischi). Terminato il baccano, il caporione della comitiva chiamava per nome la ragazza da maritare, annunciandole un buon partito, assegnandole cioè un marìo (marito). Ecco una parte della lunga filastrocca che veniva detta in tale occasione:
Ti (nome della ragazza) se non ti si al balcon,
leva suzo (su) che xe arivà un buon partito,
ma che partito che sia mi non lo so;
speta che me supia (soffia) il naso e dopo te lo dirò.
Xe qua Marso, e Marso volen che sia
de la bela ragassìa.
Qualche volta per far arrabbiare le ragazze più superbe, questi ragazzi proponevano per marito un vecio, un stùrpio o un desgrassià (un vecchio, uno storpio o uno sciancato); allora, piene di rabbia, invece d’invitare i giovani a bere un bicchiere di vino, dalle finestre buttavano giù un caìn (catino) d’acqua fredda o, peggio ancora, un vaso da notte!
* * * * *
Ho dedicato altri articoli al "Capodanno veneto". Se volete rileggerli...
In questa scenetta, Gaetano Zompini[1] raffigura due nobili che stanno aspettando le frittelle calde, che una giovane popolana sta preparando, usando un’enorme fersora, ossia una padella[2]. Un ragazzino infila le frittelle pronte su un lungo stecco di legno.
Una scena molto simile (un nobile che acquista le fritole da regalare a due belle fanciulle, infilzate su uno spiedo e donate come un mazzo di rose) fu dipinta, intorno al 1750, da Pietro Longhi, abile ritrattista della vita quotidiana del ‘700, in particolare del ceto aristocratico.
Leggiamo subito la "scena veneziana" (datata 1841) del nobile Pietro Gaspare Moro Lin:
«A Venezia da tempo remotissimo si usa certo dolce mangiare che appellasi fritole. Esse compaiono per tutto ove è festa, e nella quadragesima in ispecieltà si vendono per tutti quasi li campi, poiché li Viniziani non vogliono vedere diserta di fritole la lor mensa quaresimale. Composte di fiore di farina di formento, rimpastate a lievito unito a pignoli e a zucchero, con uva che pendeva dai tralci delle vite calabre, vengono coliate nell’oglio bollente. La fabbrica in cui si fanno è una trabacca, che per assomigliare a quella militare le manca soltanto la tela che serve di padiglione. Questa invece ha il coperto od il tetto di tavole compaginate e messe a piovere. Quadrangolare ha la forma, ed internamente presenta la figura di una stanza. Essa è il Palladio delli fabbricatori che stanvi dentro, i quali da una parte rimpastano e dall’altra friggono in una padella sovrapposta ad un tripode. Il davanti è propriamente il luogo della mostra solenne, e questa mostra dà un quadretto piacevole assai a riguardarsi. Immaginatevi adunque una tavola su cui appoggiano certi piattelloni di peltro, o di stagno lucidissimi, ed internamente con molto gusto disegnati. Alcuni di questi son vuoti, e posti perpendicolarmente sulla suddetta tavola per solo ornamento, altri contengono i pignuoli, le uve, altri finalmente capiscono il dolce mangiare, vogliam dire le viniziane frittole belle ed apparate per colui che ne va ghiotto, e fra uno e l’altro piatto veggonsi pani di zucchero. I principali cuocitori sono notissimi in Venezia, e, superbi di questo lor primato, vollero che sul laboratorio, a distinzione degli altri, s’innalzasse un’asta, avente in cima un cartellone in cui stesse scritto il loro nome; modo laconico ed espressivo assai, imperocché significa: Noi siamo maestri dell'arte, ed abbiamo diritto di essere riveriti sovra gli altri amministrator di frittelle. Hanno essi sempre in sul davanti un pannollino che s’assomiglia al grembial delle donne, che sembra esser venuto allora fuori dal bucato. Tengono in mano un vasetto bucherellato con cui gettano del continuo zucchero sulla merce, ma con tale atto che e’ pare vogliano dire: e chi non sente l’odore, ed il sapore di queste che noi inzuccheriamo? Eglino in questa guisa si mostrano presso la lor panca e loro è tanto andata a china la fortuna del professore che si vedono onorati, non che dalla comun gente, sì ancora dalla civile ed educata, la quale va a pigliare a frotta a frotta le frittelle per avere un saggio di loro bravura».
Guerre per rivendicare la primogenitura della fritola e della sua ricetta – anche se da secoli, almeno dal Cinquecento, è un dolcetto tipicamente ed eminentemente veneziano e veneto – è inutile farne.
Se non si vuol accettar antenati fuor di patria, anche per le frittelle – come per altre specialità tipiche della penisola italiana – per prima cosa si possono cercare tracce di origini in epoca romana antica. Farebbero al nostro caso in questo senso i globulos (globi), bocconcini di forma sferica preparati durante la celebrazione dei Saturnalia impastando semola di grano duro e formaggio, cotti nel grasso e conditi con miele e semi di papavero.
Ne troviamo la ricetta Globulos sic facito (“I globi si fanno così”) nel trattato De Agri cultura (o De re rustica)[1] di Marco Porcio Catone il Censore (III sec a.C.):
Oppure sono imparentate con i frictilia elencati da Marco Gavio Apicio (I sec. d. C.) tra i dulcia domestica (“dolcetti fatti in casa”) nella raccolta di ricette De re coquinaria ("L’arte culinaria"):
Di frittelle greche sappiamo che si chiamavano enkrís (ἐγκρίς) quando erano cotte nell’olio oppure melitoùtta (μελιτοῦττα) o maza (μάζα) quando erano cotte nello strutto, e in ogni caso si consumavano cosparse di miele.
Ma, dai globuli e dai frictilia romani-antichi alle fritole veneziane quattro-cinquecentesche, quanti salti ci possiamo immaginare ancora?
Fuor di patria, qualche ricercatore individua due specialità appartenenti alla cucina arabo-persiana, quali la Zelabia e la Zelabia alia (“un’altra zelabia”), trasmesse ai veneziani attraverso le ricette del trattatello Liber de ferculis et condimentis (“Libro delle vivande e dei condimenti”), scritto a Venezia da Giambonino da Cremona[3], un estratto in traduzione latina del Cammino della spiegazione di tutto ciò che l’uomo utilizza (Minhaj al-Bayan fi ma yasta ‘miluhu al-Insan[4]), enciclopedica opera dietetico-gastronomica di Ibn Jazlah, un medico iracheno, nato cristiano e convertitosi all’Islam, vissuto a Bagdad nella seconda metà dell’XI secolo, autore anche di un precedente Tacuinum aegritudinum et morborum, secondo la più accessibile traduzione latina del medico ebreo siciliano Faraj ibn Sālim nel 1280.
La prima si confeziona così:
L’altra così:
Tornando in patria, come “ricetta matrice” della fritola si potrebbe addurre quella per la preparazione di frittelle bianche, composte da un impasto lievitato di latte di mandorle e farina, suddiviso in piccole palline da friggere e cospargere di zucchero, che si legge in un manoscritto anonimo del XIV secolo (elaborazione in veneziano di un Anonimo toscano) contenente oltre un centinaio di ricette, conservato nella Biblioteca Nazionale Casanatense di Roma[5]:
A ben vedere una ricetta rimasta quasi invariata nel corso dei secoli, con aggiunta di modifiche fino a quelle degli odierni panifici e pasticcerie riguardo al ripieno: fritole con e senza scorzette di limone o d’arancia, pinoli, uvette, grappa o rum, con crema pasticcera, zabaione, crema di mele, cioccolato o pistacchio…
Le influenze a Venezia si fanno definitivamente riconoscibili lungo il Cinquecento. Nel volumetto Interpretatio arabicorum nominum (“Interpretazione di nomi arabi”) stampato a Venezia nel 1527 il medico bellunese Andrea Alpago, inviato a esercitare l’arte medica presso la comunità veneziana di Bagdad, trattando i termini Alzelabia, Alzelabi e anche Zelabile – tra diversi nomi relativi alla medicina, a prodotti vari, a cibi e specialità gastronomiche – spiega che «Az- zilābiyà», la «pietanza di pasta molto tenera a forma di luna, che viene fritta nell’olio, quindi mangiata con miele o zucchero», molto diffusa in Egitto e in Siria, di cui si parla nel citato libro Minhaj al-Bayan, è chiamata “frittola” presso gli abitanti dell’Italia.
Finalmente, testimonianza certa e autorevole è la ricetta rinascimentale della “frittella alla veneziana” inserita nell’Opera (edita a Venezia nel 1570) di Bartolomeo Scappi, “maestro nell’arte del cucinare”, cuoco di cardinali e di papi (Pio IV e Pio V).
Nel Seicento, nella città lagunare il consumo di frittelle divenne così diffuso e gradito da non poter essere soddisfatto dalla semplice produzione domestica e la preparazione e la vendita divennero appannaggio di veri e propri “maestri fritoleri”, sparsi per la città. Alcuni erano ambulanti, altri – più ricchi – disponevano di baracchini di legno al cui interno, indossando un tradizionale ampio grembiule bianco, lavoravano l’impasto su grandi tavole di legno e friggevano le frittelle in olio o burro in ampie padelle poggiate su tripodi. Sulla parte anteriore del barachin erano lasciati sempre in bella mostra gli ingredienti usati (come farina, uova, mandorle, pinoli e cedro candito) a scopo coreografico e a dimostrazione ai clienti dell’effettiva qualità, ed erano esposte con cura sopra piatti di peltro o stagno finemente decorati le frittelle appena cotte, spolverate di zucchero[7] con un vasetto bucherellato con studiati gesti teatrali, spesso infilzate su uno spiedo, in modo da poterle mangiare calde senza scottarsi le dita[8]. Fieri della propria opera, amavano farsi identificare da un’insegna con inciso il proprio nome.
Diventata la vendita di fritole un fattore economico redditizio, per salvaguardare la loro “arte” (ed i loro affari), regolando rigidamente il mestiere, i fritoleri costituirono nel 1619 una precisa corporazione con tanto di mariegola e specifica insegna, il cui luogo di ritrovo fu dapprima in un edifico vicino a S. Simeon Piccolo, poi dal 1743 nella chiesa della Maddalena, sotto il patronato della Beata Vergine Annunziata, nei pressi della Ca’ d’Oro. Con tale capitolare (statuto conservato all’Archivio di Stato di Venezia) ad ognuno dei 70 componenti venne assegnata e garantita una specifica zona della città in cui esercitare il mestiere, riservato solo ai veneziani, ed il diritto di trasmettere la professione (e le relative prerogative) ai propri figli, in mancanza dei quali, il gastaldo (cioè il capo delle singole arti) provvedeva a nominare un successore, che doveva poi essere approvato dalla magistratura[9].
Nella Repubblica Serenissima questi dolci tanto amati conobbero l’apogeo del successo nel XVIII secolo, quando furono proclamati Dolce nazionale dello Stato Veneto e la loro popolarità si allargò definitivamente alle regioni limitrofe che iniziarono ad assumere questa usanza durante i giorni del Carnevale.
Non è il caso di soffermarsi sulle differenti tradizioni nella preparazione delle fritole anche nella stessa Venezia, è però più di una curiosità citare la versione ebraica cucinata nel ghetto della città, ancora oggi consumata durante la festa del Purim (che si celebra nel 14° giorno del mese ebraico di Adar) nota anche come Carnevale ebraico o “Festa delle sorti”[10].
Quella dei fritoleri fu un’istituzione decisamente fortunata, tanto da rimanere in attività per più di duecento anni fino alla fine del XIX secolo ed essere celebrata da artisti e letterati famosi, che forse contribuirono anch’essi alla rinomanza della fritola.
Ne sono esempi il dipinto La venditrice di fritole di Pietro Longhi, del 1755, oggi custodito all’interno di Ca’ Rezzonico, o l’Insegna dell’arte dei Frittoleri attribuito a Gaetano Zompini, datato 1784, ospitato al Museo Correr. Di Zompini abbiamo già citato e riprodotto in apertura anche l'incisione La venditrice di frittelle inserita nella sua raccolta Le arti che vanno per via nella città di Venezia, 1753.
Anche Carlo Goldoni ci consegna una memoria di questo orgoglio di categoria ne Il campiello, (del 1756). La protagonista, Orsola, è una fritolera e, nell'Atto primo, scena 1, dove alcune donne litigano sui propri meriti, rivendica la propria profession
La ricetta | cucchiaio.it/ricetta/ricetta-fritole
[a. m.] L'ultimo giorno di novembre del 2020, si è spento Arturo Benvenuti, a 97 anni. Oderzo ha perso - con lui - una delle personalità più familiari, caratteristiche e longeve della recente storia culturale cittadina. Una figura che ha quasi raggiunto il secolo di vita, attraversandone due, così carichi di trasformazioni storiche, morali, culturali.
Poeta e pittore, è stato ragioniere e bancario coscienzioso - nella sua professione - ma anche intellettuale di grande impegno etico e vulcanico animatore culturale, sensibile critico d’arte anche verso altri artisti di ascendenza opitergina e generoso organizzatore di mostre, convegni ed eventi per valorizzarne l’opera.
Sul piano istituzionale il suo contributo più importante e duraturo rimane senza dubbio quello della fondazione e della prima direzione della Pinacoteca Civica Alberto Martini, simbolicamente avviata dal primo prezioso ed emblematico dipinto del pittore simbolista (l’Autoritratto del 1911) che Maria Petringa, la vedova, donò alla Città, a conclusione della mostra antologica dell'artista nato ad Oderzo, che Benvenuti - con il patrocinio del Comune - aveva proposto e curato nel 1967. Nel giro di pochi anni, alla prima vennero ad aggiungersi altre 80 opere martiniane e nel 1970 fu già possibile per l’amministrazione comunale (retta dai sindaci Piero Feltrin e Giorgio Gherlenda) istituire ufficialmente la Pinacoteca intitolata ad Alberto Martini, allestita all'inizio nella sede municipale di Ca' Diedo, successivamente insediata nel 1974 al piano nobile dell'attuale palazzo della Biblioteca Comunale di via Garibaldi e trasferita definitivamente all'ultimo piano del restaurato Palazzo Foscolo nel 1994.
Sotto il mandato di Arturo Benvenuti, durato fino al 1984, la credibilità dell'istituzione fu così alta che altri lasciti ragguardevoli (ancora della vedova Petringa, poi di Anderloni e Tischer, eredi Martini) incrementarono la collezione (oggi ricca di 700 opere). Sull’artista vennero intanto curate pubblicazioni (da Arturo Benvenuti, Giuseppe Marchiori, Paolo Bellini, Marco Lorandi), si arricchì la bibliografia martiniana e furono organizzate varie mostre monografiche.
La poesia
Le radici della poesia e della pittura di Arturo Benvenuti che abbiamo potuto leggere e vedere in tutti questi decenni fino all'ultimo della sua vita sono gettate negli anni Sessanta. Primi sono i versi o i segni pittorici? Le esperienze si alimentano l'una con l'altra e i loro frutti sono maturi sul finire del decennio e corrono per gli anni Settanta. I versi hanno generato anche le immagini e le immagini anche i versi, vivendo simbioticamente fin dal primo libretto edito, i 25+15 bozzetti giuliani del 1969. Si aggiungono poi ritmicamente Masiere nel 1970, Adriatiche rive nel 1973, A meno che nel 1977, Još («ancóra» in croato) nel 1978, Non ve ne andate gabbiani (il mio Carso) 1969-1970 nel 1979, di nuovo popolato quest'ultimo da trenta poesie e trenta dipinti, e KZ (sigla di Konzentration Zenter) - Poesie (2010), risalenti al 1980 e già raccolte in "autoedizione xerografica per gli amici" nel 1983.
I testi di KZ erano stati composti «durante uno dei "pellegrinaggi" lungo i tanti percorsi della sofferenza umana» che Benvenuti aveva intrapreso visitando i «tristi e terrificanti luoghi» che furono i lager, Oświęcim (Auschwitz, in tedesco) - Birkenau in Polonia, Terezín in repubblica Ceca, Mauthausen in Alta Austria, Buchenwald in Turingia (Germania orientale) non lontano da Weimar, mosso da esigenze interiori, «non ultimo il desiderio di raccogliere e mettere insieme [...] quelle particolari "testimonianze" che per noi, con i mezzi dell'arte, le vittime dei campi di concentramento e di sterminio nazisti hanno attuato». Con i disegni eseguiti dagli internati raccolti dal 1979 al 1983, ne era scaturito il libro KZ. Disegni dai campi di concentramento nazifascisti. Arte come testimonianza (con una prefazione di Primo Levi), meritoriamente ripubblicato nel 2010. Può sembrare un'opera che - dismettendo la propria ricerca poetica e umana, talvolta iperlirica e soggettiva, talaltra desolata e nichilistica - ha ceduto la voce e la penna a chi ha vissuto l'inferno concentrazionario del Novecento, il più orrido degli stermini, perché a costoro unicamente è ancora lecito usare i mezzi dell'arte, non più ad altri, neppure a chi ha vissuto altre, ma minori, violenze della storia o la perdita per quanto lacerante di pienezza della vita e dell'identità.
Per la poesia di Arturo Benvenuti i più recenti e completi contributi di analisi e di interpretazione sono i saggi di Giampietro Fattorello: Benvenuti, la cenere della vita e la poesia, ad introduzione della raccolta di tutta l’opera poetica (Becco Giallo Editore, Padova, 2014, pp. XVII-LXXV), e Lussino e il gabbiano: la poesia della persuasione in Arturo Benvenuti, nella monografia Arturo Benvenuti uomo, scrittore, artista (Fondazione Oderzo Cultura, 2012, pp. 33-67) dedicata soprattutto a documentarne criticamente la pittura, a cura di Roberto Costella.
La pittura
Ci si potrebbe chiedere se, in Benvenuti, primi siano i versi o i segni pittorici. Appaiono comunque geminati con la medesima sostanza ed intenzione, difficili se non impossibili da separare l'uno dall'altro come dei gemelli siamesi, cifrati gli uni dal linguaggio della scrittura, gli altri dal linguaggio delle forme e dei colori, ma coimplicantisi. Il sostrato dei significati (e talora di assenza dei significati raggiunta dall'impotente perlustrazione del soggetto) è lo stesso per entrambi.
«Poeta e pittore carsico» è espressione con cui spesso si è autorappresentato Arturo Benvenuti stesso o usata da chi ne ha affrontato criticamente l'opera (la "carsicità" essendo «un'esperienza», un attraversamento del mondo e della natura, spazio memoriale ed esistenziale spiritualizzato, come quella permessagli dall'isola di Lussino coi suoi micro/cosmi carsici, non solo la caratteristica fisica, esteriore, paesaggistica di un luogo). Lo ribadiscono i titoli di mostre personali della sua produzione pittorica: Espressioni carsiche (Maniago, 1971; Galleria Teatro Minimo, Mantova, 1972; Galleria La Chiocciola, Padova, 1974), Piccola antologia carsica (Biblioteca Comunale, Oderzo, 1978), Arturo Benvenuti. Carsiche. Paesaggio? Scrittura? Pittura? (Palazzo Porcia, Oderzo, 1992), Arturo Benvenuti. Carsiche. L'isola (Palazzo Moro, Oderzo, 2009), L'isola e micro/cosmi carsici (Museo del Paesaggio, Torre di Mosto, 2011).
La monografia curata da Roberto Costella, Arturo Benvenuti uomo, scrittore, artista, costituisce ad oggi il repertorio più significativo a cui riferirsi, per saggiare la forza e l'espressività del discorso iconologico del poeta-pittore (o pittore-poeta) Benvenuti. Roberto Costella, prima della monografia del 2012, gli aveva dedicato i saggi Arturo Benvenuti intellettuale veneto, poeta e pittore carsico («QDB. Quaderni della Biblioteca civica», Pordenone, 2010, n. 10) e Arturo Benvenuti, percorsi verso la pittura (Catalogo della mostra, L'isola e micro/cosmi carsici, Cicero, Venezia, 2011, pp. 13-21).
Sulla sua pittura (o «pagina dipinta», invece che «pagina scritta») astratto-geometrica, labirintica, sintesi tramutata di forma e materia, combinazione di «segni geometromorfici e organomorfici, cioè strutture pure, regolari e iterate, insieme a strutture singolari, variegate ed esclusive» (Roberto Costella), avevano scritto, presentando le varie esposizioni, Giuseppe Marchiori, Renzo Margonari, Silvana Weller Romanin Jacur, Roberto Durighetto, Giovanni Pizzuto, Tullio Vietri, Giorgio Baldo, ognuno apportando un tassello di individuazione.
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È di pietre e vento, di luoghi montuosi e isole, di mare e gabbiani l’universo istro-dalmata e, soprattutto, quarnerino e lussignano, a cui Arturo Benvenuti guardava come a una madre. Mi piace pensare che, prima che il suo cuore si spegnesse serenamente nel sonno nelle prime ore di lunedì 30 novembre 2020, Arturo si sia addormentato con l’immagine negli occhi di questo suo mondo dal quale proveniva l’amatissima moglie originaria dell’isola di Lussino, Maria «Marucci» Poglianich», per il pittore e poeta opitergino chiave d’accesso e simbolo di quel mondo e fondamentale «occasione» di ricongiungimento con la realtà storica e umana di origine della famiglia paterna.
Legato all’ambiente carsico che si estende dal monte Maggiore alle Bocche di Cattaro, Benvenuti vi ha trovato la linfa della sua vita e della sua arte pittorica e poetica, senza tuttavia cedere a tentazioni di pura evasività, cosa peraltro fin troppo facile di fronte alla seducente bellezza di quel paesaggio tanto scabro quanto attrattivo. Per questo, egli è diventato il cantore del Carso e delle sue adriatiche rive con l’ardore e l’entusiasmo di chi non conosce confini all’innamoramento per l’oggetto del proprio amore, al punto che così si esprime in Terra di Cherso e Lussino: «Senza misura ho amato / questo forte mondo / che sulle ruote non fugge / di fragili piaceri, / gli stregati giorni / nascenti con le brezze / dell’alba nell’adriatica / luce immersi / a serbare il senso / dell’essere tenaci» (vv. 28-47).
E, tuttavia, non si consideri l’atteggiamento esistenziale di Benvenuti per il suo mondo una chiusura in un luogo autosufficiente e protettivo come nel più classico quadretto idilliaco. Benvenuti conosceva a fondo la storia dell’Istria, della Dalmazia e della ex Jugoslavia, il loro intreccio di culture, romana, veneziana, slava e tedesca; anche grazie a all’esule Marucci, sapeva delle violenze storiche che vi erano state perpetrate. In quest’ottica, la tenacia a cui Benvenuti si richiama in questi suoi versi indica una volontà di resistenza morale verso tutto ciò che minaccia i valori di bellezza e umanità incarnati e sublimati nell’arcipelago di Cherso e Lussino. L’idealizzazione della terra carsica e quarnerina si accompagna pertanto a una vigile coscienza conscia delle strade, anche insanguinate, della storia. D’altro canto, Benvenuti scorgeva, nel suo stesso mondo, i segni di un cambiamento nefasto dettato da una contemporaneità consumistica, ormai indifferente a chi come Arturo guarda alla masiera, il muro a secco tipico del Carso, come a un simbolo di fede: «Guardo alla masiera / come a una fede», proclama infatti in Masiera (vv. 25-26).
Arturo Benvenuti uomo e intellettuale è sempre stato dentro la storia europea del Novecento e la sua tenacia si è tradotta in un impegno civile e culturale che ha sconfinato dal campo pittorico e poetico, per manifestarsi nella critica d’arte, nell’indagine antropologica e nella ricerca storica sull’Opitergino, la venezianità storica e la cultura istro-dalmata fotograficamente documentate, senza tacere l’azione a favore dell’ambiente e la promozione di mostre pittoriche e fotografiche. Amico del pittore Armando Buso e discepolo del critico d’arte Giuseppe Marchiori, Benvenuti è stato inoltre il fautore della riscoperta dell’opitergino Alberto Martini, cosa che in virtù della sua determinazione ha portato, nel 1970, all’istituzione della Pinacoteca opitergina dedicata al grafico e pittore precursore del surrealismo.
Impastato di storia, Benvenuti ne ha colto i contrasti e le lacerazioni fin dai tempi del secondo conflitto mondiale; allora ventenne si rese conto che le dita sporgenti dalle fessure dei carri piombati fermi alla stazione ferroviaria di Treviso erano di persone deportate verso una destinazione tragica e infernale, i lager dello sterminio nazifascista. Così, mosso dal rimorso di non aver potuto niente contro l’annullamento dell’umano consumato nell’universo concentrazionario hitleriano, il Benvenuti ormai adulto sentì l’obbligo morale di percorrere, con Marucci, le vie d’Europa, per rintracciare e raccogliere i disegni degli internati nei lager e offrire un risarcimento memoriale alle vittime della Shoah. Il lavoro terminò nel 1981 e venne pubblicato nel 1983 con il titolo K.Z. Disegni dai campi di concentramento nazifascisti. Arte come testimonianza, un libro dall’altissimo valore umano se Primo Levi ne firmò la Prefazione, «contravvenendo a una regola che mi sono imposta» (così Levi in una lettera a Benvenuti datata Torino, 16 ottobre 1981).
Arturo è stato artista e intellettuale poliedrico, autentica figura di genio, personalità ironica e rigorosa, talvolta «petrosa» come le pietre del Carso di Scipio Slataper e dello stesso Arturo, suo «discepolo ardente» (A Scipio Slataper, v. 1). La sua opera poetica è stata per me oggetto di studio. I nostri incontri erano una reciproca seduta psicoanalitica. Essergli stato amico e averlo avuto come maestro è un mio privilegio (tratto da Giampietro Fattorello, Arturo Benvenuti. Dentro la storia europea del '900, «IL DIALOGO», n. 1, Gennaio 2021, p. 11 | parrocchiaoderzo.it/dialogo-genn21-web)
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Giampietro Fattorello ha scritto appositamente per il sito locusglobus.it (e lo ringrazio di cuore) un altro contributo per la conoscenza ancora più ravvicinata di Arturo Benvenuti, di cui ha studiato l'opera opetica.
Si tratta di La verità vissuta di Arturo Benvenuti, che potete leggere a questo LINK o in formato PDF
Arturo Benvenuti: approdi poetici - 1/2
Arturo Benvenuti: approdi poetici - 2/2
Arturo Benvenuti racconta "K.Z. Disegni degli internati nei campi di concentramento nazifascisti"
Arturo Benvenuti, pittore e poeta di Oderzo, oggi novantenne, ha voluto fare memoria in maniera davvero toccante. Per anni ha girato l’Europa cercando i disegni realizzati da grandi e piccoli nei campi di concentramento.
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Ripropongo un post dell'anno scorso - tra storia, arte e leggenda - per la "piccola estate di san Martino" di questi giorni («L’istà de San Martin dura tre dì e un pochetin») ...
«Far San Martin». In una società non più prevalentemente agricola e povera, l'espressione ha quasi perso significato, ma fino agli anni sessanta del Novecento rappresentava ancora un'esperienza patita con sofferenza dalle famiglie contadine e uno spettacolo struggente anche per chi osservava i loro forzati traslochi. L'usanza era atavica. Il quadro del pittore cremonese Vincenzo Campi, Il sanmartino, ritrae uno di questi traslochi nell'ultimo quarto del Cinquecento.
Nel calendario rurale l'11 novembre, ricorrenza di San Martino, faceva da spartiacque tra un'annata agraria, dopo la semina, e la successiva. Quando i contratti di mezzadria o affittanza venivano sciolti, segnava il termine ultimo per lasciare il fondo e il casolare. La disdetta, ricevuta solitamente a maggio, in anticipo di un semestre sulla scadenza, costringeva il capofamiglia all'ansiosa ricerca di un nuovo contratto e una nuova sistemazione nello stesso comune o, al più, tra paesi vicini - se questa riusciva - senza sicurezza di conservare o migliorare le condizioni lavorative e abitative che abbandonava.
Pinacoteca Alberto Martini
Dal 1° maggio al 30 giugno 2022
Oderzo - Palazzo Foscolo
© 2022 am+