[Bruno Callegher] In una ideale antologia di personaggi opitergini, degni di essere ricordati, dovrebbe senz’altro comparire l’abate Raimondo Cecchetti, per lunghi anni al servizio di cardinali e di ambasciatori della Serenissima.
Nato a Oderzo, da famiglia con forti legami veneziani, si dedicò agli studi letterari-giuridici presso l’università di Padova. Com’era consuetudine nel primo Settecento, si interessò a molteplici discipline: teologia, diritto civile, diritto canonico, scienze naturali e matematica. Completata la preparazione universitaria, soggiornò a Padova per qualche anno, come aiutante di studio del suo dotto professore: il Lazzarini. A questo periodo risalgono gran parte delle sue composizioni letterarie: poesie in stile petrarchesco-arcadico, orazioni, epistole in italiano e latino, in gran parte edite postume da Giulio Bernardino Tomitano.
A Padova, inoltre, “conosce il mondo”: il chierico con ordini minori può diventare l’umanista cortigiano al servizio di qualche potente, una professione che allora permetteva di viaggiare, tranquillità economica, considerazione sociale.
Così Cecchetti si trasferisce a Roma prima al servizio del cardinale Acquaviva d’Aragona (ambasciatore del re di Spagna Carlo di Borbone), poi degli ambasciatori veneti Alvise Mocenigo e Andrea da Lezze. Nel 1750, sempre a Roma, entra nella cerchia del cardinale Rezzonico, come membro della burocrazia della Santa Sede, conservatrice e rigorista in campo morale, poco aperta alle spinte illuministe, molto intrigante nelle relazioni di politica estera.
Da solerte segretario, incaricato di sorvegliare e redigere rapporti scritti (oggi lo chiameremmo “agente segreto”), nel 1752 partì per la corte di Parigi, dove con Bianciforte Colonna avrebbe dovuto portare l’omaggio del papa per il neonato del Delfino di Francia. Il suo vero compito era un altro: sorvegliare l’ambiente della corte, fortemente sospetto di essere gallicano e giansenista.
L’abate Cecchetti, con la scusa di portare in omaggio “le fasce del papa”, restò in Francia per più di un anno. Ebbe modo di viaggiare, andò anche in Inghilterra, ascoltò indiscrezioni, raccolse malumori, fu introdotto alla corte di Versailles, dominata dalla prorompente personalità della Pompadour, si fece qualche idea sulle divisioni tra clero fedele al Vaticano e clero sostenitore di una Chiesa nazionale francese.
Tornato a Roma nel 1753 scrisse la sua relazione, dal titolo Delle turbolenze nate nella Francia nel Regno di Luigi XV tra il Clero ed il Parlamento. Lo scritto, con ogni probabilità, era destinato a ristretti circoli curiali. Ma proprio in quei mesi passava per Roma, diretto a Napoli, l’amba-sciatore veneziano Firmian, il quale molto probabilmente ebbe modo di leggere e forse far copiare la relazione del Cecchetti, molto colorita e certo in grado di suscitare clamori e tensioni tra la corte francese e la corte vaticana. In breve tempo nei salotti e tra il personale diplomatico dei vari regni e ducati della penisola si leggeva e malignava “Delle turbolenze nate nella Francia...”, soffermandosi compiaciuti sul giudizio dell’amante del re di Francia, «Marchesa Pompadour ministra dei piaceri del re, infetta di giansenismo».
Quando lo scritto giunse nelle mani dell’ambasciatore di Francia, per l’abate opitergino cominciarono giorni difficili: iniziò a temere per la propria vita e la curia romana cercò di liberarsi di un personaggio ormai divenuto scomodo e indifendibile. Il Segretario di Stato gli diede una cospicua somma, invitandolo però a lasciare in incognito la città. Raggiunse Siena, ma fu scoperto; passò a Milano, dove qualche giorno dopo il suo arrivo seppe che l’ambasciatore di Francia aveva chiesto e subito ottenuto un mandato di arresto. Riparò quindi nella vicina Svizzera e solo nel 1756 poté rientrare nella Serenissima, avendo ottenuto il perdono dalle autorità francesi.
Oderzo gli dovette allora sembrare un tranquillo approdo, dopo tanto peregrinare e temere. Ma il suo soggiorno era destinato a interrompersi presto perché uno dei suoi primi protettori, il cardinale Rezzonico, fu eletto papa nel 1758. Subito egli ritornò a Roma, sperando un qualche favore o incarico dal nuovo papa, ma il personaggio aveva suscitato troppi clamori e, in modo oscuro, trascorse i suoi ultimi anni romani godendo della protezione di qualche prelato e in particolare del cardinale Corsini. [Devo queste schematiche notizie alla biblioteca dell’amico ing. Giancarlo Pizzi, profondo conoscitore anche di vicende opitergine]
L'articolo di Bruno Callegher, L’abate Raimondo Cecchetti. Un settecentesco “agente segreto” opitergino alla corte di Luigi XV e della Pompadour, è stato pubblicato in «Polittico», Suppl. a Europanews, Numero 408 del 9.12.1991, p 15
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