[a. m.] Antonio Angeli, nato a Pirano (18.12.1894), aveva iniziato gli studi presso il Convitto del Seminario vescovile di Capodistria assieme all’amico Antonio Santin, futuro vescovo di Fiume e quindi di Trieste e Capodistria. Il mondo ovattato degli studi ginnasiali, proprio alla loro fine, venne bruscamente interrotto dagli eventi del primo conflitto mondiale. Il goriziano (lungo la linea di difesa dell’Isonzo e del Carso) e la zona di Pola, piazzaforte della marina asburgica, erano divenute zone di guerra e le popolazioni locali furono sgomberate. Anche i seminaristi delle diocesi di Parenzo e Pola e di Trieste, per completare gli studi superiori di teologia, vennero spostati nel monastero cistercense di Zatičina (Stična, nella Slovenia centrale), dove avrebbero potuto frequentare il corso teologico accorpato in sei mesi prima di essere mandati a Vienna per gli altri sei mesi.
Ma le condizioni di vita erano dure e, per la crisi dei vettovagliamenti causata dal prolungarsi della guerra, il seminarista Angeli fu costretto a lasciare anche tale sede slovena. Nel ricordare quel tempo, in memoria dell’amico di Dignano don Domenico Groppuzzo morto di febbre spagnola appena finita la guerra, ne scrisse così: «si mangiavano pietre, si beveva aria e … si sospira(va)». In quella situazione egli poté però salvarsi dalle evacuazioni forzose di vari paesi dell’Istria e quindi dalle «infauste baracche di Wagna» (il campo profughi nella Stiria meridionale dove furono deportate le popolazioni del litorale austriaco, inclusi moltissimi istriani), perché fu inviato di nuovo a Zatičina. Nel 1918, ordinato finalmente sacerdote, fu assegnato alla parrocchia di Parenzo. Nel 1929 fu spostato a Dignano e nel 1932 ne divenne parroco fino al 1934 quando fu chiamato a Pola a succedere all’amico mons. Santin promosso vescovo di Fiume (1933-1938). Vi rimase come parroco fino al 1947.
Lo stile della sua pastorale nella nuova realtà non si discostò dalla tradizione dottrinale e liturgica e dalle consolidate pratiche religiose verso la comunità, ma si esplicava con «il particolare garbo e distinzione» propri della sua personalità (Zovatto). Di rilievo sociale e culturale, oltre che religioso, fu la collaborazione dell’associazione caritativa San Vincenzo: segretario era allora Antonio Ravignani - padre di Eugenio Ravignani, futuro vescovo di Vittorio Veneto e quindi di Trieste - e presidente era Marcello Labor (← it.wikipedia.org/Marcello-Labor), nato Loewy, di origine ebrea, grande figura di medico, di forti simpatie socialiste prima della conversione al cattolicesimo, ordinato sacerdote nel 1940 proprio da Antonio Santin, allora vescovo di Trieste, quindi studioso di questioni sociali, educatore e teologo. Don Antonio Angeli completò anche la mediazione già intrapresa da don Domenico Groppuzzo tra l’Azione Cattolica - portata dall’Italia in Istria dopo la prima guerra mondiale - e i circoli cattolici di cultura che vi fiorivano in precedenza.
Per quella terra di confine il passaggio storico si fece drammatico dopo il disfacimento dell’esercito italiano del ’43. Dalla cattedrale di cui era parroco si prodigava nella raccolta di viveri per sfamare i soldati italiani in ritirata, prigionieri dei tedeschi, o fornire loro, se liberi, dei vestiti borghesi in cambio di quelli militari per sfuggire all’individuazione e quindi alla deportazione da parte dei nazisti. Sebbene quest’opera di umanità - per cui si prestavano anche madri di famiglie contadine slovene e croate, oltre quelle italiane - già l’avesse messo in cattiva luce presso gli occupanti tedeschi che guardavano con sospetto tutti gli italiani, perché “traditori”, egli non esitava, anche nelle omelie e nelle conferenze molto seguite dai fedeli, a deplorare e denunziare pubblicamente le prevaricazioni e i misfatti dei nazisti contro la popolazione inerme dell’Istria, anche se provocati dai partigiani.
Rischiò di pagare con il campo di concentramento l’aver cercato di intervenire contro l’impiccagione del parroco di Canfanaro, suo amico, don Marco Zelco, da parte dei tedeschi, nel febbraio del 1944. Imprigionato per le sue vibranti rimostranze, era destinato all’internamento a Dachau. Fortunatamente ne scampò. Dopo l’impiccagione di don Marco Zelco, tra il vescovo Raffaele Radossi e il Gauleiter (il capo della sezione locale del Partito Nazionalsocialista) si era cercato un “modus vivendi” in base al quale non si potesse procedere contro un sacerdote senza informare l’ordinario di Parenzo-Pola. Così il Gauleiter stesso aveva promesso una guardia di vigilanza per le navi provenienti da Pola per intercettare - e sottrarlo alla morte di stenti - il già condannato prigioniero mons. Angeli, ormai in viaggio verso Trieste, via mare, diretto verso la sua tragica destinazione a Monaco di Baviera. Contemporaneamente però anche mons. Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, l’amico di mons. Angeli dai tempi del seminario, diffidente di queste promesse, lo faceva cercare in ogni angolo di Trieste, dove già era arrivato. Trovato nello scantinato di una scuola, «si salvò per un millesimo», ricordò lo stesso vescovo Santin molti anni dopo, nell’orazione funebre nel duomo di Oderzo, alla morte dell’amico nel 1971.
Altre sventure si prepararono quando si instaurò l’Amministrazione dell’Armata Jugoslava a Pola, città ormai in fase di annessione alla nuova Repubblica Confederale Socialista della Jugoslavia. Come neutralizzare l’influenza di una personalità di spicco come mons. Angeli ed edulcorare il suo atteggiamento verso il regime socialista massimalista? Le blandizie delle nuove autorità e le promesse di sostegno finanziario ai bisogni della sua attività e al suo “Bollettino parrocchiale”, dalla gente molto amato e letto, non riuscirono ad irretirlo. Conscio della trappola che gli si tendeva, per salvaguardare la libertà d’esercizio del suo sacerdozio, preferì sospendere il periodico parrocchiale. Subìte altre limitazioni, spiato in maniera offensiva e opprimente, fu costretto anche lui a lasciare Pola, seguendo la rotta della gran parte degli abitanti della città che partivano esuli con la nave "Toscana".
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Alcuni stralci da autori che hanno scritto di mons. Angeli
Le figure più eminenti tra i profughi erano due preti. Monsignor Chiavalon e Monsignor Antonio Angeli. Erano stati parroci, in Istria. L’uno a Dignano, l’altro a Pola. Quest’ultimo, nativo di Pirano d’Istria, era un uomo di grande cultura, con la sensibilità di un poeta e la tensione mistica d’un vero religioso. Un intellettuale, che aveva compiuto i suoi studi e ottenuto le lauree in filosofia e in scienze sociali. Insegnerà a lungo nel Collegio della città che lo accolse, l’uno gestito da preti e l’altro da suore, entrambi vanto della nostra città di Oderzo. Anche all’aspetto si riconosceva lo svagato uomo di cultura. Sempre dietro ai suoi pensieri, e noncurante delle vanità. Al momento dell’esodo, Monsignor Angeli aveva poco più di cinquant’anni. La lunga veste nera non aveva nessuna ricercatezza, anzi, era lisa sul bordo delle tasche e lustra sulle spalle. Aveva capelli pepe e sale, folti, che spuntavano dal tricorno col batuffolo serico sul colmo. Ma più spesso era a capo scoperto, come gli facesse piacere che il vento giocasse a scompigliargli la riga, restituendogli l’aria da ragazzo. Sul volto scarno, un’ombra permanente di malinconia.
[Ulderico Bernardi, La piccola città sul fiume, Editrice Santi Quaranta, Treviso, 2002]
Nel libro Una terra antica. Storia, cultura e tradizioni dell’Opitergino (2014), Ulderico Bernardi riassume le tragiche vicende giuliano-dalmate del dopoguerra e ricorda l’insediamento di un gruppo di esuli in case private a Oderzo, in Villa Revedin a Gorgo al Monticano, in Villa Galvagna a Colfrancui e a Palazzo Foscolo.
Tra questi c’era mons. Antonio Angeli, nato a Pirano nel 1894 e divenuto fra le due guerre parroco di Pola.
«Un uomo – lo definisce Bernardi – di grande cultura, con la sensibilità di un poeta e la tensione mistica d’un vero religioso. Un intellettuale, che aveva compiuto i suoi studi e conseguito le lauree in Filosofia e in Scienze sociali». A Oderzo insegnerà a lungo nel Collegio maschile “Brandolini” dei Padri Giuseppini del Murialdo e nel Collegio femminile delle Suore di Santa Dorotea.
«Anche all’aspetto – scrive l’autore, come già aveva fatto nel suo libro La città sul fiume – si riconosceva lo svagato uomo di cultura. Sempre dietro ai suoi pensieri, e noncurante delle vanità. La lunga veste nera non aveva ricercatezza, anzi, era lisa sul bordo delle tasche e lustra sulle spalle. Aveva capelli pepe e sale, folti, che spuntavano dal tricorno col batuffolo serico sul colmo. Ma più spesso era a capo scoperto. Come gli facesse piacere che il vento giocasse a scompigliargli la riga, restituendogli l’aria da ragazzo. Sul volto scarno, un’ombra permanente di malinconia.
La domenica faceva bellissime prediche alla messa grande delle undici, in Duomo. Venivano anche da fuori per il sentimento che metteva nel commentare le Sacre scritture. C’era chi ne aveva fatto il suo padre spirituale, tanto era paziente e caritatevole nell’accogliere le confessioni.
Gli piaceva parlare coi suoi studenti, e raccontare di Pola, città romana come questa dove era venuto a stare. Solo che la sua si raccoglieva attorno a un’arena di pietra d’Istria grande come quella di Verona». «Quando – aggiunge Bernardi – poteva avere un gruppo di ragazzi attorno era contento. Maestro per vocazione, fabulatore e poeta, discorreva di filosofia e di letteratura ma altrettanto volentieri di fatti quotidiani. Aveva una forza nel narrare, che rendeva la scena colorita e sapida di umori. Fino a far percepire sapori, fragranze e personaggi come vivi. Raccontava del bosco Siana, dove Pola respirava il verde, ma anche del mare dello stesso colore, dei pescatori che sbarcavano le loro casse e magari cucinavano direttamente sul molo un braciere di sardelle da accompagnare col vino rosso.
Diceva cose di infinita tristezza, perché un cristiano, un religioso poi, non può odiare nessuno. Si schermiva se qualcuno aveva parole di ammirazione per la sua scienza e la sua capacità di perdono. Citava un brano della prima Lettera dell’apostolo Paolo ai Corinzi: Se anche parlassi le lingue degli uomini ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cimbalo che tintinna. La carità, diceva, è l’essenza stessa di Dio. Praticandola si dà adempimento alla sua Legge. Tutt’intera. Ch’è il summum bonum, il bene supremo. Un’altra citazione gli era cara e frequente nei suoi ammaestramenti. Sempre da Paolo, nella Lettera ai Romani: Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto».
«Monsignor Antonio Angeli – scrive Bernardi nel paragrafo successivo – passò a miglior vita, con Pola e i suoi paesi sempre nel cuore, in una stanza dell’ospedale di Oderzo nel 1971. Gli teneva la mano in quell’ultimo sospiro il vecchio compagno di studi in seminario Antonio Santin, arcivescovo di Trieste, che lo aveva raggiunto e salutato nella sua cara lingua nativa: Tonìn, xé rivà quel momento tanto bel!».
[Ulderico Bernardi, Pola e gli opitergini – dal numero di maggio de “L’Arena di Pola”, 14/5/2015 | 10febbraiodetroit.wordpress.com/2015/05/14/ulderico-bernardi-pola-e-gli-opitergini-dal-numero-di-maggio-de-larena-di-pola/]

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