Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
AGNOLET Giovanni Battista, ARGENTON Francesco, BIANCO Giovanni, BORASO Angelo, BOZZO Antonio, BRAVIN Luigi, BUFFOLO Nicolò, CALIMAN Bortolo, DAL BEN Giovanni, DAL BEN Giuseppe, DE BIANCHI Emilio, FREGONESE Enrico, MOMI Giuseppe, NARDO Eugenio (Piavon), PICCOLO Luigi, SPADOTTO Luigi, STORTO Aurelio (Piavon), VAZZOLER Luigi, VIDOTTO Pietro, ZANARDO Pietro (Piavon): sono i nomi dei 20 soldati opitergini del 55° Reggimento fanteria “Marche” morti nella più grave tragedia navale italiana, l’affondamento del piroscafo “Principe Umberto”, l’8 giugno 1916, silurato dal sommergibile austroungarico U5 al largo di capo Linguetta nelle acque albanesi del canale d’Otranto, mentre il naviglio era in trasferimento marittimo dall'Albania al fronte dell'Isonzo.
Si contarono soltanto 895 sopravvissuti, mentre 1926 furono le vittime: 110 marinai dell’equipaggio, 52 ufficiali e 1764 soldati del 55° Reggimento fanteria “Marche”, di cui 521 soldati provenienti dal trevigiano. Tra loro c'erano, oltre ai 20 di Oderzo già citati,
E così via. Per giorni e giorni il mare restituì alla spiaggia di Valona corpi straziati e irriconoscibili di marinai e fanti italiani che vennero sepolti senza nome ai bordi della strada che da Valona sale verso Kanina.
L'occasione per riportare alla memoria questa immane tragedia a 106 anni di distanza è la certezza che la nave, localizzata dall'ingegnere italo-svizzero Guido Gay - esploratore di abissi in cerca di relitti - e successivamente raggiunta a 930 metri di profondità da un mezzo sottomarino robotizzato che ne ha permesso l’identificazione, sia proprio quel che resta della “Principe Umberto". «Con il sonar», ha spiegato Guido Gay, «abbiamo individuato la presenza del relitto già al primo passaggio, circa un mese fa. Le caratteristiche del relitto, addirittura con un fianco che sporgeva dal fondo, rilevate dal sonar ci davano la quasi certezza che si trattasse proprio di quella nave. L’identificazione visiva è stata effettuata la settimana scorsa. Siamo tornati sul posto qualche giorno dopo il rilevamento sonar, ma ci siamo scontrati con le forti correnti dal canale d’Otranto. Per due volte non siamo riusciti a far scendere in profondità il robot sottomarino, una volta ha raggiunto il fondo, ma è finito lontano dall’area dove il sonar aveva rilevato la massa metallica. Finalmente, il quarto tentativo è stato quello buono: il robot è riuscito a raggiungere il relitto e a ispezionarlo, scattando le immagini che ci hanno dato la certezza dell’identificazione».
Il numero 7 della rivista Archivio Storico Cenedese è stampato, disponibile in prevendita sul sito ascenedese.it/.../asc-7 e da metà giugno anche in libreria.
Un po' di attesa è stata necessaria anche quest'anno, come lo scorso, a causa delle difficoltà di accedere ad archivi e documenti incontrate durante le emergenze covid. Ora il nuovo numero potrà essere nelle mani dei lettori, in previsione di essere anche presentato in alcuni incontri pubblici nel Vittoriese e nell'Opitergino dopo l'estate.
Vi anticipiamo intanto il sommario degli Studi&Ricerche e delle Comunicazioni presenti:
Completano il numero alcune "Brevi" di Manoel Maronese (Un nuovo testimone dell'ode di Giambattista Amalteo per Giovanni d'Austria) e Giampaolo Zagonel (Omaggio a Dino Buzzati nel 50° anniversario della scomparsa) e alcune "Recensioni".
È recentissima (di febbraio 2022) la ristampa di un aureo libretto di Piero Brunello, Acquasanta e verderame, uscito la prima volta nel 1996 da Cierre edizioni. Con modifiche e aggiornamenti e una rifusione dei testi in nuovi paragrafi e capitoli, la riedizione porta ora il titolo Lo zolfo e l'acquasanta. Parroci agronomi in Veneto e in Friuli nel periodo austriaco (1814-1866).
L'importanza dei legami simbolici tra sacro e fertilità nelle società rurali è questione assodata. Nessuna sorpresa che anche nel Veneto rurale «le scadenze del lavoro contadino fossero segnate dalla devozione ai santi e dal calendario della Chiesa cattolica, e che il buon esito dei raccolti fosse affidato alle benedizioni del clero e alle processioni nei campi. Oltre ad allontanare malattie e avversità atmosferiche, i riti propiziatori, che si svolgevano ai confini dei poderi e davanti ai capitelli, rafforzavano simbolicamente le proprietà e le gerarchie sociali».
Nuovo è il fatto che rispetto ad innovazioni tecnologiche e moderne pratiche agronomiche, come quelle introdotte almeno a partire dalla seconda metà del Settecento, fu il parroco ad essere «il mediatore più adatto» anche per insegnare le materie agronomiche, senza che fosse sentito in contrasto «con le credenze magiche – e con esse l'ordine sociale, morale e religioso tradizionale». Il parroco, conoscitore sia del "dizionario del cittadino” sia di quello “del contadino”, spesso proveniente lui stesso dalla campagna, «impartiva nozioni utili alle tecniche agricole e allo stesso tempo norme di comportamento morale; insegnava cioè non solo come dar zolfo alle viti ma anche come le donne di campagna dovessero vestirsi e come i poveri dovessero trattare i ricchi (e viceversa)».
L'argomento del libro è dunque questo interesse dei parroci di campagna all’agricoltura e ai miglioramenti agricoli, nel contesto delle province venete e friulane che fecero parte del Lombardo Veneto austriaco, dopo esser dipese «dal governo di Venezia che, in tema di rapporti tra stato e chiesa, aveva una tradizione politica diversa dalle regioni confinanti».
«Era normale che un parroco si tenesse informato sulle novità nel campo degli aratri, delle rotazioni, dell’allevamento dei bachi da seta, dei rimedi contro la malattia della vite? Data la grande distanza tra città e campagna, chi insegnava ai contadini a mettere in pratica i suggerimenti e le scoperte degli agronomi? E infine, dal momento che ai contadini era stato insegnato che buono e cattivo tempo, raccolti abbondanti e carestie, piogge e siccità, tutto veniva da Dio, in che modo potevano accettare di combattere con lo zolfo un castigo del cielo come la crittogama?»
Brunello risponde in ognuno dei quattro capitoli del libro chiarendo un aspetto particolare.
Il primo capitolo offre una messa a punto del ruolo del parroco. Nel Lombardo Veneto, «oltre a essere ministro del culto, è anche un funzionario statale: in pratica deve mediare tra sudditi e autorità politiche» e gode di entrate economiche che gli consentono «qualche margine di autonomia sia dallo Stato che dai signorotti del paese». Nello svolgimento di questi compiti "politici", l’atteggiamento del clero cambia nel corso del tempo «dalla tradizionale fedeltà all’autorità politica – prima Venezia, poi Vienna – all’obbedienza al papatoNota 1, dopo l'Unità, e ad una visione «antistatale e antiliberale», di fine secolo. Prima il ruolo del clero nelle campagne è legittimato dalle autorità civili, poi fu assicurato «dall’organizzazione centralistica del clericalismo intransigente che fa capo a Roma».
Nel secondo capitolo Brunello esamina il ruolo di tali parroci di campagna – stretti «tra la religione popolare che li vuole stregoni e la gerarchia ecclesiastica che invece vuole distinguere nettamente religione da magia» – e delinea il loro atteggiamento nei confronti dei parrocchiani «che chiedono benedizioni contro qualsiasi disgrazia o malattia accada ai raccolti, alle piante, ai bambini, alle donne, agli animali del cortile e della stalla».
Il terzo capitolo è dedicato alla figura di Lorenzo CricoNota 2, parroco di Fossalunga nel Trevigiano, che scrisse molto su argomenti attinenti all’agricoltura e ben si presta ad esemplificare l'argomento trattato.
«Che cosa sta a cuore a un parroco agronomo? Con chi parla, e di che cosa? Parla con uomini, con donne, con capifamiglia, con giovani, con proprietari, con contadini o con artigiani? E che cosa consiglia? Quale atteggiamento assume con i contadini e con il proprietario? Ha paura delle innovazioni o cerca di imporle? Ed eventualmente come mette assieme le novità tecniche ed agronomiche con la salvaguardia dei comportamenti che egli ritiene "antichi" e "tradizionali"?»
Poiché l'attivismo culturale del Crico non è un'esperienza isolata, ma interna al grande interesse per l’agricoltura diffusosi a partire dagli anni quaranta dell’Ottocento in Veneto e in Friuli (in verità fenomeno non solo locale, ma europeo), l'autore mostra quanto si può cogliere «nei giornali, nei discorsi in pubblico e nei salotti, nel sorgere di nuove associazioni, nella quantità di studi, esperimenti e innovazioni tecniche che riguardano i lavori dei campi». Ne è un esempio il periodico L’amico del contadino, edito a San Vito del Tagliamento dal conte Gherardo Freschi. «È un giornale che vede nel parroco il maestro dei contadini nelle cose di agronomia. I parroci di campagna sono il pubblico del giornale; alcuni di loro mandano articoli, lettere»Nota 3.
Nell'ultima parte del libro l'attenzione si concentra sul quindicennio precedente all’Unità, periodo di brutti raccolti, della malattia della vite e del baco da seta. La conclusione è che «i parroci suggerivano le innovazioni agronomiche, come ad esempio lo zolfo contro la crittogama, senza abbandonare le benedizioni alle viti richieste dai contadini: in questo modo le novità tecniche potevano imporsi senza sminuire il ruolo del clero nei paesi, né compromettere gli equilibri sociali e i ruoli di genere». In termini storiografici viene sfatato che l’immagine della società contadina presentata nell’Ottocento «sia il riflesso di una realtà esistente», trattandosi invece di «uno schema retorico sul quale fondare la prescrizione di regole e di norme di comportamento».
In Appendice, Brunello riassume le prime due sezioni dei dialoghi di monsignor Lorenzo Crico, Il contadino istruito dal suo parroco, pubblicate a Venezia nel 1817, rispettivamente dedicate all’Economia domestica e all’Economia rustica, e aggiunge – rispetto alla prima edizione – una relazione tenuta presso il Dipartimento di studi storici, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dal titolo Il parroco nel Lombardo Veneto. Lettera a Demir Mustafà, rom macedone.
Dalla propria ricerca l'autore crede possibile ricavare, tra le altre cose, anche un contributo che possa spiegare meglio «il perdurare di equilibri sociali e di mentalità diffuse nei distretti industriali sorti in Veneto dopo la fine del mondo contadino».
[Le citazioni virgolettate sono tratte dall'Introduzione di Piero Brunello | edizioni.cierrenet.it/.../lo-zolfo-e-lacquasanta]
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Angelo Natale Talier (1744-1818)
Lorenzo Crico (Noventa di Piave, 1764 – Venezia, 1835)
Giovanni Rizzo (Altichiero - Padova, 1825 - Salboro, 1902)
[1869] Catechismo agricolo ad uso dei contadini compilato dal parroco d. Gio. cav. Rizzo, con due appendici su alcuni pregiudizi dei contadini e sulle misure e pesi metrici, Coi tipi del Seminario, Padova, 1869 | Ristampa anastatica, Padova 2003, a cura di Lino Scalco | Ristampa, Panda Edizioni, 2012 | Reperibilità: amazon.it/Catechismo-agricolo-uso-dei-contadini
Non sono diventato improvvisamente venetista. La tradizione può restare fattore culturale anche senza nostalgie passatiste, superate dalla storia, e la conoscenza di elementi culturali caratterizzanti della propria storia passata è foriera di consapevolezza anche per il presente.
"Bon cao de ano" ricorda un calcolo arcaico del ciclo annuale che si faceva cominciare con la fine della stagione più fredda e l'imminente arrivo della primavera che portava al risveglio della natura, ad un nuovo inizio.
All’epoca della Serenissima, l’anno iniziava il primo marzo, non il primo gennaio come indicato dal calendario giuliano (riformato da Giulio Cesare) e poi gregoriano. Se si iniziano a contare i mesi da marzo, diventa comprensibile perché il settimo, l'ottavo, il nono e il decimo mese dell'anno conservino il nome latino di September, October, November e December. Il quinto e il sesto (originariamente Quintilis e Sextilis) erano diventati Julius e Augustus in onore di Cesare e di Augusto.
Molti antichi documenti veneziani riportano perciò la data accompagnata dalla sigla m.v. (more veneto) per specificare come il calendario fosse "secondo l'usanza veneta". La dicitura continuò ad essere usata ufficialmente fino alla caduta del XVIII secolo, anche dopo l'uniformazione alla riforma gregoriana (1582) del calendario, per non confondere i due sistemi: ad esempio, iniziando l’anno il primo marzo, il gennaio 1582 "more veneto", corrispondeva al gennaio 1583 del calendario gregoriano.
Vegnì fora zente, vegnì
vegnì in strada a far casoto,
a bàtare Marso co coerci, tece e pignate!
A la Natura dovemo farghe corajo, sigando e cantando,
par svejar fora i spiriti de la tera!
Vegnì fora tuti bei e bruti.
Bati, bati Marso che ‘l mato va descalso,
femo casoto fin che riva sera
e ciamemo co forsa ea Primavera!
Vegnì fora zente, vegnì fora!
Venite fuori, venite
venite fuori a far confusione,
venite a battere Marzo con coperchi e pentole!
Alla natura dobbiamo far coraggio, urlando e cantando,
per svegliare gli spiriti della terra!
Venite fuori tutti, belli e brutti.
Batti, batti Marzo, che il matto gira scalzo,
facciamo confusione fino a sera
e chiamiamo con forza la primavera!
Venite fuori, venite fuori!
Il Bati Marso era una festa che accompagnava sia il Cao de ano, sia i giorni precedenti: andar in giro per le strade con pentole, coperchi e altri strumenti musicali fatti in casa battendoli e facendo una gran confusione, per scacciare l’inverno e il freddo e propiziare l’arrivo della bella stagione...
La tradizione si è mantenuta nei secoli e in alcune parti del Veneto ancora si canticchia questa filastrocca.
Un Bati Marso euganeo
[Danilo Montin | euganeamente.it/bati-marso] All’imbrunire del primo giorno di marzo s-ciàpi (gruppi) di giovani andavano per le strade dei paesi, fermandosi davanti alle case delle tose (ragazze) da sposare, e con trombe, corni, campanelli e bidoni vuoti incominciavano una diabolica sinfonia, accompagnati da urla e fisci (fischi). Terminato il baccano, il caporione della comitiva chiamava per nome la ragazza da maritare, annunciandole un buon partito, assegnandole cioè un marìo (marito). Ecco una parte della lunga filastrocca che veniva detta in tale occasione:
Ti (nome della ragazza) se non ti si al balcon,
leva suzo (su) che xe arivà un buon partito,
ma che partito che sia mi non lo so;
speta che me supia (soffia) il naso e dopo te lo dirò.
Xe qua Marso, e Marso volen che sia
de la bela ragassìa.
Qualche volta per far arrabbiare le ragazze più superbe, questi ragazzi proponevano per marito un vecio, un stùrpio o un desgrassià (un vecchio, uno storpio o uno sciancato); allora, piene di rabbia, invece d’invitare i giovani a bere un bicchiere di vino, dalle finestre buttavano giù un caìn (catino) d’acqua fredda o, peggio ancora, un vaso da notte!
* * * * *
Ho dedicato altri articoli al "Capodanno veneto". Se volete rileggerli...
In questa scenetta, Gaetano Zompini[1] raffigura due nobili che stanno aspettando le frittelle calde, che una giovane popolana sta preparando, usando un’enorme fersora, ossia una padella[2]. Un ragazzino infila le frittelle pronte su un lungo stecco di legno.
Una scena molto simile (un nobile che acquista le fritole da regalare a due belle fanciulle, infilzate su uno spiedo e donate come un mazzo di rose) fu dipinta, intorno al 1750, da Pietro Longhi, abile ritrattista della vita quotidiana del ‘700, in particolare del ceto aristocratico.
Leggiamo subito la "scena veneziana" (datata 1841) del nobile Pietro Gaspare Moro Lin:
«A Venezia da tempo remotissimo si usa certo dolce mangiare che appellasi fritole. Esse compaiono per tutto ove è festa, e nella quadragesima in ispecieltà si vendono per tutti quasi li campi, poiché li Viniziani non vogliono vedere diserta di fritole la lor mensa quaresimale. Composte di fiore di farina di formento, rimpastate a lievito unito a pignoli e a zucchero, con uva che pendeva dai tralci delle vite calabre, vengono coliate nell’oglio bollente. La fabbrica in cui si fanno è una trabacca, che per assomigliare a quella militare le manca soltanto la tela che serve di padiglione. Questa invece ha il coperto od il tetto di tavole compaginate e messe a piovere. Quadrangolare ha la forma, ed internamente presenta la figura di una stanza. Essa è il Palladio delli fabbricatori che stanvi dentro, i quali da una parte rimpastano e dall’altra friggono in una padella sovrapposta ad un tripode. Il davanti è propriamente il luogo della mostra solenne, e questa mostra dà un quadretto piacevole assai a riguardarsi. Immaginatevi adunque una tavola su cui appoggiano certi piattelloni di peltro, o di stagno lucidissimi, ed internamente con molto gusto disegnati. Alcuni di questi son vuoti, e posti perpendicolarmente sulla suddetta tavola per solo ornamento, altri contengono i pignuoli, le uve, altri finalmente capiscono il dolce mangiare, vogliam dire le viniziane frittole belle ed apparate per colui che ne va ghiotto, e fra uno e l’altro piatto veggonsi pani di zucchero. I principali cuocitori sono notissimi in Venezia, e, superbi di questo lor primato, vollero che sul laboratorio, a distinzione degli altri, s’innalzasse un’asta, avente in cima un cartellone in cui stesse scritto il loro nome; modo laconico ed espressivo assai, imperocché significa: Noi siamo maestri dell'arte, ed abbiamo diritto di essere riveriti sovra gli altri amministrator di frittelle. Hanno essi sempre in sul davanti un pannollino che s’assomiglia al grembial delle donne, che sembra esser venuto allora fuori dal bucato. Tengono in mano un vasetto bucherellato con cui gettano del continuo zucchero sulla merce, ma con tale atto che e’ pare vogliano dire: e chi non sente l’odore, ed il sapore di queste che noi inzuccheriamo? Eglino in questa guisa si mostrano presso la lor panca e loro è tanto andata a china la fortuna del professore che si vedono onorati, non che dalla comun gente, sì ancora dalla civile ed educata, la quale va a pigliare a frotta a frotta le frittelle per avere un saggio di loro bravura».
Guerre per rivendicare la primogenitura della fritola e della sua ricetta – anche se da secoli, almeno dal Cinquecento, è un dolcetto tipicamente ed eminentemente veneziano e veneto – è inutile farne.
Se non si vuol accettar antenati fuor di patria, anche per le frittelle – come per altre specialità tipiche della penisola italiana – per prima cosa si possono cercare tracce di origini in epoca romana antica. Farebbero al nostro caso in questo senso i globulos (globi), bocconcini di forma sferica preparati durante la celebrazione dei Saturnalia impastando semola di grano duro e formaggio, cotti nel grasso e conditi con miele e semi di papavero.
Ne troviamo la ricetta Globulos sic facito (“I globi si fanno così”) nel trattato De Agri cultura (o De re rustica) di Marco Porcio Catone il Censore (III sec a.C.):
Oppure sono imparentate con i frictilia elencati da Marco Gavio Apicio (I sec. d. C.) tra i dulcia domestica (“dolcetti fatti in casa”) nella raccolta di ricette De re coquinaria ("L’arte culinaria"):
Di frittelle greche sappiamo che si chiamavano enkrís (ἐγκρίς) quando erano cotte nell’olio oppure melitoùtta (μελιτοῦττα) o maza (μάζα) quando erano cotte nello strutto, e in ogni caso si consumavano cosparse di miele.
Ma, dai globuli e dai frictilia romani-antichi alle fritole veneziane quattro-cinquecentesche, quanti salti ci possiamo immaginare ancora?
Fuor di patria, qualche ricercatore individua due specialità appartenenti alla cucina arabo-persiana, quali la Zelabia e la Zelabia alia (“un’altra zelabia”), trasmesse ai veneziani attraverso le ricette del trattatello Liber de ferculis et condimentis (“Libro delle vivande e dei condimenti”), scritto a Venezia da Giambonino da Cremona[3], un estratto in traduzione latina del Cammino della spiegazione di tutto ciò che l’uomo utilizza (Minhaj al-Bayan fi ma yasta ‘miluhu al-Insan[4]), enciclopedica opera dietetico-gastronomica di Ibn Jazlah, un medico iracheno, nato cristiano e convertitosi all’Islam, vissuto a Bagdad nella seconda metà dell’XI secolo, autore anche di un precedente Tacuinum aegritudinum et morborum, secondo la più accessibile traduzione latina del medico ebreo siciliano Faraj ibn Sālim nel 1280.
La prima si confeziona così:
L’altra così:
Tornando in patria, come “ricetta matrice” della fritola si potrebbe addurre quella per la preparazione di frittelle bianche, composte da un impasto lievitato di latte di mandorle e farina, suddiviso in piccole palline da friggere e cospargere di zucchero, che si legge in un manoscritto anonimo del XIV secolo (elaborazione in veneziano di un Anonimo toscano) contenente oltre un centinaio di ricette, conservato nella Biblioteca Nazionale Casanatense di Roma[5]:
A ben vedere una ricetta rimasta quasi invariata nel corso dei secoli, con aggiunta di modifiche fino a quelle degli odierni panifici e pasticcerie riguardo al ripieno: fritole con e senza scorzette di limone o d’arancia, pinoli, uvette, grappa o rum, con crema pasticcera, zabaione, crema di mele, cioccolato o pistacchio…
Le influenze a Venezia si fanno definitivamente riconoscibili lungo il Cinquecento. Nel volumetto Interpretatio arabicorum nominum (“Interpretazione di nomi arabi”) stampato a Venezia nel 1527 il medico bellunese Andrea Alpago, inviato a esercitare l’arte medica presso la comunità veneziana di Bagdad, trattando i termini Alzelabia, Alzelabi e anche Zelabile – tra diversi nomi relativi alla medicina, a prodotti vari, a cibi e specialità gastronomiche – spiega che «Az- zilābiyà», la «pietanza di pasta molto tenera a forma di luna, che viene fritta nell’olio, quindi mangiata con miele o zucchero», molto diffusa in Egitto e in Siria, di cui si parla nel citato libro Minhaj al-Bayan, è chiamata “frittola” presso gli abitanti dell’Italia.
Finalmente, testimonianza certa e autorevole è la ricetta rinascimentale della “frittella alla veneziana” inserita nell’Opera (edita a Venezia nel 1570) di Bartolomeo Scappi, “maestro nell’arte del cucinare”, cuoco di cardinali e di papi (Pio IV e Pio V).
Nel Seicento, nella città lagunare il consumo di frittelle divenne così diffuso e gradito da non poter essere soddisfatto dalla semplice produzione domestica e la preparazione e la vendita divennero appannaggio di veri e propri “maestri fritoleri”, sparsi per la città. Alcuni erano ambulanti, altri – più ricchi – disponevano di baracchini di legno al cui interno, indossando un tradizionale ampio grembiule bianco, lavoravano l’impasto su grandi tavole di legno e friggevano le frittelle in olio o burro in ampie padelle poggiate su tripodi. Sulla parte anteriore del barachin erano lasciati sempre in bella mostra gli ingredienti usati (come farina, uova, mandorle, pinoli e cedro candito) a scopo coreografico e a dimostrazione ai clienti dell’effettiva qualità, ed erano esposte con cura sopra piatti di peltro o stagno finemente decorati le frittelle appena cotte, spolverate di zucchero[7] con un vasetto bucherellato con studiati gesti teatrali, spesso infilzate su uno spiedo, in modo da poterle mangiare calde senza scottarsi le dita[8]. Fieri della propria opera, amavano farsi identificare da un’insegna con inciso il proprio nome.
Diventata la vendita di fritole un fattore economico redditizio, per salvaguardare la loro “arte” (ed i loro affari), regolando rigidamente il mestiere, i fritoleri costituirono nel 1619 una precisa corporazione con tanto di mariegola e specifica insegna, il cui luogo di ritrovo fu dapprima in un edifico vicino a S. Simeon Piccolo, poi dal 1743 nella chiesa della Maddalena, sotto il patronato della Beata Vergine Annunziata, nei pressi della Ca’ d’Oro. Con tale capitolare (statuto conservato all’Archivio di Stato di Venezia) ad ognuno dei 70 componenti venne assegnata e garantita una specifica zona della città in cui esercitare il mestiere, riservato solo ai veneziani, ed il diritto di trasmettere la professione (e le relative prerogative) ai propri figli, in mancanza dei quali, il gastaldo (cioè il capo delle singole arti) provvedeva a nominare un successore, che doveva poi essere approvato dalla magistratura[9].
Nella Repubblica Serenissima questi dolci tanto amati conobbero l’apogeo del successo nel XVIII secolo, quando furono proclamati Dolce nazionale dello Stato Veneto e la loro popolarità si allargò definitivamente alle regioni limitrofe che iniziarono ad assumere questa usanza durante i giorni del Carnevale.
Non è il caso di soffermarsi sulle differenti tradizioni nella preparazione delle fritole anche nella stessa Venezia, è però più di una curiosità citare la versione ebraica cucinata nel ghetto della città, ancora oggi consumata durante la festa del Purim (che si celebra nel 14° giorno del mese ebraico di Adar) nota anche come Carnevale ebraico o “Festa delle sorti”[10].
Quella dei fritoleri fu un’istituzione decisamente fortunata, tanto da rimanere in attività per più di duecento anni fino alla fine del XIX secolo ed essere celebrata da artisti e letterati famosi, che forse contribuirono anch’essi alla rinomanza della fritola.
Ne sono esempi il dipinto La venditrice di fritole di Pietro Longhi, del 1755, oggi custodito all’interno di Ca’ Rezzonico, o l’Insegna dell’arte dei Frittoleri attribuito a Gaetano Zompini, datato 1784, ospitato al Museo Correr. Di Zompini abbiamo già citato e riprodotto in apertura anche l'incisione La venditrice di frittelle inserita nella sua raccolta Le arti che vanno per via nella città di Venezia, 1753.
Anche Carlo Goldoni ci consegna una memoria di questo orgoglio di categoria ne Il campiello, (del 1756). La protagonista, Orsola, è una fritolera e, nell'Atto primo, scena 1, dove alcune donne litigano sui propri meriti, rivendica la propria profession
La ricetta | cucchiaio.it/ricetta/ricetta-fritole
Ripropongo un post dell'anno scorso - tra storia, arte e leggenda - per la "piccola estate di san Martino" di questi giorni («L’istà de San Martin dura tre dì e un pochetin») ...
«Far San Martin». In una società non più prevalentemente agricola e povera, l'espressione ha quasi perso significato, ma fino agli anni sessanta del Novecento rappresentava ancora un'esperienza patita con sofferenza dalle famiglie contadine e uno spettacolo struggente anche per chi osservava i loro forzati traslochi. L'usanza era atavica. Il quadro del pittore cremonese Vincenzo Campi, Il sanmartino, ritrae uno di questi traslochi nell'ultimo quarto del Cinquecento.
Nel calendario rurale l'11 novembre, ricorrenza di San Martino, faceva da spartiacque tra un'annata agraria, dopo la semina, e la successiva. Quando i contratti di mezzadria o affittanza venivano sciolti, segnava il termine ultimo per lasciare il fondo e il casolare. La disdetta, ricevuta solitamente a maggio, in anticipo di un semestre sulla scadenza, costringeva il capofamiglia all'ansiosa ricerca di un nuovo contratto e una nuova sistemazione nello stesso comune o, al più, tra paesi vicini - se questa riusciva - senza sicurezza di conservare o migliorare le condizioni lavorative e abitative che abbandonava.
Ernesto Sparago e Agostino Taboga hanno presentato sabato 11 settembre, all'interno degli appuntamenti del Terzo Festival Luchesi 2021, a Motta di Livenza, i primi due volumi della loro ricerca storica, codicologica e musicologica "Andrea Luchesi, il Kapellmeister di Ludwig van Beethoven", che intende analizzare criticamente e divulgare l'opera superstite del musicista di origini mottensi.
La prima pubblicazione (2020) è dedicata alle tre arie del repertorio luchesiano fino ad ora sconosciute, non identificate o, addirittura, disattribuite; la seconda (2021) alle sonate per tastiera, scritte tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60 del Settecento; la terza - in corso di composizione - avrà per oggetto i concerti.
La serata con la presenza dei due autori ha avuto il suo punto di forza e di estremo interesse nella limpida esemplificazione dei brani musicali analizzati attraverso la loro esecuzione al pianoforte per mettere in evidenza le caratteristiche compositive luchesiane appena illustrate e confrontarle con la musica attribuita ad altri autori (anche altisonanti) che si potrebbe ritenere di Luchesi stesso o da lui fortemente influenzata.
Non quindi la celebrazione di una gloria locale, o la recriminazione di non poter dimostrare il valore di Luchesi a causa della perdita di quasi tutta la sua opera, ma una sfida - a partire dalla sua musica superstite (forse non più dell'un per cento del totale stimabile) per intendere consapevolmente un'esperienza musicale che - se oggi patisce ancora la dispersione o la dimenticanza - non era inferiore ad altre "consacrate" nel suo secolo.
Il collaborazione con Provincia di Treviso, CGIL Treviso e La Tribuna, l'ISTRESCO (Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana) ha appena stampato Squadristi veneti all’assalto di Treviso. 12-14 luglio 1921, a cura di Lucio de Bortoli e Amerigo Manesso, con un'introduzione di Ernesto Brunetta.
La nuova pubblicazione è accompagnata da una presentazione (lunedì 12 luglio 2021, presso la loggia dei Cavalieri a Treviso) e dalla rievocazione storica degli eventi di un secolo fa (martedì 13 in Prato della Fiera) con la compagnia Metàz Teatro e la cantautrice Erica Boschiero che metteranno in scena la rappresentazione teatrale dell’assalto, in particolare di quello a Fiera con la resistenza degli abitanti (tratta dal libro “Assalto a Treviso – La spedizione fascista del 13 luglio 1921” di Francesco Scattolin).
Video | facebook.com/CgilTreviso/videos/343326410627468
Il libro sarà disponibile in allegato con Tribuna da martedì 13 luglio in edicola al prezzo di 13 euro invece di 22 + il prezzo del quotidiano.
Politica e memoria di Lucio De Bortoli e Amerigo Manesso (Introduzione al libro Squadristi veneti all’assalto di Treviso. 12-14 luglio 1921)
La spedizione a Treviso del 13 luglio 1921 è stata uno dei capitoli più rilevanti dello squadrismo fascista a livello nazionale. Lo è stata per numero di partecipanti, capillarità dei fasci coinvolti e capacità organizzativa. Lo è stata anche sotto il profilo strategico, come cerchiamo di dimostrare.
Un‘azione studiata sin nei minimi particolari, persino attraverso il rastrellamento dei mezzi militari ancora presenti sul Grappa – particolare già di per sé inquietante e rivelatorio – e che si è svolta mettendo a nudo non solo la totale impotenza delle autorità preposte alla pubblica sicurezza e alla difesa della legalità, ma anche forme di connivenza, se si enumerano i provvedimenti non assunti dal prefetto Pietro Carpani al quale erano pervenute le informative della prefettura di Padova su quanto si stava predisponendo.
Non è qui il caso di entrare nei dettagli a cui sono dedicati i saggi di apertura, se mai di sottolineare alcune singolarità.
La prima è di ordine politico. Nella stragrande maggioranza dei casi, come è a tutti noto, lo squadrismo fascista aveva nel mirino il mondo socialista: partito, organizzazioni, sedi, leghe e cooperative per l’evidente ragione che i socialisti avevano avuto, nelle diverse tornate elettorali (politiche e amministrative) precedenti, un grande successo. In subordine, l’onda squadrista si scagliava anche contro le leghe bianche della Pianura padana e il Partito popolare. A Treviso, a questi bersagli tradizionali, si aggiunse quello che sul piano locale stava diventando un problema ancor più grosso, vale a dire il protagonismo e il successo di Guido Bergamo e dei repubblicani trevigiani, rei di pescare in un bacino elettorale affine a quello fascista. Bergamo, per la verità, attingeva anche negli altri partiti di massa, ma ciò divenne persino un’aggravante, perché consentiva ai fascisti di affiancare al tradizionale epiteto di “traditore” o di “maddaleno” anche quello di “socialista”. Colpire Bergamo significava, peraltro, anche lanciare un esplicito messaggio all’amministrazione laica della città guidata dal sindaco Levacher.
Un’ulteriore valenza politica alla vicenda di Treviso è data dal fatto che rende evidenti le conflittualità interne al movimento dei fasci nel quale la leadership di Mussolini, proprio in quelle settimane di trattative per la pacificazione con i socialisti, tenta di imporsi sui ras locali come Marsich e Marinoni. L’operazione squadrista indica quale linea, quali alleanze e quali strategie finiranno per prevalere nel giro di pochi mesi.
La seconda singolarità è invece di ordine culturale e conferma, una volta di più, i percorsi tortuosi e non sempre lineari della memoria. In altri termini. Abbiamo pensato questo volume innanzitutto come un’antologia, una grande rassegna stampa. L’abbiamo pensato così perché l’Istresco aveva già editato, ormai vent’anni fa, l’ottima ricostruzione di Francesco Scattolin, ma soprattutto per porre in evidenza come un evento capace di produrre nel presente di allora una sterminata mole di articoli – la nostra è solo un’antologia e come tale una selezione – ha poi subito un pressoché totale processo di rimozione e ben al di là del ventennio fascista. Non è infatti un mistero per nessuno che sui quei fatti, anche in età repubblicana, sia sceso un oblio che, nella migliore delle ipotesi, va ascritto ad una progressiva e fatale disattenzione. Resta il fatto che in centro città non c’è nulla che testimoni e dia conto di quanto accaduto, fatta eccezione per un’intitolazione viaria piuttosto generica.
Questo volume offre la possibilità di prendere visione del dibattito politico di allora, restituisce i diversi gradi di comprensione degli eventi e fornisce criteri idonei per indagare lo scarto che separa, ma nello stesso tempo rende inscindibili, la cronaca e la storia.
Pensiamo inoltre, che da questa rassegna, che dà conto delle voci coinvolte, possa rigenerarsi un processo memoriale rimasto troppo a lungo e colpevolmente inerte. Si tratta di riconsiderare in che modo, dopo aver attraversato la lunga stagione del totalitarismo, siamo approdati all’oggi. Ogni approdo si raggiunge attraverso una navigazione. E se l’approdo è l’esercizio della democrazia, la navigazione è la consapevolezza e il progressivo ripudio della pratica della violenza. | Fonte: facebook.com/Istresco/
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L’Università di Trieste sta sostenendo un progetto editoriale, Rei Nummariae Scriptores, diretto da Bruno Callegher e Filippo Carlà-Uhink, che mira a "ripensare la moneta" attraverso il confronto con opere della tradizione occidentale pre-industriale (di autori poco conosciuti o mai editi in Italia), in traduzione moderna e con un apparato critico che consente al lettore una riflessione di ben più ampio respiro economico e politico.
Al Trattato di Oresme e al progetto dell'Università di Trieste è dedicata una presentazione online mercoledì 30 giugno a partire dalle ore 10 a cui ci si può liberamente collegare dal seguente link: associazionebancariaitaliana.webex.com
Il volume Nicole Oresme. Tractatus de origine, natura, jure et mutationibus monetarum. Analisi introduttiva, trascrizione, traduzione e apparato critico a cura di Tommaso Brollo e Paolo Evangelisti, Edizioni Università di Trieste, 2020, e gli altri testi della collana Rei Nummariae Scriptores, si possono scaricare in formato pdf al seguente indirizzo: openstarts.units.it/handle/10077/30852
Museo di Santa Caterina / Treviso
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