Recentemente nel blog dell'ISTRESCO (Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea della Marca Trevigiana) è stato pubblicata la ricerca che Federico Maistrello ha curato sulla figura di Don Antonio Andreazza, parroco di S. Anastasio di Cessalto e la sorte che lo portò dal carcere al manicomio (aprile 1944 – aprile 1945) per essersi prodigato per salvare il maggior numero di prigionieri di guerra. Nell'aprile del 1944 venne arrestato dai tedeschi con l'accusa di aver falsificato delle carte d'identità per i prigionieri. Venne condannato a morte, perché nel lungo ed estenuante interrogatorio si rifiutò di parlare. Grazie alla difesa dell'avvocato Marinoni che lo fece dichiarare "menomato sul piano psichico" la sentenza venne tramutata in un anno di prigionia. Fu liberato nell'aprile del 1945.
Potete leggere la ricerca di Federico Maistrello qui sotto ∇∇∇ (ma non mancate di visitare il sito facebook.com/Istresco).
Don Antonio Andreazza, parroco di S. Anastasio di Cessalto: dal carcere al manicomio (aprile 1944 – aprile 1945)
Da un fascicolo del Tribunale Militare Regionale di Guerra insediato a Piove di Sacco (Padova) affiora un procedimento aperto dai nazisti nell’aprile 1944 a carico di un sacerdote della nostra provincia accusato di avere favorito alcuni ex prigionieri di guerra britannici evasi dai campi di concentramento in Italia in occasione dell’armistizio dell’8 settembre 1943 (Nota 1).
Era don Antonio Andreazza, nato a San Vendemiano di Conegliano il 20 gennaio 1905: un uomo dall’aspetto mite, modesto e timido (Nota 2) che in nome dei propri sentimenti aveva fatto ciò che gli dettava la coscienza: soccorrere degli stranieri sbandati e lontani dalla patria, procurando loro viveri e documenti falsi per aiutarli a sottrarsi alle ricerche della polizia tedesca.
Tutto ebbe inizio il mattino dell’11 febbraio 1944, quando i carabinieri, nel corso di un normale controllo a Valnogaredo, frazione di Cinto Euganeo (Padova), fermarono due sconosciuti le cui risposte evasive fecero nascere dei sospetti.
Condotti in caserma dichiararono di essere cittadini croati, come dimostravano i documenti di cui erano in possesso, ma alla fine ammisero di essere soldati britannici, e in quanto tali furono inviati per competenza a Este presso il Comando germanico locale (Orstkommandantur).
Durante il trasferimento uno dei due riuscì a evadere. L’altro, Gerald Ireton, nato il 16 maggio 1920 a Città del Capo in Sudafrica, fu portato a Padova dal capitano Lembke, responsabile del presidio di Este, e venne interrogato a lungo negli uffici della Sichereitsdienst (S.D., o Servizio di Sicurezza germanico) finché raccontò la propria odissea agli inquirenti, rivelando, tra l’altro, il nome di chi gli aveva procurato una carta di identità falsa con il timbro del Comune di San Stino di Livenza. Ireton era stato catturato a Tobruk dai tedeschi il 2 giugno 1942. Trasportato in Italia, era stato trasferito da un campo di prigionia all’altro (prima a Bari, poi a Lucca e infine a S. Anna di Chioggia) finché, cogliendo l’occasione della confusione seguita all’armistizio di Badoglio, era fuggito giungendo, dopo varie peripezie, a S. Anastasio di Cessalto dove qualcuno lo aveva messo in contatto con il parroco locale don Antonio Andreazza.
La polizia germanica di Padova trasferì il prigioniero presso il Comando S.S. di Venezia, dove lo Sturmbannfürer (maggiore) Bach, letto l’incartamento che accompagnava il detenuto, ordinò ai suoi uomini di recarsi a Cessalto per arrestare quel sacerdote e condurlo da lui.
Il 1° aprile 1944 il sottotenente Triebsees, il maresciallo Mikula e l’interprete Emmerich Comoli dapprima indagarono a S. Stino di Livenza poi fecero visita al Segretario del P.F.R. di Cessalto Antonio Sartini, dal quale ricevettero la conferma che don Andreazza era sospettato di professare idee politiche contrarie al regime e di favorire gli ex prigionieri Alleati ma, in mancanza di prove certe, fino a quel momento la sua abitazione non era mai stata perquisita.
I tre nazisti, allora, si recarono nella canonica di S. Anastasio e interrogarono dapprima la perpetua, senza risultato, e poi il parroco, il quale negò tutto, rassegnandosi a fare qualche parziale ammissione solo quando i tedeschi, perquisendogli lo studio, rinvennero in un cassetto due moduli per carte di identità in bianco.
Il 4 aprile 1944 il sacerdote fu tradotto a Venezia e, nel corso di un lungo interrogatorio, rilasciò alle S.S. una confessione di cinque pagine dattiloscritte: un testo minuzioso e dettagliato, però opportunamente sfumato ogni volta in cui si faceva riferimento ai suoi complici. In essa don Antonio si addossò l’intera responsabilità di quanto era stato fatto per agevolare gli ex prigionieri britannici, facendo solo un nome, quello di tale Adolfo Juricich, un uomo di mezza età che lavorava presso i cantieri navali di Monfalcone, che però non fu mai trovato perché tutti rispondevano agli investigatori germanici di non averlo mai sentito nominare. A dire il vero il parroco ammise di sapere che dei contadini avevano favorito i militari britannici, però aggiunse: «Conosco anche il nome di alcuni, ma preferirei non dirli», concludendo: «Dichiaro di sapere di avere commesso azioni illecite e punibili, però non ho mai agito per motivi politici; dapprima agivo perché ritenevo fosse mio dovere prestare aiuto, poi fui talmente coinvolto negli avvenimenti da non riuscire più a liberarmene».
Don Antonio aveva iniziato ad aiutare gli ex prigionieri britannici in fuga già nell’ottobre 1943.
Si era occupato dei primi due, che erano feriti e nascosti in una baracca ai margini del paese, in seguito alle richieste di aiuto da parte di un abitante della zona, procurando loro medicinali e viveri.
Un po’ alla volta era cominciata una vera e propria spola tra Cessalto e Monfalcone, grazie alla quale interi gruppi di Alleati evasi si erano uniti alle bande di patrioti in lotta con i nazifascisti. I partigiani avevano consegnato a don Antonio delle carte di identità in bianco per favorire gli spostamenti dei fuggiaschi e dei loro accompagnatori (tra costoro c’era anche uno dei due primi britannici soccorsi dal parroco, un certo Elam che aveva assunto la funzione di guida e di interprete).
Il sacerdote si industriò organizzando alla meglio in canonica un piccolo laboratorio clandestino dove scattava e sviluppava le fotografie per i documenti, scriveva a macchina i dati anagrafici fasulli e apponeva i visti necessari. Per dare una patina di veridicità gli serviva però un timbro ufficiale e fu così che cominciò a frequentare il municipio di San Stino di Livenza, facendo ogni tanto visita agli impiegati che conosceva e, chiacchierando con loro, approfittava dei momenti di distrazione per utilizzare uno dei timbri in vista sul bancone.
Il primo gruppo di fuggiaschi era composto da dodici ex prigionieri; il secondo, a metà novembre, da venti. Don Antonio li riforniva anche di abiti civili e di cibo; i suoi parrocchiani sapevano – in un piccolo paese nulla poteva sfuggire, tanto meno lo spostamento di gruppi di sconosciuti – e qualcuno di loro sicuramente collaborava con lui. D’un tratto la situazione si fece difficile perché si sparse la voce che i nazifascisti avevano dei sospetti e l’attività clandestina fu sospesa in attesa di tempi migliori.
La sera del 10 gennaio 1944 Gerald Ireton partì diretto a Padova e don Antonio alla benedizione aggiunse cento lire per sostentarsi e un documento falso: quello fu l’aiuto che purtroppo gli fu fatale.
Il sacerdote venne denunciato al Tribunale Militare tedesco di Padova e trasferito colà il 18 aprile 1944.
La pratica fu esaminata da un noto giudice austriaco, il maggiore Albert Kaiser, distintosi perché nel corso della permanenza a Padova fece sempre del suo meglio per aiutare i patrioti italiani sottoposti alla giustizia nazista e, avvalendosi delle leggi che conosceva a menadito, spesso riuscì a evitare loro il peggio.
Il 22 aprile Kaiser scrisse al Consigliere di Giustizia presso il colonnello plenipotenziario della Forze Armate germaniche in Italia, facendogli notare che il detenuto apparteneva al clero cattolico pertanto andava affidato ai giudici italiani.
Stavolta al maggiore austriaco per risolvere la situazione bastò evidenziare la posizione del sacerdote: i rapporti tra Nazismo e Chiesa erano già problematici e non c’era bisogno di creare ulteriori complicazioni.
Il 29 aprile l'ispettore Geher eseguì il passaggio di competenza, trasmettendo l’intera pratica al Tribunale Militare italiano di Piove di Sacco. L’8 maggio 1944 don Antonio fu trasferito nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore e il procedimento a suo carico fu affidato al Sostituto Procuratore Militare di Stato tenente colonnello Gian Giacomo Traverso, il quale per prima cosa gli permise di celebrare la S. Messa nella cappella del carcere, purché senza l’intervento di estranei.
Se non fosse stato un prelato, la situazione di don Andreazza sarebbe stata molto difficile, perché un Decreto emanato dal Duce (Nota 3), all’articolo 2, prevedeva espressamente: «Chiunque dà rifugio, fornisce vitto o presta comunque assistenza [ai partigiani, nda.] è punito con la pena di morte mediante fucilazione nella schiena».
Per lui invece ebbe inizio una trafila burocratica umiliante e penosa, tuttavia mirata a evitargli delle conseguenze irreparabili: del resto nel suo caso, lo si ribadisce, non poteva essere ignorato il riferimento alla situazione esistente tra la Santa Sede e il Governo Italiano in seguito alla sottoscrizione del Concordato.
La linea adottata dalla Difesa, affidata all’avvocato Marinoni (Nota 4), principe del foro di Venezia, fu quella di far passare il sacerdote per persona incapace di intendere e di volere, puntando sul fatto che un giudice dell’epoca non poteva non considerare ingenuo e infantile un adulto come don Andreazza che, interrogato il 2 giugno 1944 nel carcere giudiziario di Venezia, aveva giustificato gli innegabili reati che gli imputavano affermando con disarmante franchezza: «Di fronte alla mia coscienza non mi pare di avere commesso del male».
Al Tribunale per la Difesa dello Stato di Bergamo, cui fu demandato il giudizio, pervennero varie testimonianze di sacerdoti attestanti che don Antonio era debole di mente e che la sua salute malferma non faceva che acuire tale stato.
Anche il vescovo di Vittorio Veneto, monsignor Giuseppe Zaffonato, in data 16 agosto 1944 scrisse di proprio pugno implorando «sollecitudine e benignità. trattandosi di un elemento molto scosso in salute e colpevole soltanto di avere troppo cuore».
In seguito a quella sorta di rete di savataggio/protezione creata dagli ecclesiastici, il maggiore Italo Buda, Sostituto Procuratore Generale in Bergamo, chiese per l’imputato una perizia psichiatrica che fu depositata il 29 settembre successivo dal medico perito dottor Giovanni Gatti. In essa, al di là delle valutazioni cliniche, fu confermata la linea adottata dalla Difesa; il dott. Gatti, infatti, tra l’altro scrisse: «si ha, ascoltando l’imputato, l’impressione che giustifichi le sue malefatte con il concetto di una carità cristiana compresa a modo proprio, così da dare facilmente l’impressione di una mente credula, bambinesca, scriteriata».
Povero don Antonio! La sua bontà e la sua generosità furono considerate dei sintomi di una mente incapace di intendere e per fortuna nessuno prestò attenzione al fatto che quell’«incapace» aveva saputo organizzare un sistema semplice ma efficace per contrastare i nazifascisti.
Nella conclusione della perizia - a parere di chi scrive altamente offensiva per uno spirito così valoroso, a meno che non ci fosse stato un accordo preventivo tra il medico e chi voleva salvare don Andreazza – si confermò che il prelato, che a suo modo si era ribellato all’oppressione del regime, in realtà non era capace di intendere e volere, pertanto non poteva essere dichiarato socialmente pericoloso.
Il 17 ottobre 1944 il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato di Bergamo presieduto dal Giudice Istruttore capitano Francesco Cardini, pronunciò la sentenza dichiarando don Antonio prosciolto dai reati imputatigli, ordinandone il ricovero in un manicomio giudiziario per due anni.
Il coraggioso parroco rimase per mesi nel carcere di Venezia in attesa che si completasse l’iter burocratico che lo concerneva, infine il Ministero di Grazia e Giustizia approvò il suo ricovero in data 1° marzo 1945 e le porte del manicomio giudiziario “Fatebenefratelli” di Venezia si chiusero alle sue spalle il 7 aprile 1945: era trascorso più di un anno da quando i tedeschi lo avevano arrestato e di lì a pochi giorni il sacerdote sarebbe tornato definitivamente in libertà assieme a coloro che, come lui, erano stati imprigionati dai nazifascisti per le loro idee.
Rientrato a S. Anastasio, don Antonio Andreazza fu accolto con dimostrazioni di giubilo da parte della popolazione, tanto che ottenne l’incarico di vice-sindaco e fu aiutato da tutti a ricostruire la sua chiesa che frattanto era stata distrutta da un bombardamento (Nota 5).
Purtroppo quegli avvenimenti avevano segnato irrimediabilmente il suo fisico, e don Antonio morì a causa di crisi cardiaca il 18 marzo 1953, all’età di quarantotto anni.
Note
- Archivio del Tribunale di Treviso: Tribunale Militare Regionale di Guerra, procedimento R.G. 6056/1944; Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato RSI, Sezione di Venezia, fascicolo n. 78/44, R.R. 4351, anno 1944.
- Abramo Floriani, La Diocesi di Vittorio Veneto nella Resistenza (8 settembre 1943 – 30 aprile 1945), Editrice TIPSE, Vittorio Veneto, 1977, p. 176: così lo definì monsignor Domenico Visintin, Abate Mitrato di Oderzo, che conobbe don Antonio Andreazza come direttore dell’oratorio opitergino dal 1935 al 1936.
- Decreto Legislativo n. 145 del 18 aprile 1944, apparso sulla Gazzetta Ufficiale del 25 aprile n. 97 con il titolo Sanzioni penali a carico di militari o di civili unitisi alle bande operanti in danno delle organizzazioni militari o civili dello Stato.
- Abramo Floriani, op. cit., p. 178.
- Ivi, p. 178.
La storia di don Andreazza viene ripercorsa da Arch Scott
La storia di don Andreazza viene ripercorsa da Arch Scott, un ufficiale neozelandese salvato dalla prodiga opera del parroco di Sant’Anastasio. In onore del suo salvatore, Scott chiama il figlio Don Anthony, tornato a Sacile più volte per portare un fiore sulla tomba del suo benefattore.
- Arthur Wallace Scott, Caporale, 24° Battaglione di fanteria della Nuova Zelanda, «Allies in Italy», Istituto Nazionale Parri | alleatiinitalia.it/en/stories-eng/arthur-wallace-scott-2 | Leggi "Arthur-Wallace-Scott-Alleati-in-Italia.pdf" | Leggi "Arthur-Wallace-Scott-Allies-in-Italy.pdf"
Una delle carte d’identità false (Scotti Arturo) che don Antonio Andreazza fornisce ad Arch. (Fonte: Lucia Antonel, I silenzi della guerra)
- Lucia Antonel, I silenzi della guerra. Prigionieri di guerra alleati e contadini nel Veneto orientale (1943-1945), Nuova Dimensione, Portogruaro, 1995; rielaborazione della tesi di laurea Friends in war. Allied prisoners of war and contadini in german-occupied northern Italy, 1943-45. A page of forgotten history, Rel. prof. Giannantonio Paladini, UniVe, 1993
- Arnold Pickmere, Necrologio di Arch Scott, 12 maggio 2006, «The New Zealand Herald» | nzherald.co.nz/nz/emobituaryem-arch-scott