La verità vissuta di Arturo Benvenuti
«Il mio genere di studio: la consapevolezza che l’esperienza stia nel ripensare la coscienza, una teoria scientifica dell’esperienza soggettiva». Sono parole che Arturo Benvenuti mi dettò al telefono nel corso di una delle nostre ultime conversazioni. Era il 29 giugno 2020. Per me un bel regalo di compleanno, tanto più gradito quanto più spontaneo e sorgivo da parte sua e imprevisto e inaspettato da parte mia. Sono le parole di un «vegliardo» che custodiscono e mostrano l’impegno – quasi un destino – in cui Arturo si era riconosciuto e a cui ancora si affidava.
Le leggo, queste parole, come un lascito spirituale e come la sintetica testimonianza della personalità esistenziale, intellettuale e artistica dell’uomo che da quasi dieci anni conoscevo e frequentavo come amico e studioso della sua opera poetica[1].
Sono parole che esprimono un impegno mai venuto meno, da quando Benvenuti negli anni Sessanta del secolo scorso comprese quale sarebbe stata la sua strada di intellettuale e artista. Sono, anche, parole che concentrano una concezione filosofica e una morale. Vi vedo l’affermazione di una coerenza di fondo tra l’elaborazione del pensiero e la sua traduzione empirica e, al tempo stesso, la necessità di un dialogo costante tra il pensiero e l’esperienza e implicante che il pensiero, fattosi esperienza, sia a sua volta stimolato e interrogato dall’esperienza in un continuo e reciproco «rimbalzo». Lo ritengo un frammento di un programma filosofico in cui non esito a riconoscermi a pieno.
Arturo aveva lo sguardo acuto ed era capace di scorgere negli oggetti e negli elementi naturali immagini e figure virtuali, illusorie certo ma con una loro forma: era cioè interessato dal processo psichico della pareidolìa. Era poi curioso di tutto ciò che lo potesse culturalmente pungolare e negli ultimi anni di vita era affascinato dal problema psicologico e filosofico della percezione e, dunque, della variabilità dei punti di vista da cui si guarda e si è guardati. I libri che leggeva in proposito erano la manifestazione del senso di una ricerca oramai acquisita e consolidata nel metodo. Quale della sua ricerca sia stato l’esito, sempre soggetto alla vicendevole verifica ingaggiata dal pensiero e dall’esperienza, non è certo facile dire, se come per tutti anche per Arturo la risposta va scavata nella coscienza e nella psiche, se si tratta, in altre parole, di una risposta circoscritta alla vita interiore. Una risposta la cui natura consiste nell’essere ri-posta e, dunque, ri-proposta. Ma se la risposta si ripropone autenticamente è perché il suo contenuto e la sua richiesta di verità non hanno ancora conseguito una loro stabilizzazione; eguale discorso si può fare per la domanda che di quella risposta è la sorgente.
Ma quale allora la risposta di Arturo? Credo di poterla leggere in una sua poesia, Masiera: «Per una distesa / di masiere e di screpolate / doline il senso invano / ho cercato di questo / mondo smarrito. M’ha / sorretto la mano che / m’offrivi col sorriso / della verità vissuta»[2].
Immaginiamo la scena.
L’ambiente è quello petroso e aspro delle doline del Carso, non saprei dire in quale località, ma facciamo che sia il paesaggio di Lussino, l’isola quarnerina di cui era originaria Maria «Marucci» Poglianich, l’amata di una vita intera. In questo luogo fondante per l’io poetico e, dunque, per lo stesso Arturo, il poeta ha cercato invano il senso di «questo / mondo smarrito», l’umanità come tale. L’io ha attraversato una distesa di masiere, i classici muretti a secco carsici, particolare rilevantissimo, se la masiera ha per Arturo un valore simbolico fondamentale e non surrogabile e se egli pone termine al componimento con questa icastica dichiarazione o professione di fede: «Guardo alla masiera / come a una fede»[3]. Eppure, pare che la fede nella masiera e il totale coinvolgimento nei suoi contenuti siano impari a sostenere la consapevolezza dell’esistenza de «la feccia / del male umano»[4]. Che cosa può allora essere di lenimento? La mano che l’amata offre «col sorriso / della verità vissuta».
Queste due parole – verità vissuta – poeticamente accostate sono state e sono per me un insegnamento. Alla domanda che cos’è la verità a cui la filosofia non può che dare una «ri-posta» Arturo dà questa sua risposta poetica, certo parziale e non definitiva ma significativa e probante. Così, egli ci fa capire che, se la verità ha un senso, questo è ri-posto nel movimento della stessa esistenza: la verità acquista valore per come ho vissuto, vivo e vivrò la mia vita, è il frutto che conserva sempre una parte di acerbità di un percorso caratterizzato più dal contrasto e dalla perdita che non dalla vittoria e dall’acquisto. È una verità vissuta, più patita che agita, quella che ci appartiene malgrado i nostri infingimenti e alibi e le nostre denegazioni e rimozioni. È una verità limitata a ciò che abbiamo vissuto e che tuttavia va messa in relazione anche con le possibilità che non abbiamo esperito. Verità vissuta, non verità assoluta.
Il concetto di verità vissuta comporta pertanto che una parte della verità resti esclusa dalla nostra possibilità di dirla tutta: per i mortali la verità è una questione di parzialità.
Penso che questo sia il significato sotteso a queste due parole dell’amico Arturo e che possano essere accostate a quanto afferma Jacques Lacan: «Je dis toujours la vérité: pas toute parce que toute la dire on n’y arrive pas. La dire toute, c’est impossible matériellement: les mots y manquent. C’est même par cet impossible que la vérité tient au réel»[5] («Io dico sempre la verità: non tutta, perché a dirla tutta non ci si riesce. Dirla tutta è materialmente impossibile: mancano le parole. È proprio per questo impossibile che la verità attiene al reale»[6]).
Ignoro se Arturo conoscesse questo pensiero dello psicoanalista francese, eppure la sintonia mi pare consistente. Se il «vegliardo» Arturo afferma che l’esperienza caratterizzante della (sua) psiche e della (sua) soggettività è nel ripensare con metodico rigore la coscienza, è perché egli è perfettamente consapevole del carattere processuale e metamorfico della verità della vita in quanto si concreta come verità vissuta.
D’altro canto, Arturo un po’ psicoanalista lo era, benché meno nelle vesti del terapeuta che in quelle del paziente (o analizzante, direbbe Lacan). Lo era di se stesso: mentre si faceva ascoltare, decantava il proprio vissuto, cercava di chiarirsi a sé stesso in un continuo esercizio di autoripensamento. Per me frequentarlo è significato partecipare a una serie di sedute psicoanalitiche. Fluviale nei suoi discorsi, Arturo si offriva all’ascolto dell’interlocutore, certo anche con qualche invasività ed eccesso divagante, e intanto manifestava pensieri ed esperienze. Ogni volta, era una sorta di verifica e di messa a punto della sua vita e della sua verità vissuta. Era un modo per mettere in atto la sua teoria scientifica dell’esperienza soggettiva.
Un giorno del 2011, il 25 febbraio, al telefono Arturo più volte mi ripeté l’espressione «Sempre questo io», per dire quanto ingombrante, ossessiva e narcisistica possa essere la mente umana. Benché non parlasse esplicitamente di sé stesso, Arturo non si chiamava affatto fuori. Ne trassi un componimento poetico, inserendovi in chiusura alcune sue testuali parole pronunciate durante quel colloquio, a dimostrazione della sua consapevolezza dei pericoli insiti nell’ipertrofia dell’io (anche il suo): «perché non voler provare / a tenerlo quanto più possibile, da soli, / al guinzaglio?»[7].
10 Gennaio 2021 | Leggi pdf