Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
Menarósto, il girarrosto, addetto agli spiedi su brace, ha il suo grande proscenio nelle grigliate estive e in ogni festa patronale o delle proloco che si comandi. Quest'anno, anche su terrazze e giardini di casa, causa lockdown e susseguente momento liberatorio attuale (forse...). Gran rispetto per la grande professionalità di alcuni (pochi) o almeno la passione di altri (i più) ... ma quando ognuno di noi si accingerà a girare l'arrosto suo non dimentichi di poter essere un "menarosto" anche in altro senso, non referenziale, di "girare a vuoto".
Menarósto detto di un individuo - fuori del lavoro al braciere e allo spiedo - non ha preso una piega neutra o positiva, ma invece negativa: inconcludente perditempo o chiaccherone instancabile, persino seccatore noioso. Si equipara a roda (da molin), anch'esso detto di chi parla a lungo senza stancarsi (linguaveneta.net/Dizionario-Veneto-italiano-Piccio | 162.235.214.76/piccio/dicty). Menarósto in veneziano arriva a significare "disobbediente, impertinente, birichino” (Veneziani a Tavola - Sir Oliver Skardy | venezianews.it).
Godiamoci un po' di riferimenti all'uno e all'altro significato:
Venezia ha origini carolingie o bizantine? Nuova sfida interpretativa per gli storici dal ritrovamento di affreschi carolingi nella basilica di Torcello.
Il problema storiografico è destinato a riaprirsi, perché gli archeologi, guidati da Diego Calaon dell’Università di Venezia, hanno riportato alla luce nello spazio tra la volta decorata a mosaici e il tetto nella cappella del Diaconico (l’abside destra della Basilica di Santa Maria Assunta a Torcello) alcuni affreschi coevi al periodo dell’erezione della basilica nel IX secolo, decorata con sculture e affreschi “carolingi”, che confermerebbero - in base a iconografia delle figure, stile pittorico e grafia delle didascalie – l’influenza politica, religiosa e culturale di un potere feudale carolingio, non bizantino come quello rappresentato dai mosaici dell’XI secolo che coprirono le opere precedenti ora ritrovate.
Un particolare degli affreschi scoperti a Torcello | Fonte: genteveneta.it/torcello-archeologia-basilica
Per il contesto storico del IX-X secolo si può consultare il capitolo Il ducato e la "civitas Rivoalti": tra carolingi, bizantini e sassoni della Storia di Venezia (1992) di Gherado Ortalli | treccani.it/enciclopedia. Uno dei più recenti contributi storici alla questione della Venezia "bizantina" è: Nicola Bergamo, Venezia bizantina: Dal mito della fondazione al 1082, Introduzione di Pier Alvise Zorzi, Edizioni Helvetia, 2018 (Oderzo e Venezia Bizantina: incontro con Nicola Bergamo).
Nelle pagine del Dialogo, Maria Teresa Tolotto, direttrice dell'Archivo parrocchiale e del Museo del Duomo di Oderzo, sta ricostruendo - mentre viviamo le tragiche occorrenze di questi mesi di diffusione del coronavirus - la memoria storica della più lontana delle epidemie che colpì anche le nostre terre, quella della peste nel 1630-31.
«Nel 1629 a Gorgo, Motta, Piavon, Oderzo, Portobuffolè, morirono di fame centinaia di persone; seguì nel 1630 un’epidemia di vaiolo, con conseguenze disastrose per una popolazione già tanto provata. Le avversità non erano finite, già dalla primavera del 1631 cominciarono ad essere registrati decessi per peste a Motta e Portobuffolè. Questi comuni decisero di chiudere le loro città, non permettendo a nessuno di entrarvi ed uscirvi. Furono adottate le leggi in materia di Sanità ... → LEGGI TUTTO →
»Così non fu per Oderzo che tergiversò permettendo lo svolgimento di attività economiche e cercando di dare un po’ di respiro alla povera gente di campagna che, già provata dalla fame, cercava di riscattarsi in città con la vendita dei prodotti degli orti e del pollaio. Queste scelte furono deleterie e si possono ancora contare nei registri dell’archivio del Duomo più di 700 morti nel tempo dell’epidemia che durò circa sei mesi. Nella fase più acuta si contano 400 morti in soli due mesi su una popolazione che nel centro città era di circa 2 mila persone... → LEGGI TUTTO →
Tintoretto, San Rocco risana gli appestati, Chiesa di San Rocco Venezia | Fonte dell'immagine: upload.wikimedia.org/wikipedia
Vari giornalisti, durante questa quarantena, hanno riscovato e rimpallato ai loro lettori una sorprendente premonizione uscita nel 2017: Asterix e Obelix sconfiggono Coronavirus. Il Covid-19? No ahinoi, non ancora. Il Coronavirus battuto è l’«auriga mascherato» (vero nome Testius Sterone) accompagnato dallo scudiero Bacillus, che capeggia la squadra romana nella corsa di carri “Modica-Neapolis” (la Monza-Napoli), organizzata dal corrotto senatore Lactus Bifidus, col consenso di Cesare a condizione che a trionfare sia un competitor romano.
Accusato di sperperare per le proprie orge (a base di tiramisus, peraltro...) i fondi pubblici destinati alla manutenzione delle strade, con la “Corsa d’Italia” tra tutti i popoli dell’impero voleva dimostrare invece l’eccellenza delle vie da lui amministrate lungo tutto il territorio italico e, per esser sicuro della vittoria, aveva arruolato dunque l’auriga romano più agguerrito e acclamato dalle folle.
I due rappresentanti dei Galli gli rovineranno i piani. Obelix, iscrittosi alla competizione, perché un’indovina gli aveva pronosticato un futuro di auriga vittorioso, compra a credito una quadriga e si mette in pista con a fianco Asterix e non senza pozione magica.
Perché chiamare Coronavirus il “cattivo” della storia? I disegnatori Jean-Yves Ferri e Didier Conrad (che dal 2013 portavano avanti la spassosissima riscrittura della storia romana con le avventure degli ormai mitici personaggi creati da René Goscinny e Albert Uderzo) avranno probabilmente preso spunto dalle cronache del 2002 e del 2012, in cui diventava noto che l’epidemia di Sars, prima, e quella di Mers, poi, erano entrambe causate dalla famiglia dei coronavirus. All’uscita dell’album, evidentemente, la minaccia sembrava ormai abbastanza lontana da poterci scherzare su. Nell’intenzione originale, Coronavirus doveva essere uno dei tanti nomi buffi presenti nell’album.
Anche se l’onomastica del cast del 37° albo della serie scimmiotta il dizionario medico - Testius Sterone, Bacillus, Lactus Bifidus - escludiamo che siano stati guidati dalla preveggenza. Quanto a Coronavirus, il nome latino esce dall’unione di “corona” (quella d’alloro, per antonomasia, che coronava i vincitori) e “virus” (veleno), appellativo adatto a incutere timore reverenziale verso il vincitore e adombrare pericolosa minaccia per l’avversario. Peraltro, Coronavirus, pur noto imbroglione, reclutato dal corrotto senatore, si rivelerà onesto e corretto, almeno nel caso dei fortunati galli, in quanto finirà per ritirarsi quando scoprirà il suo co-pilota Bacillus intento a barare per vincere la gara.
Francesco Prisco (ilsole24ore.com | 2.3.2020) ricorda che «Quando qui da noi uscì con Panini Comics “Asterix e la corsa d’Italia” (Astérix et la Transitalique) nessuno se la filò o quasi, ma quella storia infarcita di stereotipi, come prevede il canovaccio della serie, metteva in fila due o tre cose che, lette con il senno di poi, ci regalano un mirabolante effetto sfera di cristallo».
L’avventura di Obelix e Asterix ha il finale scontato. La vittoria della gara, ovviamente truccata, tra sabotaggi, incidenti e tranelli di ogni tipo, non dovrebbe che andare al romano Coronavirus, che raccoglie le isteriche ovazioni dei tifosi lungo il percorso. Coronavirus (a cui alla fine si era sostituito in segreto Giulio Cesare stesso in un estremo tentativo di salvare l'onore di Roma) verrà invece battuto per un soffio dai nostri eroi, dalla pozione magica e proprio dalle condizioni disastrate delle italiche strade, piene di buche…
Un'immagine inquietante e straniante resta, tuttavia, preveggenza o non preveggenza: le folle disegnate tre anni fa acclamare urlando «Coronavirus-Coronavirus»...
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Il 24 marzo scorso quasi novantatreenne è morto Albert Uderzo, a Neuilly. Era nato il 25 aprile 1927.
Albert Uderzo alla Zecca di Parigi per la presentazione delle monete dedicate ad Asterix e Obelix (25.3.2015) | internazionale.it/notizie
Asterix, Obelix, Panoramix, Ideafix ... non c’è quasi bisogno di ricordare chi sono, i personaggi di uno fra i fumetti più famosi e venduti al mondo, tradotto in centinaia di lingue e trasposto in una serie di film (impari, a dire il vero, rispetto ai disegni e ai testi originali).
Ora sono senza i loro creatori. Dopo la prematura scomparsa dello sceneggiatore René Goscinny nel 1977, anche il loro disegnatore Albert Uderzo li ha lasciati il 24 marzo scorso. La saga della resistenza - grazie a una pozione magica - della bellicosa tribù di Galli dell’Armorica (l’odierna Bretagna) alla dominazione romana e a Cesare in persona resterà una grande opera non solo finemente umoristica, ma anche carica delle più varie implicazioni, storiche, morali, culturali ... per riandare all’Europa della romanità e a quella dei nostri tempi.
Di Albert Uderzo - a causa del cognome non tanto simile ad "Oderzo" quanto identico ad una attestata più antica denominazione desueta di Oderzo, cioè "Uderzo" - si è con disinvoltura spesso ritenuto che le origini famigliari remote non potessero non essere “oderzine”, anche se i dati inoppugnabili sono la nascita del nostro Alberto Aleandro Uderzo il 25 aprile 1927 a Fismes, nel dipartimento della Marna, in Francia, da genitori italiani immigrati: il padre Silvio Leonardo Uderzo vicentino di Piovene Rocchette, la madre Iria Crestini ligure nata a La Spezia. Risalendo biograficamente oltre il padre dentro l’Ottocento, i dati già diventano più difficilmente reperibili e controllabili.
Lo stesso Albert, al corrente di queste possibili “radici” in territorio della romana Opitergium, avrebbe a vent’anni fatto «un viaggio fino a Oderzo, per visitare i parenti del padre, rintracciando così le proprie origini». Non sono in grado in questo momento di verificare da dove sia tratta questa notizia che riporta Barbara Bisazza (Se Asterix e Obelix sono originari da Oderzo, Il Sole24Ore, 14 luglio 2016 | st.ilsole24ore.com). Documentata è invece la visita fatta decenni fa nella cittadina “dei natali”, come mostra la foto pubblicata (Edition du chène – Hachette-Livre, 2002), «suggestionato dall’ipotesi che i suoi antenati provenissero da un centro relativamente importante in epoca romana, lui che era divenuto famoso per un fumetto ambientato proprio in quel mondo. Questo al punto che nella propria autobiografia si definì scherzosamente il discendente di un bambino salvato tra le rovine della città appena distrutta dai barbari».
Ne ricorda quest'aspetto Andrea Pizzinat, nell'utile articolo "Albert Uderzo e le sue (non più) presunte origini opitergine" pubblicato da poco sull’Azione (5.4.2020) e riportato sul suo blog ciaolord.wordpress.com.
Albert Uderzo a Oderzo | Fonte della foto: Édition du chêne - Hachette-Livre, 2002
L’articolo di Andrea Pizzinat appena citato è pregevole perché non si accontenta di ripetere solamente la vexata quaestio, ma apporta un tassello nuovo e ragionato per l’ “archeobiografia” dei progenitori di Albert Uderzo:
«Dove sta la verità? Maria Teresa Tolotto, conservatrice dell’archivio parrocchiale di Oderzo, ha ammesso che nelle sue ricerche nei registri, compresi quelli civili, non ha ancora riscontrato la presenza di una famiglia Uderzo in città. Però i cognomi uguali a nomi di città sono genericamente di origini ebraiche (si pensi all’ebreo Emanuele Conegliano, nome alla nascita del celebre Lorenzo Da Ponte) ed è fuori discussione che nella comunità ebraica opitergina ci fosse anche una famiglia Oderzo. L’ipotesi ci è stata confermata anche dal dott. Giovanni Tomasi del Circolo Vittoriese Ricerche storiche, studioso delle comunità giudaiche in sinistra Piave, il quale ha aggiunto che nel corso degli anni il cognome ha subito delle variazioni tipo appunto Uderzo o Oidirz (in lingua yiddish). Grazie anche al contributo di un cugino italiano del fumettista contattato dalla Tolotto, si possono tirare queste conclusioni: all’interno delle comunità ebraiche residenti nel territorio opitergino (quindi non necessariamente in città, ma anche per esempio a Portobuffolè) esistevano delle famiglie Oderzo; come spesso capitava emigrarono altrove; un ramo della famiglia residente a Venezia ottenne dalla Serenissima la licenza di effettuare prestiti su pegno in Istria; da lì in seguito si trasferì nuovamente, stavolta a Piovene Rocchette, città natale di Silvio Leonardo Uderzo, padre del disegnatore, il quale a sua volta emigrò in Francia agli inizi del Novecento. Fine della storia.»
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Dalla pancia del cavallo fuoriescono gli Achei, mentre i Troiani sono immersi nel «duro sonno».
Ettore appare in sogno a Enea, gli dice che ormai la città è presa, che deve fuggire con i sacri Penati e fondare nuove mura dopo peregrinazioni sul mare.
Le grida sopraggiungono, Enea si sveglia dentro la città sconvolta. Se lo prende quel sentimento che afferra i guerrieri: il furore della morte bella, la morte per la patria quando tutto è già perduto.
C’è una sola salvezza pei vinti, non sperare in alcuna salvezza.
Enea decide che combatterà fino all’ultimo, lo affiancano altri compagni, attraversano Troia nel tentativo di salire verso la rocca.
Accade di tutto, colli azzurri di serpente, armature lucenti, dardi, lunghi portici e atrii vuoti, cuori roventi, il mare che risplende per gli incendi.
Chi potrebbe narrare con parole la strage di quella notte; e le morti? Chi potrebbe trovare le lacrime, quante ne occorrerebbero ai nostri dolori? La città antica che aveva regnato per tanti anni rovina: qua e là giacciono senza vita corpi infiniti, lungo le strade, nelle case, sulla soglia dei templi.
Dopo aver perso quasi tutti i compagni, Enea arriva alla rocca di Troia. Nel palazzo reale risuonano pianti fin nelle stanze più intime. Le porte sono divelte, i Greci sono ovunque.
C’è questo Priamo vecchio, questo re consunto nel corpo ma ferreo nell’animo che come ultimo gesto impugna le armi di guerra «da troppo tempo deposte». Gli stanno come un vestito largo, una pelle lasca, che invece di rilanciare l’antica forza, sottolinea l’impietosa contraddizione.
Nel cortile al centro del palazzo, circondata da figlie e nuore, la moglie Ecuba lo ammonisce: “Che fai, infelice?”. Se ci fosse stata qualche speranza di vincere per mano umana, sarebbe bastato il figlio Ettore. Non possono più nulla. Solo abbracciare l’altare che si erge nel cortile.
Poco dopo arriva Pirro, figlio di Achille, che fa scempio di Priamo. Enea assiste e pensa al padre Anchise, al piccolo Iulo, alla moglie Creusa. Li pensa soli, nella casa forse già distrutta.
Vede Elena. Vorrebbe ucciderla: che almeno non possa tornare un giorno a regnare a Sparta o Micene, che non riveda marito, padre e figli, che non abbia al suo servizio schiave e schiavi troiani. Che non possa avere l’agio, il regno, la venerazione – lei, che è la causa di tutto.
Lo ferma l’apparizione della madre, Venere. Elena non c’entra, è l’ostilità degli dei. Che dunque Enea corra alla sua dimora, raduni i suoi e fugga; lei lo proteggerà.
Enea raggiunge la casa, ma Anchise, il vecchio padre, si rifiuta di abbandonare Troia. Preferisce la morte all’esilio. Chiede che lo lascino lì.
Enea non ne vuole sapere. Se Anchise non verrà, nessuno partirà. Torna quindi al suo proposito di morire in battaglia, difendendo la città.
Padre, speravi davvero che io potessi fuggire senza di te? Parole così tremende uscirono dalla tua bocca?
Arriva però un presagio divino: sulla testa del piccolo Iulo appare una piccola fiamma, poi rimbomba un tuono da sinistra e la scia di una stella percorre il cielo. Anchise intrepreta il segno e comprende che c’è ancora speranza per la discendenza di Troia. Acconsente a seguire Enea.
Da lì in poi: pene e vicissitudini, ma Enea arriverà nel Lazio.
Libro secondo dell’Eneide. Un Virgilio maestoso. Una storia di umanità, un’epica che ci si addensa nelle vene, che sta tra i miti fondativi del nostro spirito, della nostra cultura, della nostra penisola. Non importa che la narrazione sia vera o falsa, importa che dica. Che parli. Che testimoni. Che generi lacrime e brividi e pietas.
Nella fuga da Troia, Enea prende sulle spalle Anchise. Non ha dubbi. Salvarsi insieme a lui o piuttosto nessuna salvezza.
Ecco perché ci inorridiscono discorsi come “dovete prepararvi a perdere i vostri cari”. Ecco perché non dobbiamo lasciare un solo millimetro al pensiero biforcuto “tanto colpisce per lo più gli anziani”. Ecco perché ci opponiamo al calcolo dell’utilità, ai numeri asettici spogliati delle loro storie, alle stime basate sull’interesse.
La fragilità dei nostri padri è la nostra, la vulnerabilità delle nostre madri è la nostra. Ma anche la loro saggezza, la loro guida, la lunga vista che a noi manca.
Nelle nostre radici c’è la pietas. E la pietas legittima un solo pensiero: l’unica salvezza è salvarsi insieme.
* * *
Le citazioni dal testo virgiliano (in corsivo) sono nella traduzione di Cesare Vivaldi (Eneide, Garzanti, 2010)
L'articolo di Giovanna Miolli è tratto da Diario del primo giorno, il blog "contingente" che l'autrice ha deciso di tenere durante l'emergenza del covid19, contingente perché «Ha un inizio e una fine. Precisi. Comincia oggi, 13 marzo, e si conclude a emergenza terminata. Perché sì: ci arriveremo» | diariodelprimogiorno.com
Non ho nessuna particolare autorità per aggiungere mie meditazioni appropriate alla καταστροϕή (catastrofè) - proprio secondo etimologia greca: «capovolgimento, rovesciamento», quindi punto di scioglimento (ma anche di riannodamento, di riforma?) di questi giorni di contagio e di morte. Ma so che al virus che esanima i corpi annichilendone il πνεύμα (pneuma), "respiro", "aria", "soffio vitale", e li lascia svuotati, non ci si può opporre con animo vuoto o mente malata.
C'è una risposta della filosofia? Mi pare che essa riecheggi fin dall'antico e offra consolazione anche se non può sanare l'irreparabile. Michel Onfray è uno dei filosofi contemporanei più controversi ed anche difficilmente definibili, continuatore delle concezioni materialistiche ed ateistiche, reinterprete del pensiero edonistico classico innervato da un'altrettanto impegnativa impronta etica e politica. Anche senza aderire alla sua "presa di parte", è fra coloro che offrono un pensiero che non è salutare sottostimare o con cui rifiutare il confronto.
Le Figaro (←lefigaro.fr/michel-onfray) ha ospitato il 27 marzo una sua intervista "Comment la philosophie peut nous aider à traverser cette épreuve", di cui oggi La Repubblica ripropone la traduzione.
Michel Onfray: «Comment la philosophie peut nous aider à traverser cette épreuve»
En cette période tragique et pendant ce long confinement, le penseur nous invite à lire les stoïciens. Et il nous fait partager sa passion pour les moralistes du Grand Siècle
Par Alexandre Devecchio
LE FIGARO - En ces jours éprouvants pour tous, quels grands esprits conseillez-vous de lire? Quels penseurs lisez-vous vous-même actuellement?
MICHEL ONFRAY - Pour penser la question du coronavirus, le mieux est d’avoir recours à Nietzsche, notamment à sa méthode généalogique. Le philosophe allemand aide en effet à penser la question des causalités dans une époque qui aime tant activer les catégories de la pensée magique. Les versions complotistes font rage, les lectures religieuses également: une invention du capital pour faire des bénéfices, une création des Américains pour supprimer la suprématie chinoise, voire un projet chinois, mais également, version du frère de Tariq Ramadan, une punition divine à cause du dérèglement des mœurs de notre époque, le délire ne manque pas. La philosophie aide à activer les causalités rationnelles construites par les philosophes atomistes, matérialistes et épicuriens de l’Antiquité. Quant aux auteurs à lire, c’est sans conteste vers la philosophie antique ...
La lettera di Luca Lando' al Direttore di Repubblica
«Non leggete queste righe, non adesso. L'emergenza, i morti, i turni massacranti di medici, infermieri e volontari, insomma il dramma che sta vivendo il Paese ci obbligano a stare uniti ed evitare polemiche. Quando l'incubo sarà passato, e sappiamo che passerà, sarà però il caso di ragionare su quanto accaduto.
L'epidemia di Sars del 2003 durò solo sei mesi, da febbraio a luglio, ma lasciò sui tavoli un conto tra i 40 e gli 80 miliardi di dollari. L'influenza spagnola, che si diffuse rapidamente insieme alle truppe della Prima guerra mondiale, contagiò 500 milioni di persone (oltre un quarto della popolazione globale di allora) e fece oltre 50 milioni di vittime. La peste nera, provocata da batteri e non da virus, uccise il 40% della popolazione europea tra il 1347 e il 1352 (tre secoli prima di quella del Manzoni) e ci vollero due interi secoli (sì, 200 anni) per riportare le città ai livelli demografici di prima. L'epidemia di Ebola del 2014 ha infettato nell'Africa occidentale oltre 28mila persone e uccise più di 11mila, consegnando a Guinea, Liberia e Sierra Leone un buco di 2,2 miliardi di dollari in termini di Prodotto interno lordo perduto, mentre la nuova epidemia di Ebola, esplosa in Congo nel 2018 e ancora in corso, ha colpito oltre tremila persone, uccidendone più di 2200.
Sono notizie terribili, alle quali abbiamo sempre reagito pensando che si trattasse di epidemie lontane nello spazio (Ebola) o nel tempo (Peste). Il ritmo ravvicinato di Sars, Mers e ora Covid-19 ci ricorda invece che in un mondo interconnesso di quasi otto miliardi di persone quelle categorie non hanno più senso. Un virus che esplode in Cina a dicembre può presentarsi a gennaio in Italia e in Iran, a marzo in Francia e in Germania e alla fine di quel mese sbarcare trionfante negli Stati Uniti. Di fronte a un virus nuovo e sconosciuto (agli scienziati e al nostro sistema immunitario) non c'è più spazio, tanto meno tempo. In un rapporto del 2007 l'Organizzazione Mondiale della Sanità scriveva che "un'epidemia in qualunque parte della Terra è a poche ore di distanza dal diventare una minaccia ovunque". Nel 2016 una commissione internazionale formata da esperti di 17 Paesi e dal complicato nome di Global Health Risk Framework for the Future concludeva che "esistono davvero pochi rischi per il genere umano che possano causare un numero di morti paragonabile a quello delle pandemie".
I governi, i media e i medici dicono giustamente quello che dobbiamo fare per evitare il contagio e ridurre i pericoli. Prima o poi (meglio prima) dovremmo tuttavia affrontare la questione in maniera diversa: visto che le pandemie (gigantesche epidemie su scala globale) non sono più una ipotesi ma una certezza, è possibile organizzarsi per tempo? Certo, nessuno può sapere - oggi, adesso - quale sarà il virus che esploderà incontrollato tra dodici mesi o dodici anni. Quello che possiamo fare, tuttavia, è prepararci in anticipo a gestire l'emergenza che verrà nel modo più efficace e intelligente. Cosa che non è avvenuta in questo caso.
In questi giorni di quarantena, imposta o volontaria, gira sul web il video di una conferenza pubblica di Bill Gates in cui il fondatore di Microsoft parla di quello che l'epidemia di Ebola in Africa ci ha insegnato e che gli scienziati ripetono da tempo: primo, che l'esplodere di epidemie virali non è un copione di Hollywood ma una serie di eventi in arrivo; secondo, che quelle epidemie possono realmente trasformarsi in pandemie e vagare per l'intero globo (il fatto che non sia accaduto con Ebola, non significa che non possa accadere e Covid lo dimostra); terzo, che i soldi da investire in ricerche biologiche, epidemiologiche e per realizzare - prima, anziché dopo - dei piani e dei protocolli di difesa rapidi ed efficaci sono enormemente inferiori ai costi provocati da una epidemia, figurarsi una pandemia. Quarto, ma lo aggiungiamo noi, che di fronte a tutto questo la sanità andrebbe rafforzata, non certo tagliata come avvenuto in Italia negli ultimi dieci anni (quasi duecento ospedali chiusi e 40mila posti letto in meno).
Il video di Bill Gates che sembrava predire il Coronavirus, 5 anni fa | corriere.it/video-bill-gates
Il video è del 2015 e può essere definito tanto premonitore quanto inutile. Perché del tutto inascoltato e ignorato. E perché un secolo dopo la Spagnola, sette anni dopo la Sars, sei dopo la penultima esplosione di Ebola (l'ultima è tuttora in corso) siamo ancora qui a cercare mascherine e guanti, a ringraziare i cinesi per il gentile invio di macchine da terapia intensiva, a individuare aree da trasformare in ospedali e, infine, a tentare di capire se sia meglio avere tante zone rosse da cui non si entra e non si esce o una gigantesca zona di protezione (l'Italia) dove al prezzo di una multa o di una ipotetica denuncia chi vuole va dove vuole. Per non parlare del paradosso Ue, dove di fronte a un virus che è uguale per tutti, le risposte e le ricette cambiano di Paese in Paese.
Non leggete queste righe, non adesso. In questo momento è giusto fare di tutto perché il Covid passi il prima possibile. Ma l'errore più imperdonabile, appena finito l'incubo, una volta passata 'a nuttata, sarebbe ripetere quanto fatto con Ebola, Sars e compagnia brutta: vivere di emergenza, anziché di esperienza.
[Luca Lando' è stato direttore dell'Unità e, prima di diventare giornalista, ha lavorato per anni all'Università di Berkeley come neurobiologo cellulare. Per Chiarelettere ha scritto il libro La Cura - Se l'Italia fosse un corpo umano]
La Repubblica, 19.3.2020 | rep.repubblica.it/coronavirus-lando
Senza nessuna intenzione di invocare restaurazioni riparatrici del perduto capodanno more veneto, oggi si può ricordare che, nel calendario della Repubblica di Venezia fino alla sua caduta, il ciclo dell’anno aveva inizio il 1° marzo, come nell’antico calendario romano che originariamente contava solo dieci mesi.
Ciò rendeva trasparente per es. come il conto di alcuni mesi fosse coerente rispetto alla loro denominazione: settembre (septem=sette + suffisso ber/brem=tempo), settimo arco di tempo, è il settimo mese a partire da marzo; ottobre (octo=otto + ber) l’ottavo; novembre (novem + ber) il nono; dicembre (decem + ber) il decimo, seguiti dai mesi di rinnovamento e morte, prima del nuovo inizio, Januarius (da Giano, il dio dai due volti, girati uno verso il futuro l’altro verso il passato, patrono delle porte e dei ponti, protettore di ogni forma di passaggio e di mutamento e propiziatore di ogni apertura e di ogni inizio) e Februarius, dal verbo februare=purificare, rimediare agli errori, in onore del dio estrusco Februus e della dea romana Febris (assimilata a Giunone stessa: Iuno Februa o Februata) invocata durante i Lupercali dell’ultimo mese dell’anno.
L'introduzione del calendario gregoriano (dal nome del papa Gregorio XIII, che lo introdusse il 4 ottobre 1582 con la bolla papale Inter gravissimas) [← it.wikipedia.org] non aveva stravolto l'uso ufficiale e il capodanno veneto, fissato il 1º marzo, rimaneva quindi una festività ufficiale della Serenissima Repubblica. Nelle date dei documenti si ovviava a possibili fraintendimenti affiancando la dicitura latina more veneto, ossia "secondo l'uso veneto". Una data generale come 27 febbraio 1720 corrispondeva al 27 febbraio 1719 more veneto, in quanto l'anno 1720 sarebbe iniziato in Veneto solo a partire dal mese seguente. Il 1° marzo 1720, invece, era tale sia secondo il calendario gregoriano sia more veneto.
A testimonianza dell'usanza resistono ancora tradizioni come il Bruza Marzo (o Bati Martho o Bati Marzo o ciamàr Marzo), che significa risvegliare l'anno nuovo, in alcune zone della pedemontana berica, dell'altopiano di Asiago e in varie feste locali del Trevigiano, del Padovano a Onara e del Bassanese. Non dissimile dagli appena trascorsi pan e vin dell'Epifania è l'accensione di falò per propiziare l'anno nuovo. Ha lo stesso significato il Fora Febraro a Valdagno nella valle dell'Agno in provincia di Vicenza (questo tuttavia anacronisticamente guastato con i "sciòchi col carburo", botti provocati dallo scoppio dell'acetilene, prodotto unendo il carburo di calcio con l'acqua: «i bimbi girano per le strade battendo su pentole e coperchi, o trascinando in bicicletta o a piedi delle lattine vuote (un tempo si usava trascinare la catena del camino, che così diventava lucida), con l'idea che il rumore scacci il freddo Febbraio». [← it.wikipedia.org]
Un’originale riprova di familiari formule beneauguranti per il nuovo anno è offerto dalle parole scambiate il 9 marzo 1510 nei pressi del "capitello della Madonna" a Motta (di Livenza) tra Giovanni Cigana e la misteriosa fanciulla (la Beata Vergine) in vesti candide e sfavillanti di cui ebbe visione, stando agli atti del processo canonico dell’epoca. L’uomo, per quanto sorpreso, le si avvicinò e la salutò familiarmente: «Dio ve dia el bon dì». Il suo saluto non solo venne ricambiato, ma la giovane aggiunse anche un cortese augurio di buon anno: «Bon dì e Bon Ano, homo da ben». Siamo a marzo, nello Stato veneziano, la Madonna parla in lingua veneta, lasciandocene un “autorevole” lacerto, e si ricorda di porgere all’anziano e devoto contadino gli auguri per l’anno nuovo da poco iniziato…
Questi auguri li rinnoviamo anche noi, a tutti gli homeni da ben. Un supplemento di auguri in giorni di quaresima e quarantene ...
Museo di Santa Caterina / Treviso
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