Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
Dalla pancia del cavallo fuoriescono gli Achei, mentre i Troiani sono immersi nel «duro sonno».
Ettore appare in sogno a Enea, gli dice che ormai la città è presa, che deve fuggire con i sacri Penati e fondare nuove mura dopo peregrinazioni sul mare.
Le grida sopraggiungono, Enea si sveglia dentro la città sconvolta. Se lo prende quel sentimento che afferra i guerrieri: il furore della morte bella, la morte per la patria quando tutto è già perduto.
C’è una sola salvezza pei vinti, non sperare in alcuna salvezza.
Enea decide che combatterà fino all’ultimo, lo affiancano altri compagni, attraversano Troia nel tentativo di salire verso la rocca.
Accade di tutto, colli azzurri di serpente, armature lucenti, dardi, lunghi portici e atrii vuoti, cuori roventi, il mare che risplende per gli incendi.
Chi potrebbe narrare con parole la strage di quella notte; e le morti? Chi potrebbe trovare le lacrime, quante ne occorrerebbero ai nostri dolori? La città antica che aveva regnato per tanti anni rovina: qua e là giacciono senza vita corpi infiniti, lungo le strade, nelle case, sulla soglia dei templi.
Dopo aver perso quasi tutti i compagni, Enea arriva alla rocca di Troia. Nel palazzo reale risuonano pianti fin nelle stanze più intime. Le porte sono divelte, i Greci sono ovunque.
C’è questo Priamo vecchio, questo re consunto nel corpo ma ferreo nell’animo che come ultimo gesto impugna le armi di guerra «da troppo tempo deposte». Gli stanno come un vestito largo, una pelle lasca, che invece di rilanciare l’antica forza, sottolinea l’impietosa contraddizione.
Nel cortile al centro del palazzo, circondata da figlie e nuore, la moglie Ecuba lo ammonisce: “Che fai, infelice?”. Se ci fosse stata qualche speranza di vincere per mano umana, sarebbe bastato il figlio Ettore. Non possono più nulla. Solo abbracciare l’altare che si erge nel cortile.
Poco dopo arriva Pirro, figlio di Achille, che fa scempio di Priamo. Enea assiste e pensa al padre Anchise, al piccolo Iulo, alla moglie Creusa. Li pensa soli, nella casa forse già distrutta.
Vede Elena. Vorrebbe ucciderla: che almeno non possa tornare un giorno a regnare a Sparta o Micene, che non riveda marito, padre e figli, che non abbia al suo servizio schiave e schiavi troiani. Che non possa avere l’agio, il regno, la venerazione – lei, che è la causa di tutto.
Lo ferma l’apparizione della madre, Venere. Elena non c’entra, è l’ostilità degli dei. Che dunque Enea corra alla sua dimora, raduni i suoi e fugga; lei lo proteggerà.
Enea raggiunge la casa, ma Anchise, il vecchio padre, si rifiuta di abbandonare Troia. Preferisce la morte all’esilio. Chiede che lo lascino lì.
Enea non ne vuole sapere. Se Anchise non verrà, nessuno partirà. Torna quindi al suo proposito di morire in battaglia, difendendo la città.
Padre, speravi davvero che io potessi fuggire senza di te? Parole così tremende uscirono dalla tua bocca?
Arriva però un presagio divino: sulla testa del piccolo Iulo appare una piccola fiamma, poi rimbomba un tuono da sinistra e la scia di una stella percorre il cielo. Anchise intrepreta il segno e comprende che c’è ancora speranza per la discendenza di Troia. Acconsente a seguire Enea.
Da lì in poi: pene e vicissitudini, ma Enea arriverà nel Lazio.
Libro secondo dell’Eneide. Un Virgilio maestoso. Una storia di umanità, un’epica che ci si addensa nelle vene, che sta tra i miti fondativi del nostro spirito, della nostra cultura, della nostra penisola. Non importa che la narrazione sia vera o falsa, importa che dica. Che parli. Che testimoni. Che generi lacrime e brividi e pietas.
Nella fuga da Troia, Enea prende sulle spalle Anchise. Non ha dubbi. Salvarsi insieme a lui o piuttosto nessuna salvezza.
Ecco perché ci inorridiscono discorsi come “dovete prepararvi a perdere i vostri cari”. Ecco perché non dobbiamo lasciare un solo millimetro al pensiero biforcuto “tanto colpisce per lo più gli anziani”. Ecco perché ci opponiamo al calcolo dell’utilità, ai numeri asettici spogliati delle loro storie, alle stime basate sull’interesse.
La fragilità dei nostri padri è la nostra, la vulnerabilità delle nostre madri è la nostra. Ma anche la loro saggezza, la loro guida, la lunga vista che a noi manca.
Nelle nostre radici c’è la pietas. E la pietas legittima un solo pensiero: l’unica salvezza è salvarsi insieme.
* * *
Le citazioni dal testo virgiliano (in corsivo) sono nella traduzione di Cesare Vivaldi (Eneide, Garzanti, 2010)
L'articolo di Giovanna Miolli è tratto da Diario del primo giorno, il blog "contingente" che l'autrice ha deciso di tenere durante l'emergenza del covid19, contingente perché «Ha un inizio e una fine. Precisi. Comincia oggi, 13 marzo, e si conclude a emergenza terminata. Perché sì: ci arriveremo» | diariodelprimogiorno.com
Non ho nessuna particolare autorità per aggiungere mie meditazioni appropriate alla καταστροϕή (catastrofè) - proprio secondo etimologia greca: «capovolgimento, rovesciamento», quindi punto di scioglimento (ma anche di riannodamento, di riforma?) di questi giorni di contagio e di morte. Ma so che al virus che esanima i corpi annichilendone il πνεύμα (pneuma), "respiro", "aria", "soffio vitale", e li lascia svuotati, non ci si può opporre con animo vuoto o mente malata.
C'è una risposta della filosofia? Mi pare che essa riecheggi fin dall'antico e offra consolazione anche se non può sanare l'irreparabile. Michel Onfray è uno dei filosofi contemporanei più controversi ed anche difficilmente definibili, continuatore delle concezioni materialistiche ed ateistiche, reinterprete del pensiero edonistico classico innervato da un'altrettanto impegnativa impronta etica e politica. Anche senza aderire alla sua "presa di parte", è fra coloro che offrono un pensiero che non è salutare sottostimare o con cui rifiutare il confronto.
Le Figaro (←lefigaro.fr/michel-onfray) ha ospitato il 27 marzo una sua intervista "Comment la philosophie peut nous aider à traverser cette épreuve", di cui oggi La Repubblica ripropone la traduzione.
Michel Onfray: «Comment la philosophie peut nous aider à traverser cette épreuve»
En cette période tragique et pendant ce long confinement, le penseur nous invite à lire les stoïciens. Et il nous fait partager sa passion pour les moralistes du Grand Siècle
Par Alexandre Devecchio
LE FIGARO - En ces jours éprouvants pour tous, quels grands esprits conseillez-vous de lire? Quels penseurs lisez-vous vous-même actuellement?
MICHEL ONFRAY - Pour penser la question du coronavirus, le mieux est d’avoir recours à Nietzsche, notamment à sa méthode généalogique. Le philosophe allemand aide en effet à penser la question des causalités dans une époque qui aime tant activer les catégories de la pensée magique. Les versions complotistes font rage, les lectures religieuses également: une invention du capital pour faire des bénéfices, une création des Américains pour supprimer la suprématie chinoise, voire un projet chinois, mais également, version du frère de Tariq Ramadan, une punition divine à cause du dérèglement des mœurs de notre époque, le délire ne manque pas. La philosophie aide à activer les causalités rationnelles construites par les philosophes atomistes, matérialistes et épicuriens de l’Antiquité. Quant aux auteurs à lire, c’est sans conteste vers la philosophie antique ...
La lettera di Luca Lando' al Direttore di Repubblica
«Non leggete queste righe, non adesso. L'emergenza, i morti, i turni massacranti di medici, infermieri e volontari, insomma il dramma che sta vivendo il Paese ci obbligano a stare uniti ed evitare polemiche. Quando l'incubo sarà passato, e sappiamo che passerà, sarà però il caso di ragionare su quanto accaduto.
L'epidemia di Sars del 2003 durò solo sei mesi, da febbraio a luglio, ma lasciò sui tavoli un conto tra i 40 e gli 80 miliardi di dollari. L'influenza spagnola, che si diffuse rapidamente insieme alle truppe della Prima guerra mondiale, contagiò 500 milioni di persone (oltre un quarto della popolazione globale di allora) e fece oltre 50 milioni di vittime. La peste nera, provocata da batteri e non da virus, uccise il 40% della popolazione europea tra il 1347 e il 1352 (tre secoli prima di quella del Manzoni) e ci vollero due interi secoli (sì, 200 anni) per riportare le città ai livelli demografici di prima. L'epidemia di Ebola del 2014 ha infettato nell'Africa occidentale oltre 28mila persone e uccise più di 11mila, consegnando a Guinea, Liberia e Sierra Leone un buco di 2,2 miliardi di dollari in termini di Prodotto interno lordo perduto, mentre la nuova epidemia di Ebola, esplosa in Congo nel 2018 e ancora in corso, ha colpito oltre tremila persone, uccidendone più di 2200.
Sono notizie terribili, alle quali abbiamo sempre reagito pensando che si trattasse di epidemie lontane nello spazio (Ebola) o nel tempo (Peste). Il ritmo ravvicinato di Sars, Mers e ora Covid-19 ci ricorda invece che in un mondo interconnesso di quasi otto miliardi di persone quelle categorie non hanno più senso. Un virus che esplode in Cina a dicembre può presentarsi a gennaio in Italia e in Iran, a marzo in Francia e in Germania e alla fine di quel mese sbarcare trionfante negli Stati Uniti. Di fronte a un virus nuovo e sconosciuto (agli scienziati e al nostro sistema immunitario) non c'è più spazio, tanto meno tempo. In un rapporto del 2007 l'Organizzazione Mondiale della Sanità scriveva che "un'epidemia in qualunque parte della Terra è a poche ore di distanza dal diventare una minaccia ovunque". Nel 2016 una commissione internazionale formata da esperti di 17 Paesi e dal complicato nome di Global Health Risk Framework for the Future concludeva che "esistono davvero pochi rischi per il genere umano che possano causare un numero di morti paragonabile a quello delle pandemie".
I governi, i media e i medici dicono giustamente quello che dobbiamo fare per evitare il contagio e ridurre i pericoli. Prima o poi (meglio prima) dovremmo tuttavia affrontare la questione in maniera diversa: visto che le pandemie (gigantesche epidemie su scala globale) non sono più una ipotesi ma una certezza, è possibile organizzarsi per tempo? Certo, nessuno può sapere - oggi, adesso - quale sarà il virus che esploderà incontrollato tra dodici mesi o dodici anni. Quello che possiamo fare, tuttavia, è prepararci in anticipo a gestire l'emergenza che verrà nel modo più efficace e intelligente. Cosa che non è avvenuta in questo caso.
In questi giorni di quarantena, imposta o volontaria, gira sul web il video di una conferenza pubblica di Bill Gates in cui il fondatore di Microsoft parla di quello che l'epidemia di Ebola in Africa ci ha insegnato e che gli scienziati ripetono da tempo: primo, che l'esplodere di epidemie virali non è un copione di Hollywood ma una serie di eventi in arrivo; secondo, che quelle epidemie possono realmente trasformarsi in pandemie e vagare per l'intero globo (il fatto che non sia accaduto con Ebola, non significa che non possa accadere e Covid lo dimostra); terzo, che i soldi da investire in ricerche biologiche, epidemiologiche e per realizzare - prima, anziché dopo - dei piani e dei protocolli di difesa rapidi ed efficaci sono enormemente inferiori ai costi provocati da una epidemia, figurarsi una pandemia. Quarto, ma lo aggiungiamo noi, che di fronte a tutto questo la sanità andrebbe rafforzata, non certo tagliata come avvenuto in Italia negli ultimi dieci anni (quasi duecento ospedali chiusi e 40mila posti letto in meno).
Il video di Bill Gates che sembrava predire il Coronavirus, 5 anni fa | corriere.it/video-bill-gates
Il video è del 2015 e può essere definito tanto premonitore quanto inutile. Perché del tutto inascoltato e ignorato. E perché un secolo dopo la Spagnola, sette anni dopo la Sars, sei dopo la penultima esplosione di Ebola (l'ultima è tuttora in corso) siamo ancora qui a cercare mascherine e guanti, a ringraziare i cinesi per il gentile invio di macchine da terapia intensiva, a individuare aree da trasformare in ospedali e, infine, a tentare di capire se sia meglio avere tante zone rosse da cui non si entra e non si esce o una gigantesca zona di protezione (l'Italia) dove al prezzo di una multa o di una ipotetica denuncia chi vuole va dove vuole. Per non parlare del paradosso Ue, dove di fronte a un virus che è uguale per tutti, le risposte e le ricette cambiano di Paese in Paese.
Non leggete queste righe, non adesso. In questo momento è giusto fare di tutto perché il Covid passi il prima possibile. Ma l'errore più imperdonabile, appena finito l'incubo, una volta passata 'a nuttata, sarebbe ripetere quanto fatto con Ebola, Sars e compagnia brutta: vivere di emergenza, anziché di esperienza.
[Luca Lando' è stato direttore dell'Unità e, prima di diventare giornalista, ha lavorato per anni all'Università di Berkeley come neurobiologo cellulare. Per Chiarelettere ha scritto il libro La Cura - Se l'Italia fosse un corpo umano]
La Repubblica, 19.3.2020 | rep.repubblica.it/coronavirus-lando
Senza nessuna intenzione di invocare restaurazioni riparatrici del perduto capodanno more veneto, oggi si può ricordare che, nel calendario della Repubblica di Venezia fino alla sua caduta, il ciclo dell’anno aveva inizio il 1° marzo, come nell’antico calendario romano che originariamente contava solo dieci mesi.
Ciò rendeva trasparente per es. come il conto di alcuni mesi fosse coerente rispetto alla loro denominazione: settembre (septem=sette + suffisso ber/brem=tempo), settimo arco di tempo, è il settimo mese a partire da marzo; ottobre (octo=otto + ber) l’ottavo; novembre (novem + ber) il nono; dicembre (decem + ber) il decimo, seguiti dai mesi di rinnovamento e morte, prima del nuovo inizio, Januarius (da Giano, il dio dai due volti, girati uno verso il futuro l’altro verso il passato, patrono delle porte e dei ponti, protettore di ogni forma di passaggio e di mutamento e propiziatore di ogni apertura e di ogni inizio) e Februarius, dal verbo februare=purificare, rimediare agli errori, in onore del dio estrusco Februus e della dea romana Febris (assimilata a Giunone stessa: Iuno Februa o Februata) invocata durante i Lupercali dell’ultimo mese dell’anno.
L'introduzione del calendario gregoriano (dal nome del papa Gregorio XIII, che lo introdusse il 4 ottobre 1582 con la bolla papale Inter gravissimas) [← it.wikipedia.org] non aveva stravolto l'uso ufficiale e il capodanno veneto, fissato il 1º marzo, rimaneva quindi una festività ufficiale della Serenissima Repubblica. Nelle date dei documenti si ovviava a possibili fraintendimenti affiancando la dicitura latina more veneto, ossia "secondo l'uso veneto". Una data generale come 27 febbraio 1720 corrispondeva al 27 febbraio 1719 more veneto, in quanto l'anno 1720 sarebbe iniziato in Veneto solo a partire dal mese seguente. Il 1° marzo 1720, invece, era tale sia secondo il calendario gregoriano sia more veneto.
A testimonianza dell'usanza resistono ancora tradizioni come il Bruza Marzo (o Bati Martho o Bati Marzo o ciamàr Marzo), che significa risvegliare l'anno nuovo, in alcune zone della pedemontana berica, dell'altopiano di Asiago e in varie feste locali del Trevigiano, del Padovano a Onara e del Bassanese. Non dissimile dagli appena trascorsi pan e vin dell'Epifania è l'accensione di falò per propiziare l'anno nuovo. Ha lo stesso significato il Fora Febraro a Valdagno nella valle dell'Agno in provincia di Vicenza (questo tuttavia anacronisticamente guastato con i "sciòchi col carburo", botti provocati dallo scoppio dell'acetilene, prodotto unendo il carburo di calcio con l'acqua: «i bimbi girano per le strade battendo su pentole e coperchi, o trascinando in bicicletta o a piedi delle lattine vuote (un tempo si usava trascinare la catena del camino, che così diventava lucida), con l'idea che il rumore scacci il freddo Febbraio». [← it.wikipedia.org]
Un’originale riprova di familiari formule beneauguranti per il nuovo anno è offerto dalle parole scambiate il 9 marzo 1510 nei pressi del "capitello della Madonna" a Motta (di Livenza) tra Giovanni Cigana e la misteriosa fanciulla (la Beata Vergine) in vesti candide e sfavillanti di cui ebbe visione, stando agli atti del processo canonico dell’epoca. L’uomo, per quanto sorpreso, le si avvicinò e la salutò familiarmente: «Dio ve dia el bon dì». Il suo saluto non solo venne ricambiato, ma la giovane aggiunse anche un cortese augurio di buon anno: «Bon dì e Bon Ano, homo da ben». Siamo a marzo, nello Stato veneziano, la Madonna parla in lingua veneta, lasciandocene un “autorevole” lacerto, e si ricorda di porgere all’anziano e devoto contadino gli auguri per l’anno nuovo da poco iniziato…
Questi auguri li rinnoviamo anche noi, a tutti gli homeni da ben. Un supplemento di auguri in giorni di quaresima e quarantene ...
Nella frazione opitergina di Piavon, su iniziativa del Gruppo Alpini, sabato 8 febbraio 2020, alle ore 15, sarà intitolata a Clelia Caligiuri la piazzetta antistante la scuola primaria. Clelia Caligiuri è stata la prima donna italiana insignita del titolo di "Giusto tra le Nazioni" per aver salvato dalla deportazione un’ebrea croata offrendole nascondigli (a casa propria e in altri luoghi) dal settembre del 1943 alla fine della guerra. Emigrata da Napoli in Veneto alla ricerca di lavoro, in quel periodo abitava a Piavon come maestra nella locale scuola elementare. All'inizio della cerimonia ne racconterà la storia Andrea Pizzinat, che - grazie ai suoi articoli pubblicati ne L’Azione nel 2017-2018 - ha contribuito a togliere dal dimenticatoio la vicenda.
Quest'anno la santa Candelora fa l'enigmista e combina una data palindroma, che non cambia cioè se viene letta da sinistra a destra o viceversa: 02.02.2020. È palindroma sia per noi, sia per chi utilizza notazioni differenti, come gli anglosassoni che all'anno fanno seguire il mese e il giorno: anche a New York il «palindrome day» sarà 2020.02.02. La precedente data palindroma mondiale fu l'11 novembre 1111 (11.11.1111) in pieno Medioevo; la prossima sarà il 12 dicembre 2121 (12.12.2121).
La ricorrenza cristiana popolarmente chiamata Candelora è celebrata il 2 febbraio, essendo stata istituita come festa della Presentazione di Gesù al Tempio e della Purificazione della Vergine Maria. Secondo il Levitico biblico (12, 2-4), una donna dopo il parto di un maschio era ritenuta impura del sangue mestruale per un periodo di quaranta giorni e doveva andare al Tempio per purificarsi. I 40 giorni dopo il 25 dicembre, parto di Gesù, cadono appunto il 2 febbraio. Prende il nome di Candelora (di probabile derivazione latina: candelorum o festum candelarum) dal rito di benedizione delle candele, simbolo di Cristo (appellato «luce per illuminare le genti» da Simeone al momento della presentazione al Tempio), portate dai fedeli, da conservare poi in casa e accendere per scongiurare calamità e tempeste.
Nella ricorrenza cristianizzata, collocata a mezzo inverno nel tempo astronomico, si riconosce l'apparentamento con alcune celebrazioni legate al ritorno della luce in alcune tradizioni religiose pre-cristiane, nella fase dell’anno in cui, sebbene l’inverno risulti ancora climaticamente rigido, la luce manifestata con il solstizio d’inverno inizia a essere percepita in modo più chiaro. Esempi ne sono la festa celtica di Imbolc (1° febbraio, nel punto mediano tra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera) e, nel mondo romano, le feste della Dea Februa (Iunio Februata = Giunone purificata) e gli antichi Lupercali rispettivamente l'una alle calende di febbraio (il 1°) e gli altri alle idi di febbraio (il 15), ultimo mese dell'anno per i romani.
Imbolc (da imbolg = nel grembo) era sotto gli auspici della dea Brigit (o Brighid, da breo, fuoco), divinità del fuoco, della tradizione e della guarigione, e contemplava l'accensione di fuochi e falò rituali che simboleggiavano la luce e al tempo stesso la richiamavano. Brigit fu sostituita, con l'avvento dell'era cristiana, da santa Brigida, considerata evangelizzatrice d'Irlanda, a cui vengono attribuite molte caratteristiche dell'antica divinità.
Una ricodificazione cristiana è attestata anche per l'antica festa dei Lupercali (← it.wikipedia.org | treccani.it) che combinava riti di fertilità e purificazione/propiziazione, tenacemente durata lungo i secoli fino all'Alto Medioevo. A papa Gelasio (492-496) si attribuisce la proibizione ai fedeli di partecipare in qualsiasi modo alla cerimonia, mentre non è provato che a lui sia riconducibile anche la sostituzione della festa della Purificazione di Maria a quella dei Lupercali - da celebrare proprio attorno alle idi di febbraio, cioè 40 giorni dopo l'Epifania, che è il Natale degli Orientali, com'era in uso a Gerusalemme già alla fine del IV secolo, con il nome di Quaresima dopo l'Epifania il 14 febbraio - perché si ha menzione della Candelora cristiana in Roma solo nel sec. VII. Quando la festa cristiana prevarrà, le antiche fiaccolate rituali che accompagnavano i Lupercali cedono all'uso delle candele: «incenduntur omnes candelae et cerei et fit lumen infinitum», si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima (Peregrinatio Aetheriae, 24, 4).
Ancora nel “Lunario Toscano” dell’anno 1805 si legge: «La mattina si fa la benedizione delle candele, che si distribuiscono ai fedeli, la qual funzione fu istituita dalla Chiesa per togliere un antico costume dei gentili [i gentili erano i pagani, ndr] che in questo giorno in onore della falsa dea Februa con fiaccole accese andavano scorrendo per le città, mutando quella superstizione in religione e pietà cristiana».
* * * * *
Lo storico veneziano Nicola Bergamo, nel raccontare Venezia dalle origini fino all'indipendenza da Costantinopoli, incrocia anche la storia di Oderzo, all'epoca ancora centro amministrativo di qualche rilievo (sebbene ormai lontana dai fasti dei secoli precedenti) di un territorio sotto il controllo dell’Impero Romano d’Oriente che si sarebbe in seguito evoluto in ducato e quindi nella Repubblica di Venezia: la Oderzo di san Tiziano, san Magno e di Paolo Lucio Anafesto, eletto - secondo leggenda - primo “doge” veneziano. Anche prescindendo dalla storicità del "primo doge", la sua figura costituirebbe indizio che la nobiltà opitergina, trasferitasi nella più sicura Eraclea per sfuggire alle incursioni longobarde, ebbe un ruolo decisivo nella nascita di quell'umile comunità di profughi nella zona di Torcello destinata a diventare lentamente la "Dominante". |
Fonte della foto: leggerepernondimenticare.it
4.12.2019 | È morto Giuseppe Bevilacqua, noto germanista, storico della letteratura tedesca, traduttore e scrittore.
[a. m.] Trevigiano di nascita (1926), aveva trascorso la giovinezza ad Oderzo, abitando coi genitori a Palazzo Foscolo. La madre era la pittrice Angelita Rolleri. Nasceva negli anni in cui lo zio Luigi de Giudici, pittore dell'avanguardia anti-accademica degli anni Dieci, marito di Maria Rolleri, sorella di Angelita, ricopriva la carica di "sindaco-podestà" di Oderzo.
Formatosi all'Università di Padova, fu dapprima lettore all'Università di Tubinga e poi assistente di Ladislao Mittner a Ca' Foscari. Dal 1967 al 2000 ha tenuto la cattedra di lingua e letteratura tedesca all'Università di Firenze.
Un ampio scorcio sulla sua vita di passioni, interessi e impegni culturali nonché di affetti e di amicizie, ha lasciato nelle intense memorie di Pagine di un lungo diario (Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 2015).
La sua attività saggistica è fra le più importanti dell'ultimo cinquantennio.
È stato il più profondo studioso di Paul Celan. Dopo aver vinto il premio Mondello 1984 già per la traduzione di "Luce coatta e altre poesie postume", ha tradotto e curato le Poesie di Celan raccolte nel Meridiano Mondadori del 1998, seguito nel 2001 dalle Letture celaniane (Editrice Le Lettere).
Sul Romanticismo tedesco, suo permanente oggetto di studio, si sono succeduti: Parole e musica: l'esperienza wagneriana nella cultura fra Romanticismo e Decadentismo (Olschki, 1986); Romantici tedeschi (Rizzoli 1995-98, 5 volumi); Saggio sulle origini del Romanticismo tedesco (Sansoni, 2000); Introduzione al secondo "Faust" e altri interessi goethiani (Palomar, 2003), fino al saggio sul legame tra poesia e follia in Friedrich Hölderlin (Olschki, 2007). Claudio Magris considera quella dell'amico Bevilacqua «la più originale e persuasiva indagine esistente sull'argomento, che aiuta a capire a fondo pure la stagione culturale che stiamo ancora vivendo, il moderno e il suo trapasso nel post-moderno»
I percorsi dentro il Novecento si trovano raccolti in Novecento tedesco (Le Lettere, 2004) e comprendono anche la traduzione in rima delle Poesie di Gottfried Benn (Il ponte del sale, Rovigo, 2008).
Negli ultimi decenni, Bevilacqua aveva lasciato erompere anche la propria vena narrativa e poetica. Godibilissimi sono sia il breve "romanzo di iniziazione" Villa Gradenigo (Einaudi, 2011), vincitore del Premio Comisso, sia l'appena più ampio L'alzata di Meissen (Mondadori, 2014), protagonista un "Io senile", di chiara ispirazione autobiografica.
Il primo racconta il mondo e i segreti di un adolescente inquieto e solitario, nel microcosmo di una villa del Seicento e il suo vasto parco, Villa Gradenigo (alias Palazzo Foscolo), nell’abitato del paese di Borgo (alias Oderzo). Sullo sfondo dell’Italia fascista, nel cuore della provincia veneta, Maurizio sperimenterà le presenze e le assenze dell’universo famigliare, si emanciperà gradualmente dal ruolo di figlio e fratello, conoscendo i primi turbamenti, vedrà dispiegata l’immobile gerarchia sociale degli abitanti del Borgo, fino ad incontrare la politica e la letteratura, destinati a ridisegnare il suo tragitto interiore in vista dell’età adulta.
Il secondo prende nome dalla stupenda alzata in porcellana di Meissen finemente modellata, che il professor Linder, ospite come relatore ad un congresso culturale di tre giorni a Villa Bella, sul lago di Como, ammira nello studio-biblioteca riccamente dotato del Direttore della Fondazione, che l’ha invitato. La villa appare, soprattutto a sera e notte, un mondo diverso, ovattato, presago di accadimenti fuori dell’ordinario. Dell’alzata di Meissen lo attrae particolarmente l’espressività delle due figure umane rappresentate, sui lati opposti attorno al fusto a forma di tronco d’albero: una giovane dama slanciata nella corsa che tiene con una mano l’abito rialzato fino quasi alle ginocchia e con l’altra un cestino colmo di frutta dinanzi a sè, mezzo voltata tuttavia come per accertarsi d’esser seguita; un cavaliere in abito settecentesco al suo inseguimento con la mano protesa ad afferrarla. Poco dopo l'inizio del congresso, tra gli ospiti, Linder fa la conoscenza di Peonia, una giovane studiosa tedesca, lì mandata dal suo professore, per tenere la prima relazione della sua carriera. Peonia ha quasi la metà dei suoi anni. Si dispiegheranno, indovinabili ed inaspettate al tempo stesso per i protagonisti, le dinamiche dell'uomo vecchio e della donna giovane, toccati nell'atmosfera di quel luogo e di quel soggiorno da reciproca ammirazione e attrazione: complicità intellettuale, sguardi d'intesa, colloqui allusivi, vicinanze emozionanti. La storia pare l'immagine riprodotta nell'alzata, ma il loro sentimento è fragile e delicato come quella porcellana. L'abbozzo d'amore rimarrà in quella villa che l'ha visto accendersi e quale ricordo prezioso che il vecchio professore e la giovane studiosa serberanno nel loro intimo.
Il segno della sua poesia, infine, è stato lasciato nella raccolta Un pennino di stagno (Il Ponte del Sale Edizioni, 2005, a cura di Andrea Zanzotto).
31.10.2019 | In Friuli e Veneto (ma anche in molte altre regioni) era diffusa la tradizione di intagliare zucche con fattezze di teschio e la credenza che nella notte dei morti (all hallow even = la sera di tutte le anime) questi potessero uscire dalle tombe, muoversi in processione, irretire i bambini, ed infine che gli animali nelle stalle potessero parlare. Sempre in Friuli era diffusa una tradizione simile a quella del "dolcetto o scherzetto", ma applicata nelle festività natalizie o carnevalesche, feste che hanno pure origine come riti di passaggio d'anno.
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