Analemma solare in Piazza Grande a Oderzo. Funge da calendario grazie all'ombra proiettata dalla cuspide più alta del Duomo.
Meridiana settecentesca visibile sulla parete sud della chiesa parrocchiale di Piavon di Oderzo. Segna le antiche ore italiche.
Human Sundial in una nuova scuola a Lafayette (Louisiana, USA). Serve l'ombra di una persona per mostrare l'ora esatta.
Vada al diavol colui che inventò l'ore,
e primo pose qui quest'orologio
(Plauto, Boeotia)
Conosco la mia età, posso dichiararla,
ma non ci credo: nessuno si riduce
alla semplice apparenza della sua età
fintantoché gli rimane un po’ di consapevolezza
(Marc Augé)
A novembre del 1869, dopo dieci anni di lavori, fu inaugurato in Egitto il Canale di Suez. Realizzato dal diplomatico francese Ferdinand-Marie Lesseps su progetto dell'italiano Luigi Negrelli [1], il canale permetteva, con una navigazione di soli 116 chilometri, di raggiungere il Mar Rosso dal Mar Mediterraneo senza circumnavigare l'Africa.
Perché parlarne qui?
Già tre secoli e mezzo prima, nel 1504, lo scavo di un canale che tagliasse l’istmo di Suez per congiungere via mare il Mediterraneo alle Indie era un progetto veneziano. Il tempo per raggiungere le Indie con le navi si sarebbe drasticamente ridotto rispetto a quello impiegato dalle carovane sulla tradizionale via delle spezie [2]. Nel calcolo veneziano il canale era da proteggere «al una et l’altra bocha» con due fortezze per controllare l’accesso e impedirlo soprattutto ai portoghesi, che in quel momento storico erano la concorrenza più pericolosa agli interessi mercantili di Venezia e dell'Egitto nel commercio delle spezie dall'Asia all'Europa, dopo la nuova rotta aperta dai lusitani stessi che arrivava in India circumnavigando l'Africa.
Il progetto si legge nella minuta di un documento del Consiglio dei Dieci del 24 maggio 1504 con cui si affidava all’ambasciatore Francesco Teldi (in realtà a Bernardino Giova che sostituirà il Teldi ammalatosi), l’incarico di incontrare il sultano d’Egitto anch'egli impegnato a reagire alla minaccia economica.
«A impedir et del tutto interromper la navigation de portoghesi, videlicet che cum multa facilità et brevità de tempo se potria far una chava dal mar rosso che mettesse a drectura in questo mar de qua, come altre volte etiam fo rasonado de far: la qual chava se potria assegurar al una et l’altra bocha cum do forteze per modo che altri non potrian intrar ne ussir, salvo quelli volesseno el Signor Soldan. La qual cava facta, se potria mandar quanti navilij et galie se volesse a chazzar li portogalesi che per alcuno modo non potrian parer in quelli mari. Questa cava intendemo saria cum grande segurtà del paese del Signor Soldan et dovria dari infinita utilitade a quello, però volemo che non in la prima audientia che haverai dal Signor Soldan ma in una altra audientia cum grande dexterità et a qualche bon proposito rasonando dele provision necessarie ut supra tu devi dir che molti de qui recordano essa cava monstrando più presto de refferir le opinion de homeni periti in simel cose, che alcun fermo nostro obiecto et racordo azio el prefato Signor Soldan non prendesse alcuna ombra. Che fassamo tal rechiesta a nostra particolare utilità et danno del Signor Soldan e pericolo del stado suo, et però te forzerai proponerla cum tal modo che tal proposition sia aceptada in bona parte et supratuto li farai intender quanti beni succedarian dala cava predicta».
A parte le implicazioni economiche e politiche, è un’opera “faraonica” che non spaventerebbe tecnicamente gli ingegneri veneziani. Avevano già creato fosse e canali artificiali per deviare il corso dei fiumi e preservare la loro laguna dall’interramento. E neppure doveva apparire assurda dal momento che - nel grande revival di testi classici greci e latini e di studi umanistici del Rinascimento - a Venezia si era ritrovata la memoria di un antico percorso acqueo che congiungeva i due mari in tempi antichissimi, prova che l'opera era fattibile [3].
La proposta, che si può ben immaginare dibattuta anche nelle sale di Palazzo Ducale, resta però nel cassetto, come dimostrano i tratti di penna tirati sulla minuta [4], e non verrà avanzata - pur con tutte le cautele già preventivate - al sultano. Non figurò più fra le direttive impartite all'ambasciatore e non trapelò in Egitto.
A farla regredire a vaga possibilità, da riprendere eventualmente in altre congiunture, avranno influito sia valutazioni strategiche diplomatiche e politico-militari (se ne possono ricavare dalla minuta stessa) sia la stima dei reali andamenti commerciali. Un’ingerenza veneziana così smaccata poteva urtare il sultano. Il controllo della “chava” in mano ai mamelucchi poteva ritorcersi alla lunga contro i veneziani stessi, essendo il rapporto con la costellazione mamelucca e ottomana sempre esposto a possibili conflitti per preservare il dominio veneziano “da mar”. Un’aperta collaborazione - sia pure a soli fini mercantili – con l’Egitto poteva rinfocolare l’ostilità delle potenze europee e degli altri stati italiani già insofferenti per l’espansione veneziana quattrocentesca (lo “stato da tera”) nella terraferma lombarda, veneta, friulana e dalmata, e farla sfociare in atti di guerra contro Venezia, se non fosse stata più gestibile con la pur eccellente diplomazia manovriera da parte della Repubblica.
Secondo qualche storico, inoltre, all’immediata reazione preoccupata e totalmente pessimistica seguita all’apertura della nuova rotta transoceanica portoghese, si affiancava una presa d’atto più realistica che la circumnavigazione dell’Africa si sarebbe alla fine comunque imposta sulla via delle spezie tradizionale e, forse, non era difficile riposizionarsi all’interno dei nuovi equilibri “mondiali”, puntando sulla “qualità”, sul brand – come si direbbe oggi – e sulla fascia alta del mercato. I riscontri non tardarono a venire. Il pepe commerciato a Lisbona si attestava ad un prezzo che non faceva una concorrenza agguerrita a quello veneziano e risultava spesso di qualità decisamente inferiore, dopo aver viaggiato molti mesi in stive umide, a paragone di quello trasportato fino al Mediterraneo.
Il vero scacco geopolitico per la centralità mediterranea, e il dominio veneziano, sui traffici marittimi mondiali non sarebbe stato la mancata apertura del canale di Suez nel 1504 e il primato marittimo-commerciale portoghese sull’oceano indiano e pacifico, ma la scoperta e la valorizzazione delle Americhe, delle nuove Indie, con l’imporsi della centralità atlantica. Ma questo è il senno di poi.
Nel 1487-1488 Bartolomeo Diaz, navigando dal lato atlantico, aveva raggiunto il punto più meridionale dell'Africa, da lui denominato Capo delle Tempeste, e contemporaneamente Pêro da Covilhã aveva viaggiato per terra fino a Calicut, esplorando possibili fonti di approvvigionamento di spezie sul subcontinente indiano. Non rimaneva che cercare di unire i due segmenti del viaggio. Un decennio dopo, Vasco Da Gama, salpato da Lisbona l’8 luglio 1497, dopo aver doppiato il Capo delle Tempeste, da lui ribattezzato in forma più beneaugurante Capo di Buona Speranza, aveva risalito la costa orientale del continente fino a due città dell’attuale Kenia: Mombasa, dove i commercianti arabi tentarono di sabotarne il viaggio, e poi Malindi, allora in feroce concorrenza con Mombasa, dove invece il sultano gli mise a disposizione l’esperto navigatore yemenita Ahmad b. Majid al-Najdi per aiutarlo ad attraversare l'oceano Indiano e arrivare sulla costa sud-occidentale dell’India (attuale stato del Kerala), sbarcando al porto di Calicut (attuale Kozhikode, Calcutta) il 20 maggio 1498.
Erano le prime navi europee mai approdate nel subcontinente indiano. Si dischiudeva la “via marittima delle Indie” (cioè le regioni sud-orientali dell'Asia), così a lungo ricercata per sottrarsi all’intermediazione di commercianti arabi, persiani, turchi e veneziani, che gravava sul prezzo delle spezie orientali come il pepe, la noce moscata e i chiodi di garofano.
A Calicut Vasco Da Gama, sia pur dopo mesi di trattative per ottenere vantaggi commerciali con lo Zamorin (il principe locale), fortemente avversate dai mercanti arabi del luogo, ottenne una concessione. Ripartì l’8 ottobre, lasciandosi dietro alcuni dei suoi uomini con l’incarico di stabilire un insediamento commerciale.
La notizia arrivò a Venezia l’anno seguente. Nell’agosto del 1499, al mercato di Rialto si raccontava delle tre caravelle con le insegne del re di Portogallo approdate ad Aden e a Calicut. Fu a stento creduta. Si giudicava smisurata la nuova rotta, estremi i pericoli per avventurarvisi, assolutamente aleatorio il ritorno - quand’anche fossero riuscite ad arrivare - per navi cariche di preziosissime spezie.
Si intuiva però che - se la voce fosse stata vera – erano minacciati di crollo i commerci delle spezie che facevano la ricchezza di mercanti e nobili veneziani, ma anche dei mamelucchi d’Egitto.
Venezia non era certo inesperta di momenti di crisi commerciale ed economica, ma le turbolenze e i danni arrecabili dai concorrenti attivi sulla via alternativa aperta dai Portoghesi costituivano un pericolo molto più grave delle periodiche bolle speculative sui prezzi delle spezie, possibili anche a causa delle guerre intermittenti con gli Ottomani, come in quello stesso 1499, quando le galee allestite per commerciare furono requisite per andare a combattere e si erano creati scompensi fra stock immagazzinati e nuovi approvvigionamenti mancati.
Lettere da Lisbona nel luglio 1501 su arrivi di spezie direttamente dalle isole asiatiche attestavano che il traffico si sviluppava e sembrava non incontrare ostacoli importanti. Se da qualche parte si esorcizzava la minaccia, considerata ancora insufficiente ad affossare i commerci della Serenissima, altri – come il diarista Girolamo Priuli[5] – presagivano la rovina della città: i veneziani, ultimi di una trafila di intermediari, costretti a rifornirsi sulle coste del Levante di spezie sempre meno numerose in arrivo rispetto a un tempo, si trovavano a competere con nuovi rivali, acquirenti a basso prezzo nei porti dell’India e venditori diretti in Europa.
Lo scenario più pessimistico sembrava avverarsi quando a novembre si seppe in città dell’impresa recente del portoghese Pedro Alvares Cabral: bombardamento di Calicut, acquisto di spezie in un porto vicino, affondamento della flotta araba il cui carico diretto in Egitto era andato perduto privando di rifornimenti gli intermediari mediterranei. Il prezzo del pepe schizzò alle stelle. Per i mercati di Venezia, Alessandria e il Cairo ci furono alcuni anni di sconvolgimenti: irregolarità del ritmo dei viaggi e assottigliamento della quantità delle spezie che arrivavano dall’India. Veneziani ed egiziani si trovarono con interessi da difendere sempre più convergenti [6].
In Egitto, per reagire alla minaccia economica, il sultano mamelucco Bayezid II (1481-1512) mirava per il 1505 ad un’azione militare anti-portoghese insieme con il sovrano di Calicut. Teatro di scontro non potevano che essere Mar Rosso, Golfo Persico e Oceano Indiano - sedi fino ad allora più di scorrerie piratesche che di guerre navali - da riportare sotto un controllo più stretto, ma i sovrani mamelucchi erano sostanzialmente privi di flotta, avendo lasciato che del mare si occupassero le popolazioni rivierasche. Dovevano cercare - presso gli stati amici - tecnici navali, artiglieri e materiale strategico, come legno per imbarcazioni. Interpellata, Venezia preferì restare “coperta” lasciando intendere che «se gente dello Stato da Mar fosse andata volontariamente in Egitto non sarebbe stata trattenuta», ma non si sarebbe impegnata ufficialmente.
Roma, Francia, Spagna e persino Portogallo, furono “avvertiti” sulle possibili ritorsioni, se non si fosse bloccata la nuova via, come la chiusura della basilica del Santo Sepolcro ai pellegrini europei.
Quando Bayezid II ottenne dal sultano ottomano Qânsûh al-Ghawrî uomini e rifornimenti per allestire una flotta nel Mar Rosso, non pensò tuttavia di ridurre i prezzi, come proponevano i veneziani ad esempio per il pepe, ma anzi li aumentò nell’intento di lucrare un utile che bilanciasse la diminuzione delle merci arrivate. A dimostrazione della tutt'altro che agevole concertazione tra veneziani ed egiziani.
A partire dal 1517 la dinastia mamelucca fu scalzata da quella ottomana, col sultano Selîm I e poi suo figlio Solimano I (conosciuto come il Magnifico in Europa e il Legislatore in Turchia). Il gran visir Pargali Ibrâhîm pascià [7], amico del sovrano, inviato in Egitto, ebbe l'incarico di riorganizzare e dotare di nuovi ordinamenti le terre entrate a far parte dell’Impero ottomano. Nelle incognite della nuova situazione, i veneziani mantenevano accordi commerciali col nuovo potere per non interrompere il traffico delle galee da mercanzia, ma avevano trovato conveniente accordarsi anche con i portoghesi e con loro avevano firmato un trattato il 2 gennaio 1522. Per continuare a godere di una politica sufficientemente filo-veneziana da parte di Costantinopoli, ma senza dover esporsi, la Repubblica lasciava questo compito - senza quindi direttive cogenti – ad una rete di suoi uomini, a vario titolo presenti nell’Impero ottomano, come l’allora bailo a Costantinopoli, Pietro Bragadin, divenuto amico del gran visir, o come il corsaro Giovanni Contarini “Cazzadiavoli” e il capitano e costruttore navale Giovanni Francesco Giustinian, inviati come esperti navali - senza che lo stato ne fosse ufficialmente coinvolto - per sostenere la guerra che allora i turchi combattevano contro i portoghesi.
Nel periodo (1523-1536) in cui governò l'Egitto, Pargali Ibrâhîm pascià pensò anche ad una via d’acqua diretta tra Mediterraneo e Mar Rosso. L’idea, segretamente soppesata nelle stanze del Consiglio di Dieci nel 1504, riaffiorava nel divano imperiale d’Istanbul. Disponiamo della testimonianza di Alvise Roncignotto che in due successivi viaggi nel 1529 e nel 1532-33 constatò l'opera intrapresa per riaprire l’antico “canale dei faraoni” che univa il Mar Rosso al Mediterraneo (risalente secondo lui ai tempi dei romani) e vide circa 12.000 uomini impegnati nel lavoro. Con l'esecuzione capitale nel 1536 di Pargali Ibrâhîm pascià, divenuto inviso a Solimano che temeva per il suo stesso trono, il progetto decadde e lo scavo del canale non fu completato. Da ultimo, ne riconsiderò l'attuazione Sokollu Mehmed pascià, gran visir dell'Egitto tra il 1565 e il 1579, secondo una logica allargata e multipolare, data l'estensione vicina al suo apice che l'impero ottomano stava raggiungendo, dall’Europa, all’Asia e all’Africa. Perciò Sokollu a est «fece avviare i lavori per un canale che unisse il Don al Volga e quindi mettesse in comunicazione il Caspio con il Mar Nero» e a sud «fece riprendere gli scavi tra Suez e il Nilo come parte finale di una nuova rotta turca delle spezie, alternativa a quella che arrivava fino a Lisbona». Ma a pochi anni dalla sua morte, anche in questo caso, lavori e progetto vennero nuovamente sospesi.
Si dovranno aspettare la "Campagna d'Egitto" di Napoleone (dissuaso dal suo ingegnere Jean-Baptiste Le Père) e Metternich (ispiratore della Société d’études du canal de Suez, fatta di specialisti francesi, inglesi e asburgici, guidata da Luigi Negrelli), l'ex-diplomatico francese Ferdinand de Lesseps (incaricato dai governi egiziano e francese di occuparsene) e la nuova Commissione scientifica internazionale incaricata di selezionare il progetto migliore (presieduta dal veneziano Pietro Paleocapa, progettista di importanti interventi alle bocche portuali della laguna veneta), per riaffrontare il problema e creare le condizioni economiche e politiche del taglio di Suez.
* * *
Venezia e l'Egitto
Sul canale di Suez
«Far San Martin». In una società non più prevalentemente agricola e povera, l'espressione ha quasi perso significato, ma fino agli anni sessanta del Novecento rappresentava ancora un'esperienza patita con sofferenza dalle famiglie contadine e uno spettacolo struggente anche per chi osservava i loro forzati traslochi. L'usanza era atavica. Il quadro del pittore cremonese Vincenzo Campi, Il sanmartino, ritrae uno di questi traslochi nell'ultimo quarto del Cinquecento.
Nel calendario rurale l'11 novembre, ricorrenza di San Martino, faceva da spartiacque tra un'annata agraria, dopo la semina, e la successiva. Quando i contratti di mezzadria o affittanza venivano sciolti, segnava il termine ultimo per lasciare il fondo e il casolare. La disdetta, ricevuta solitamente a maggio, in anticipo di un semestre sulla scadenza, costringeva il capofamiglia all'ansiosa ricerca di un nuovo contratto e una nuova sistemazione nello stesso comune o, al più, tra paesi vicini - se questa riusciva - senza sicurezza di conservare o migliorare le condizioni lavorative e abitative che abbandonava.
Finiti i lavori dei campi, diviso e venduto il raccolto, passati i primi giorni freddissimi di Ognissanti e dei morti, non era infrequente una mitigazione della stagione grazie alla piccola "estate di San Martino", così detta dalla leggenda di Martino futuro vescovo di Tours(1), che vedendo un povero infreddolito – Gesù stesso, secondo alcune narrazioni – aveva diviso in due il mantello, mentre la temperatura dell’ambiente si alzava per evitargli il freddo, come gratitudine per il buon gesto. I contratti agrari tenevano conto del fatto che, attorno all’11 novembre, la temperatura si alzava di qualche grado e rendeva i trasferimenti più facili.
Si materializzavano allora per le vie i mesti cortei di chi "faceva San Martino": il tiro di cavalli o di asini, il carro sovraccarico e debordante di mobili, di masserizie, di attrezzi, della cassapanca col vestiario, della legna per l’inverno, di polli nella stia e di conigli nella gabbia, di bambini issati sopra a tutte le suppellettili alla meglio, gli adulti incamminati a piedi dietro le cose trasportate ...
La leggenda di Martino
Il cavaliere Martino, distante ancora poco meno di quattro giorni di viaggio dalla sua casa alla quale stava tornando, aveva incontrato lungo la strada innevata un povero vecchio infreddolito senza neppure un cencio che gli coprisse le spalle e, impietosito, aveva diviso in due il proprio mantello donandogliene metà. Quel vecchio ignudo secondo alcune narrazioni era Gesù stesso, quello che dirà ai misericordiosi: «Ero ignudo e voi mi avete vestito». Nell'atto stesso che il soldato porgeva al povero la metà del suo mantello, tutta la neve che era in terra disparve, la terra si rasciugò, l'aria si fece calda, le piante sparsero la foglia, gli uccelli si misero a cantare: insomma una vera estate in pieno novembre. Durò così fino a sera, finché raggiunto l'albergo per pernottarvi ricominciò a nevicare.La mattina il mondo era nuovamente imbiancato.
Martino sperimentò il "miracolo" quanto durò quel viaggio fino a casa, perché ognuno dei giorni successivi gli si sarebbe ripresentato un povero viandante bisognoso di vestiario nella morsa del freddo: al secondo donò l'altra metà del mantello; per il terzo, non avendo più mantello, si privò della sottoveste; al braccio nudo tremolante dell'ultimo incontrato offerse infine la camicia, l'ultimo avanzo dei suoi vestiti. Ogni volta si dissolveva la neve e scompariva il gelo, l'inverno cedeva improvvisamente all'estate.
Martino, incredulo di ciò che capitava dopo ogni suo atto di misercordia, dubitava di sognare. Giunto finalmente a casa, Cristo gli apparve nottetempo: era ricoperto della metà del suo mantello militare e diceva agli angeli e ai santi che gli erano d'intorno: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro.
È il traffico colorito e nello stesso tempo dolente di un trasferimento di contadini il giorno di San Martino. Il soggetto è raro e non trova precedenti in altre composizioni cinquecentesche né italiane né straniere. Efficaci sono anche le soluzioni compositive.
Una famiglia, alla destra di chi osserva la scena, ha ormai radunato all’esterno della cascina in cui ha vissuto la passata annata agraria tutti gli oggetti e gli animali ed è probabilmente pronta alla partenza. In fondo alla strada un altro nucleo famigliare sta arrivando a destinazione e imbocca il portale di un edificio rurale.
Nella cosiddetta "estate di San Martino" le giornate sono tornate miti e sembrano una rinnovata primavera. Per rendere questa sensazione la donna ha braccia nude e le colombe tornano in amore. I colori sono ben contrastati, ancora fuori dal livellamento delle brume autunnali. In questo bizzarro giorno novembrino ancora caldo o tiepido il pittore fa contrastare «con il fondo scuro, quasi temporalesco, la luce del sole concentrata solo in un punto, quello in cui i contadini accumulano le poche cose, per poi partire».
Il 31 ottobre del 1517 Martin Lutero, monaco agostiniano, da tre anni professore di teologia all'università di Wittenberg (in Turingia), affisse sulla porta della chiesa del castello di questa città un documento con 95 tesi in cui criticava la prassi della vendita delle indulgenze e il ruolo delle autorità ecclesiastiche, in particolare del Papa.
L'affissione di un tale documento doveva precedere una pubblica assemblea in cui Lutero avrebbe difeso le proprie affermazioni, una prassi allora corrente nei centri universitari. Alcuni storici sostengono invece che le 95 tesi furono inviate, in quel giorno, ai vescovi interessati e che furono diffuse solo dopo la mancata risposta dei vescovi.
Anche se non sembrano esserci prove certe né per l'una né per l'altra versione dei fatti, il 31 ottobre 1517 è, in ogni caso, considerato l'inizio della riforma protestante (← Davide Maria De Luca, La riforma protestante iniziò con una notizia falsa?, «ilpost.it», 31.10.2017 | ilpost.it/lutero-95-tesi)
Non è qui la sede per riandare alla storia della Riforma luterana e della Controriforma cattolica, sulle quali esiste una sterminata serie di studi lungo i secoli. Peraltro nel 2017, in occasione del Cinquecentenario, c'è stato un fiorire di convegni, anche interconfessionali, e di pubblicazioni, che hanno rianimato il confronto storico e culturale. Merita invece ricordare come nei territori della Repubblica veneziana si diffuse la Riforma e si tentò di reprimerla e rintuzzarla. Com'è interessante richiamare personaggi che hanno agito nel nostro territorio ed eventi che hanno coinvolto le nostre comunità nel XVI e XVII secolo:
Girolamo Aleandro (Motta di Livenza, 1480 - Roma, 1542)
Fu inviato in qualità di nunzio pontificio in Germania (1520) per pubblicare e far eseguire la bolla papale Exsurge Domine, ed ottenne, nella dieta di Worms (1521), la messa al bando di Lutero.
La Bulla contra errores Martini Lutheri et sequentium di papa Leone X, altresì detta Exsurge Domine, pubblicata il 15 giugno 1520, costituiva la risposta con cui la Chiesa cattolica condannava sia le Novantacinque Tesi sia gli scritti di Martin Lutero successivi. Oltre a pretendere ufficialmente la ritrattazione, entro sessanta giorni, di 41 delle sue 95 tesi e di altri errori indicati nello specifico, si vietava in tutti i paesi cattolici la stampa, la vendita e la lettura di qualsiasi libro che contenesse gli errori e le eresie esposte nelle 95 tesi e si richiedeva alle autorità secolari il rispetto e l'applicazione di quanto espresso, nei loro domini.
Adriano Beretti Valentico (Valentigo, Oderzo, 1506 - Capodistria, 1572)
Al secolo Girolamo Beretti, mutò il nome in Adriano quando nel 1523 entrò nell'ordine domenicano, facendo parte della comunità del monastero di S. Domenico di Castello in Venezia. "Valentico" è il soprannome che gli venne dato dal luogo d'origine (Valentigo, nel territorio di Oderzo), dove la madre Domenica aveva delle proprietà. Negli atti del concilio tridentino è citato come "Hadrianus Venetus".
Distintosi presto per la sua preparazione come teologo, fu incaricato dell'insegnamento della metafisica tomista all'università di Padova e di ermeneutica delle Sacre Scritture. È autore del Tractatus de inquirendis puniendisque haereticis (1542), del De Eucharistia adversus Calvinum e del Contra errores Matthaei Gribaldi (1559).
Per i contatti avuti con personalità eminenti del clero veneto, alcuni dei quali sospetti di eresia, come il patriarca di Aquileia, Giovanni Grimani, e il vescovo di Chioggia, Iacopo Nacchianti, fu interrogato a Venezia nel dicembre del 1548 - in occasione del processo istituito contro quest'ultimo - da Angelo Massarelli, segretario del concilio di Trento, ma non fu mai sfiorato dal sospetto di eresia. Anzi, nel 1562 Pio IV lo nominò teologo al concilio di Trento dove intervenne durante le ultime sessioni sul sacramento dell'ordine e del matrimonio.
Dopo la conclusione del Concilio (1545-1563), fu nominato inquisitore a Venezia, con giurisdizione su tutto il territorio veneto, e nel 1566 fu insediato come nuovo vescovo di Capodistria per recuperare all'ortodossia cattolica la diocesi in cui qualche anno prima il vescovo Pier Paolo Vergerio aveva diffuso largamente i semi dell'eresia luterana prima della fuga e del suo clamoroso passaggio alla Riforma.
Vincenzo Bertoldo di Oderzo (Oderzo, ? - Ceneda, 1570)
Fu sottoposto a processo da parte dell'Inquisizione di Ceneda a seguito di una denuncia presentata contro di lui l'8 agosto 1569. La sua casa ad Oderzo fu perquisita e vi fu rinvenuta una cassa con numerosi libri proibiti (tra questi, l'Opera omnia di Lutero).
Arrestato nell'aprile 1570 insieme al suo servo Cipriano, il suo processo fu condotto dal vescovo Michele Della Torre e dall'inquisitore di Ceneda Daniele Sbarrato. Detenuto a Ceneda nel castello di San Martino, Vincenzo Bertoldo affermò che i libri erano posseduti dal fratello prete Francesco Bertoldo, deceduto.
Poco dopo questa confessione (fatta in un interrogatorio svoltosi l'8 maggio 1570) Vincenzo morì improvvisamente in carcere, presumibilmente a causa di un colpo apoplettico, l'11 maggio 1570.
* * *
La Repubblica di Venezia era, fra gli stati italiani più grandi e potenti del Cinquecento, l’unico in grado di competere con le grandi potenze come la Francia o la Spagna sullo scacchiere politico, diplomatico e militare europeo, nonché uno dei più vivaci e liberi sul piano culturale, artistico, letterario, filosofico. Fu anche lo Stato italiano in cui le idee della Riforma protestante ebbero il maggiore successo, rischiando di destabilizzare il suo stesso equilibrio politico e generando talvolta aspri conflitti con Roma sulle modalità e sulle competenze della persecuzione degli eretici.
La diffusione delle idee della Riforma fu favorita dall'ampia circolazione di libri eterodossi a Venezia sin dagli albori del dissenso luterano. Non va dimenticato che Venezia era una delle capitali dell’industria e del mercato librario. La cospicua presenza di mercanti tedeschi, gravitanti intorno al loro Fondaco, non poteva che favorire la circolazione delle opere di Lutero, che si potevano trovare nelle botteghe dei librai sin dal 1520. La città non fu solo un ambito di intensa circolazione ma anche un luogo d’edizione privilegiato dei principali testi attraverso i quali le idee della Riforma penetrarono in Italia. (si veda più estesamente, a tal proposito, in ERETICOPEDIA - Mediterranean Digital & Public Humanities, il testo di Daniele Santarelli Riforma protestante nella Repubblica di Venezia)
[a. m.] Il 19 ottobre 1866 a Venezia si compì l'atto di consegna formale della città lagunare e del Veneto da parte dell'Austria al Regno d'Italia, attraverso l'intermediazione della Francia. Il risultato era il frutto dell'alleanza militare stretta con la Prussia.
Come sede per espletare le procedure ufficiali, il generale Edmond Le Boeuf, rappresentante di Napoleone III, ritenne opportuno usare - invece della prevista sala del Maggior Consiglio in Palazzo ducale - Ca' Giustinian sul canal Grande, che all'epoca ospitava l'hotel Europa dove egli alloggiava, e così concentrare tutte le varie consegne in un unico evento e luogo, senza lasciare lunghi intervalli di tempo tra un passaggio di potere e un altro(1). Con Le Boeuf erano riuniti il generale Karl Möring, commissario dell'imperatore d'Austria nel Veneto, il generale italiano Paolo Emilio Thaon di Revel, la municipalità di Venezia, la commissione incaricata di ricevere il Veneto, il console generale di Francia M. de Surville e M. Vicary.
Möring dapprima consegnò a Le Bœuf la piazzaforte di Venezia, che il rappresentante francese rimetteva nelle mani della municipalità cittadina e degli assessori Marcantonio Gaspari, Giovanni Pietro Grimani e Antonio Giustiniani Recanati; a seguire consegnò l'ex Regno Lombardo-Veneto sempre al rappresentante francese che "riconsegnò" il Veneto a Luigi Michiel e Edoardo De Betta, rappresentanti rispettivamente di Venezia e Verona, scelti su suggerimento di Thaon di Revel(2).
La guarnigione austriaca aveva iniziato l'abbandono della città di Venezia già dalla notte del 18 ottobre. I primi reparti si erano imbarcati sui bastimenti del Lloyd triestino di navigazione e il resto della truppa era raccolta, in attesa dell'imbarco, sul Lido. Lo sgombero da Venezia completava la serie di altre consegne ufficiali di fortezze e città da parte dei francesi alle autorità locali, seguite dall'ingresso delle truppe italiane: Borgoforte l'8 ottobre, Peschiera del Garda il 9 ottobre, Mantova e Legnago l'11 ottobre, Palmanova il 12 e Verona il 15.
Firmata la riconsegna di Venezia, Michiel fece issare il tricolore sui pennoni di piazza San Marco, salutato da salve di artiglieria, e con il generale Thaon di Revel e gli assessori accolse alla stazione ferroviaria le truppe italiane, pronte secondo gli accordi ad entrare nella città. Suddividendosi in tre cortei ciascuno preceduto da una banda civica, sfilarono attraverso una città in festa, pavesata di tricolori, e confluirono in piazza San Marco, il primo e il secondo rispettivamente lungo la strada di Cannaregio e dei Tolentini, il terzo navigando su barconi lungo il Canal Grande(3).
Il giorno stesso, 19 ottobre, la Gazzetta Ufficiale pubblicava il decreto per il plebiscito(4) - emanato già dal 7 ottobre, ad insaputa dei Francesi, che stavano iniziando la consegna alle autorità locali delle fortezze e delle città non più assoggettate agli austriaci - che aveva indetto le votazioni per i giorni 21 e 22 ottobre. Dopo lo spoglio delle urne dal 23 al 26 nelle varie circoscrizioni, il 27 il tribunale di appello di Venezia, riunito in seduta pubblica, avrebbe sommato i dati e comunicato i risultati al Ministero della giustizia a Firenze (all'epoca capitale d'Italia) e una deputazione di notabili sarebbe partita per portare i risultati al re.
La breve ma sanguinosa guerra austro-prussiana del 1866 si era conclusa con la sconfitta dell'Austria nella decisiva battaglia di Sadowa (3 luglio 1866) e l'armistizio di Nikolsburg del 26 luglio. La conseguente pace di Praga del 23 agosto già prefigurava come il Regno d'Italia - nonostante non fosse uscito anch'esso vincitore sui campi di battaglia(5) - avrebbe potuto acquisire il Veneto, per la cui liberazione dal dominio asburgico aveva stretto l'alleanza militare con la Prussia nell'aprile dello stesso anno ed era entrato in guerra contro l'Austria.
L'Austria si rifiutava di fare una cessione diretta dei territori residui del Regno Lombardo-Veneto all'inviso rivale, ma si piegava a cederli alla Francia, nell'intesa che Napoleone III li consegnasse a Vittorio Emanuele II dopo una consultazione di conferma della volontà popolare, organizzata in quegli stessi territori. La forma del trattato provocò contrarietà nel re e nel governo italiani, soprattutto per la "provocatoria" clausola restrittiva che subordinava l'annessione del Veneto ad un plebiscito.
Le condizioni della consegna finalmente stabilite nel Trattato di Vienna del 3 ottobre 1866, concluso fra Austria e Italia, non cambiarono però il compromesso formale. Il preambolo ribadiva che l'imperatore d'Austria aveva ceduto il Regno Lombardo-Veneto all'imperatore dei francesi, il quale, a sua volta, si era dichiarato pronto a riconoscere la riunione del «Regno Lombardo Veneto agli Stati di Sua Maestà il Re d'Italia, sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate»(6). L'evacuazione del territorio ceduto dall'Austria sarebbe cominciata immediatamente dopo la sottoscrizione della pace, dal giorno dello scambio delle reciproche ratifiche del trattato. Non mancò neppure un insidioso permesso agli abitanti originari del territorio ceduto, che l'avessero desiderato, di trasferirsi - tempo un anno - con i loro beni negli stati che rimanevano sotto il dominio dell'impero austriaco, conservando quindi il loro stato di sudditi austriaci (articolo 14).
Note
Per saperne di più
Con l'adozione del calendario gregoriano, dal 4 ottobre si passò direttamente al 15 ottobre
Il calendario gregoriano - così denominato in onore di Gregorio XIII, il papa che il 4 ottobre 1582 con la bolla Inter gravissimas lo fece adottare a quella parte di cristianità che era fedele a Roma - prevedeva un nuovo sistema di calcolo per correggere l'errore del previgente calendario giuliano che - basandosi su una durata media dell'anno di 365 giorni e 6 ore (la media di tre anni di 365 giorni e uno bisestile di 366), circa 12 minuti più della durata dell'anno solare medio - aveva accumulato circa un giorno di ritardo ogni 128 anni rispetto al trascorrere delle stagioni.
Tra il 325, anno in cui il Concilio di Nicea stabilì la regola per il calcolo della Pasqua, e il 1582 si era ormai accumulata una differenza di circa 10 giorni. Questo significava, ad esempio, che la primavera, in base alle osservazioni astronomiche, non risultava più cominciare il 21 marzo, ma già l'11 marzo. Quest'incongruenza era molto grave in ambito cattolico, in quanto venivano spesso a cadere nella data sbagliata sia la Pasqua, il cardine dell’anno liturgico, che sarebbe dovuta coincidere con la prima domenica dopo il plenilunio di primavera, sia i periodi liturgici collegati ad essa, cioè la Quaresima e la Pentecoste.
Per recuperare i dieci giorni perduti si stabilì che il giorno successivo al 4 ottobre 1582 fosse direttamente il 15 ottobre e, per evitare interruzioni nella settimana, si convenne che il 15 ottobre fosse un venerdì, dal momento che il giorno precedente, il 4, era stato un giovedì.
Il calendario gregoriano fu adottato da molti stati cattolici, ma non tutti si uniformarono immediatamente (come gli stati italiani e il Portogallo). Altri si presero un po' di tempo. La Francia lo accettò a fine anno, nel mese dicembre. In date diverse nell'arco dei cinque anni successivi (1583-1587) aderirono i Paesi Bassi cattolici, l’Austria e la Baviera, la Boemia e Moravia e cantoni cattolici della Svizzera, la Polonia, l’Ungheria. Anche i paesi che adottarono il calendario gregoriano successivamente dovettero stabilire un analogo "salto di giorni" per riallinearsi.
A proposito della Repubblica Veneta, si può qui ricordare che l'introduzione del calendario gregoriano non aveva stravolto l'uso ufficiale e il capodanno veneto, fissato il 1º marzo (com'era nel calendario giuliano), rimaneva quindi una festività ufficiale della Serenissima Repubblica. Nelle date dei documenti si ovviava a possibili fraintendimenti affiancando la dicitura latina more veneto, ossia "secondo l'uso veneto". Una data generale come 27 febbraio 1720 corrispondeva al 27 febbraio 1719 more veneto, in quanto l'anno 1720 sarebbe iniziato in Veneto solo a partire dal mese seguente. Il 1° marzo 1720, invece, era tale sia secondo il calendario gregoriano sia more veneto.
I paesi protestanti resistettero inizialmente al nuovo calendario "papista" e vi si adattarono solo in epoche successive: gli stati luterani e calvinisti nel 1700, quelli anglicani nel 1752, quelli ortodossi ancora più tardi. Le Chiese ortodosse russa, serba e di Gerusalemme continuano tutt'oggi a seguire il calendario giuliano: ciò spiega il persistere della differenza attuale di 13 giorni tra le festività religiose "fisse" ortodosse e quelle delle altre confessioni cristiane.
Per quanto riguarda i paesi non cristiani, in Giappone fu adottato nel 1873, in Egitto nel 1875, in Cina nel 1912 e in Turchia nel 1924. Interessante perché travagliato fu il processo di introduzione da parte della Svezia (dal 1699 al 1753) e quello nell'Unione Sovietica, che dapprima lo recepì nel 1918, poi lo modificò - sull'individuazione degli anni bisestili - a favore di un proprio Calendario rivoluzionario sovietico (1923), infine abbandò quest'ultimo già nel 1940 per tornare al calendario gregoriano.
Premiata Forneria Marconi - Impressioni di Settembre Live in Japan 2002 | youtu.be/s9jrgvnIwCc
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[a. m.] Ottobre 1971, poco meno di mezzo secolo fa: usciva il primo singolo a 45 giri del gruppo musicale italiano Premiata Forneria Marconi. Sul lato A portava La carrozza di Hans, sul lato B Impressioni di settembre.
La scena rock italiana accolse bene il primo brano, anche perché, prima di inciderla su disco, la PFM aveva presentato la versione originale di La Carrozza di Hans, lunga quasi dieci minuti, al 1° Festival di musica d'avanguardia e di nuove tendenze (27 maggio - 2 giugno 1971), nella pineta di Lagomare, a Torre del Lago, vicino a Viareggio in Versilia, e si era classificata prima a pari merito con Mia Martini (Padre davvero) e gli Osanna (cfr. Osanna, L'uomo, 1971 | youtube.com/cAWQVkLyv3A | youtube.com/XzZ2oh1aBno). Ma fu il secondo brano Impressioni di settembre (4:20 - Mussida, Mogol, Pagani) - in cui viene utilizzato per la prima volta in Italia il moog, strumento simbolo del rock progressivo di quegli anni - non solo a diventare uno dei cavalli di battaglia del gruppo, ma ad imporsi anche come pietra miliare della musica italiana riproposta in nuove versioni da molti altri artisti (Battiato, Antonella Ruggiero, i Marlene Kuntz, Francesco Renga, Ghibli, Dargen D'Amico, Gigi D'Agostino, gli Epica ...).
«Settembre, andiamo. È tempo di migrare». Anche a chi non sopportasse D’Annunzio può piacere l’icasticità del verso che inizia I pastori, l’evidenza rappresentativa con cui è ritratta la transumanza verso le pianure dove passare la stagione invernale, ma anche per le risonanze simboliche di un’erranza esistenziale che è di tutti. Erano i pastori d’Abruzzo, ma quei pastori siamo anche ognuno di noi, allo stesso modo in cui siamo quell’altro primitivo nostro alter ego, il «pastore errante dell'Asia» del leopardiano Canto notturno.
Settembre è transizione del corpo e dell’anima, stagione che ci sospinge fuori dell’euforia estiva al lento ritrarsi invernale, alle riprese, al ritorno ai ritmi consueti, oppure a stacchi netti, a nuovi inizi. Comunque a rivolgere lo sguardo a sè, a raccogliere silenziosamente i pensieri e i bilanci.
La più bella ripresa per l’anima settembrina è musicalmente Impressioni di settembre (1971) della band rock progressive “Premiata Forneria Marconi” - "i Genesis italiani" - allora composta da Franz Di Cioccio, il batterista, Franco Mussida, il chitarrista, Flavio Premoli, il tastierista, Giorgio “Fico“ Piazza, il bassista. Merita di essere chiamata alla storia dopo quasi mezzo secolo dalla composizione, insieme con il suo testo, scritto da Mauro Pagani in collaborazione con Mogol, connubio tra immagini naturali e suggestioni sonore, quasi esperienza panica, totalizzante, di rapporto col mondo.
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Fonte: rollingstone.it/musica/la-guida-definitiva-agli-album-della-pfm
Domenica 4 ottobre, in occasione della Giornata Nazionale 2020 Case della Memoria, l'Atelier Tulllio Vietri (via Saragozza 135, Bologna) sarà aperto con ingresso gratuito dalle ore 10,00 alle 13,00 e dalle 14,00 alle 18,00 (si consiglia di prenotare: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).
Anche Venerdì 2 ottobre (dalle ore 18,30 alle ore 21,00) sarà occasione speciale per l'Atelier Tullio Vietri che apre la porta ad amici, conoscenti e amanti dell'arte per raccontare, con le parole della figlia Silvia, un percorso artistico che ha attraversato più di cinquantanni di storia dell'arte, di cultura, di impegno civile (si consiglia di prenotare: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)
L’Atelier Tullio Vietri è l’ultimo studio in cui tra 1995 e 2008 il pittore ha lavorato e raccolto la più parte delle sue opere, ad eccezione della collezione privata della famiglia. Ora è proprio la collezione privata che ha trovato spazio all’interno dell’atelier, dopo che nel 2017 i dipinti e la grafica che vi erano collocati sono stati acquisiti, insieme a libri e archivi, dal Comune di Oderzo città natale dell’artista e, per sua volontà testamentaria, custode della sua opera.
L’atelier - casa della memoria – rimane come testimonianza di un’esperienza umana artistica e culturale che a Bologna è maturata in lunghi anni di studio e di attività. E vuole essere a fianco del Comune di Oderzo nell’impegnativa opera di valorizzazione dell’opera artistica e culturale di Vietri, tenendone viva la memoria tra quanti lo hanno conosciuto, contribuendo a diffonderne la conoscenza a pubblici più ampi e giovani, sollecitando l’interesse della critica.
La mostra è stata prorogata ed è tuttora visitabile, dopo la chiusura a causa delle misure restrittive anti-convid.
Presso Palazzo Foscolo e il Museo Archeologico di Oderzo è allestita la mostra archeologica "L'anima delle cose - Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium", sei secoli di storia, dal I al VI d.C., raccontati in un viaggio attraverso reperti inediti, alla scoperta dell'antica Opitergium e dei suoi abitanti.
Sono presentati, per la prima volta, in una visione d'insieme, alcuni tra i corredi più belli e significativi, rinvenuti nelle indagini archeologiche che, a partire dagli anni Ottanta, hanno interessato il centro di Oderzo portando alla luce importanti evidenze dell'antica città romana e rivelando il glorioso passato dell'abitato.
Nelle Collezioni digitali PHAIDRA è disponbile anche l'Archivio delle Edizioni Ca' Foscari che mette on line i propri libri e riviste. Si può da qui consultare e scaricare in formato pdf anche il catalogo pubblicato a corredo della mostra "L'anima delle cose". Il volume si compone di una serie di saggi che focalizzano sviluppo, topografia e ritualità della necropoli opitergina, cui fanno seguito 94 schede relative ad altrettanti corredi funerari databili tra I e VI secolo d.C.
Apertura, visite e prenotazioni
«Eating is an agricultural act» (mangiare è un atto agricolo). L'assunto di Wendel Berry [1], il poeta contadino del Kentucky, ispira anche Danilo Gasparini[2] nell'unire e mescolare diversi suoi saggi ripresentati nel volume appena edito Dalla campagna alla tavola. Sistemi alimentari della Terraferma veneta in età moderna (Cierre edizioni, 2020). Così raggruppate e offerte alla rilettura, le ricerche dedicate dal docente ai vari sistemi alimentari del mondo contadino nelle stagioni che vanno dall’età moderna agli albori del Novecento sono la conferma che dietro e insieme ai mangiari, poveri o sontuosi, fatti di polenta ma anche di pernici, stanno paesaggi, sistemi colturali e soprattutto rapporti sociali ben determinati, le terre patrizie e quelle dei mezzadri, dei braccianti, dei pastori, dei vignaioli, intere generazioni che hanno fatto e disfatto i paesaggi per nutrirsi e nutrire le città.
Note
Alle stesse tematiche è dedicato anche un volume curato per Legambiente da Moreno Baccichet sul paesaggio agrario del Friuli Occidentale:
Museo di Santa Caterina / Treviso
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