In questa scenetta, Gaetano Zompini[1] raffigura due nobili che stanno aspettando le frittelle calde, che una giovane popolana sta preparando, usando un’enorme fersora, ossia una padella[2]. Un ragazzino infila le frittelle pronte su un lungo stecco di legno.
Una scena molto simile (un nobile che acquista le fritole da regalare a due belle fanciulle, infilzate su uno spiedo e donate come un mazzo di rose) fu dipinta, intorno al 1750, da Pietro Longhi, abile ritrattista della vita quotidiana del ‘700, in particolare del ceto aristocratico.
Leggiamo subito la "scena veneziana" (datata 1841) del nobile Pietro Gaspare Moro Lin:
«A Venezia da tempo remotissimo si usa certo dolce mangiare che appellasi fritole. Esse compaiono per tutto ove è festa, e nella quadragesima in ispecieltà si vendono per tutti quasi li campi, poiché li Viniziani non vogliono vedere diserta di fritole la lor mensa quaresimale. Composte di fiore di farina di formento, rimpastate a lievito unito a pignoli e a zucchero, con uva che pendeva dai tralci delle vite calabre, vengono coliate nell’oglio bollente. La fabbrica in cui si fanno è una trabacca, che per assomigliare a quella militare le manca soltanto la tela che serve di padiglione. Questa invece ha il coperto od il tetto di tavole compaginate e messe a piovere. Quadrangolare ha la forma, ed internamente presenta la figura di una stanza. Essa è il Palladio delli fabbricatori che stanvi dentro, i quali da una parte rimpastano e dall’altra friggono in una padella sovrapposta ad un tripode. Il davanti è propriamente il luogo della mostra solenne, e questa mostra dà un quadretto piacevole assai a riguardarsi. Immaginatevi adunque una tavola su cui appoggiano certi piattelloni di peltro, o di stagno lucidissimi, ed internamente con molto gusto disegnati. Alcuni di questi son vuoti, e posti perpendicolarmente sulla suddetta tavola per solo ornamento, altri contengono i pignuoli, le uve, altri finalmente capiscono il dolce mangiare, vogliam dire le viniziane frittole belle ed apparate per colui che ne va ghiotto, e fra uno e l’altro piatto veggonsi pani di zucchero. I principali cuocitori sono notissimi in Venezia, e, superbi di questo lor primato, vollero che sul laboratorio, a distinzione degli altri, s’innalzasse un’asta, avente in cima un cartellone in cui stesse scritto il loro nome; modo laconico ed espressivo assai, imperocché significa: Noi siamo maestri dell'arte, ed abbiamo diritto di essere riveriti sovra gli altri amministrator di frittelle. Hanno essi sempre in sul davanti un pannollino che s’assomiglia al grembial delle donne, che sembra esser venuto allora fuori dal bucato. Tengono in mano un vasetto bucherellato con cui gettano del continuo zucchero sulla merce, ma con tale atto che e’ pare vogliano dire: e chi non sente l’odore, ed il sapore di queste che noi inzuccheriamo? Eglino in questa guisa si mostrano presso la lor panca e loro è tanto andata a china la fortuna del professore che si vedono onorati, non che dalla comun gente, sì ancora dalla civile ed educata, la quale va a pigliare a frotta a frotta le frittelle per avere un saggio di loro bravura».
Guerre per rivendicare la primogenitura della fritola e della sua ricetta – anche se da secoli, almeno dal Cinquecento, è un dolcetto tipicamente ed eminentemente veneziano e veneto – è inutile farne.
Se non si vuol accettar antenati fuor di patria, anche per le frittelle – come per altre specialità tipiche della penisola italiana – per prima cosa si possono cercare tracce di origini in epoca romana antica. Farebbero al nostro caso in questo senso i globulos (globi), bocconcini di forma sferica preparati durante la celebrazione dei Saturnalia impastando semola di grano duro e formaggio, cotti nel grasso e conditi con miele e semi di papavero.
Ne troviamo la ricetta Globulos sic facito (“I globi si fanno così”) nel trattato De Agri cultura (o De re rustica) di Marco Porcio Catone il Censore (III sec a.C.):
Oppure sono imparentate con i frictilia elencati da Marco Gavio Apicio (I sec. d. C.) tra i dulcia domestica (“dolcetti fatti in casa”) nella raccolta di ricette De re coquinaria ("L’arte culinaria"):
Di frittelle greche sappiamo che si chiamavano enkrís (ἐγκρίς) quando erano cotte nell’olio oppure melitoùtta (μελιτοῦττα) o maza (μάζα) quando erano cotte nello strutto, e in ogni caso si consumavano cosparse di miele.
Ma, dai globuli e dai frictilia romani-antichi alle fritole veneziane quattro-cinquecentesche, quanti salti ci possiamo immaginare ancora?
Fuor di patria, qualche ricercatore individua due specialità appartenenti alla cucina arabo-persiana, quali la Zelabia e la Zelabia alia (“un’altra zelabia”), trasmesse ai veneziani attraverso le ricette del trattatello Liber de ferculis et condimentis (“Libro delle vivande e dei condimenti”), scritto a Venezia da Giambonino da Cremona[3], un estratto in traduzione latina del Cammino della spiegazione di tutto ciò che l’uomo utilizza (Minhaj al-Bayan fi ma yasta ‘miluhu al-Insan[4]), enciclopedica opera dietetico-gastronomica di Ibn Jazlah, un medico iracheno, nato cristiano e convertitosi all’Islam, vissuto a Bagdad nella seconda metà dell’XI secolo, autore anche di un precedente Tacuinum aegritudinum et morborum, secondo la più accessibile traduzione latina del medico ebreo siciliano Faraj ibn Sālim nel 1280.
La prima si confeziona così:
L’altra così:
Tornando in patria, come “ricetta matrice” della fritola si potrebbe addurre quella per la preparazione di frittelle bianche, composte da un impasto lievitato di latte di mandorle e farina, suddiviso in piccole palline da friggere e cospargere di zucchero, che si legge in un manoscritto anonimo del XIV secolo (elaborazione in veneziano di un Anonimo toscano) contenente oltre un centinaio di ricette, conservato nella Biblioteca Nazionale Casanatense di Roma[5]:
A ben vedere una ricetta rimasta quasi invariata nel corso dei secoli, con aggiunta di modifiche fino a quelle degli odierni panifici e pasticcerie riguardo al ripieno: fritole con e senza scorzette di limone o d’arancia, pinoli, uvette, grappa o rum, con crema pasticcera, zabaione, crema di mele, cioccolato o pistacchio…
Le influenze a Venezia si fanno definitivamente riconoscibili lungo il Cinquecento. Nel volumetto Interpretatio arabicorum nominum (“Interpretazione di nomi arabi”) stampato a Venezia nel 1527 il medico bellunese Andrea Alpago, inviato a esercitare l’arte medica presso la comunità veneziana di Bagdad, trattando i termini Alzelabia, Alzelabi e anche Zelabile – tra diversi nomi relativi alla medicina, a prodotti vari, a cibi e specialità gastronomiche – spiega che «Az- zilābiyà», la «pietanza di pasta molto tenera a forma di luna, che viene fritta nell’olio, quindi mangiata con miele o zucchero», molto diffusa in Egitto e in Siria, di cui si parla nel citato libro Minhaj al-Bayan, è chiamata “frittola” presso gli abitanti dell’Italia.
Finalmente, testimonianza certa e autorevole è la ricetta rinascimentale della “frittella alla veneziana” inserita nell’Opera (edita a Venezia nel 1570) di Bartolomeo Scappi, “maestro nell’arte del cucinare”, cuoco di cardinali e di papi (Pio IV e Pio V).
Nel Seicento, nella città lagunare il consumo di frittelle divenne così diffuso e gradito da non poter essere soddisfatto dalla semplice produzione domestica e la preparazione e la vendita divennero appannaggio di veri e propri “maestri fritoleri”, sparsi per la città. Alcuni erano ambulanti, altri – più ricchi – disponevano di baracchini di legno al cui interno, indossando un tradizionale ampio grembiule bianco, lavoravano l’impasto su grandi tavole di legno e friggevano le frittelle in olio o burro in ampie padelle poggiate su tripodi. Sulla parte anteriore del barachin erano lasciati sempre in bella mostra gli ingredienti usati (come farina, uova, mandorle, pinoli e cedro candito) a scopo coreografico e a dimostrazione ai clienti dell’effettiva qualità, ed erano esposte con cura sopra piatti di peltro o stagno finemente decorati le frittelle appena cotte, spolverate di zucchero[7] con un vasetto bucherellato con studiati gesti teatrali, spesso infilzate su uno spiedo, in modo da poterle mangiare calde senza scottarsi le dita[8]. Fieri della propria opera, amavano farsi identificare da un’insegna con inciso il proprio nome.
Diventata la vendita di fritole un fattore economico redditizio, per salvaguardare la loro “arte” (ed i loro affari), regolando rigidamente il mestiere, i fritoleri costituirono nel 1619 una precisa corporazione con tanto di mariegola e specifica insegna, il cui luogo di ritrovo fu dapprima in un edifico vicino a S. Simeon Piccolo, poi dal 1743 nella chiesa della Maddalena, sotto il patronato della Beata Vergine Annunziata, nei pressi della Ca’ d’Oro. Con tale capitolare (statuto conservato all’Archivio di Stato di Venezia) ad ognuno dei 70 componenti venne assegnata e garantita una specifica zona della città in cui esercitare il mestiere, riservato solo ai veneziani, ed il diritto di trasmettere la professione (e le relative prerogative) ai propri figli, in mancanza dei quali, il gastaldo (cioè il capo delle singole arti) provvedeva a nominare un successore, che doveva poi essere approvato dalla magistratura[9].
Nella Repubblica Serenissima questi dolci tanto amati conobbero l’apogeo del successo nel XVIII secolo, quando furono proclamati Dolce nazionale dello Stato Veneto e la loro popolarità si allargò definitivamente alle regioni limitrofe che iniziarono ad assumere questa usanza durante i giorni del Carnevale.
Non è il caso di soffermarsi sulle differenti tradizioni nella preparazione delle fritole anche nella stessa Venezia, è però più di una curiosità citare la versione ebraica cucinata nel ghetto della città, ancora oggi consumata durante la festa del Purim (che si celebra nel 14° giorno del mese ebraico di Adar) nota anche come Carnevale ebraico o “Festa delle sorti”[10].
Quella dei fritoleri fu un’istituzione decisamente fortunata, tanto da rimanere in attività per più di duecento anni fino alla fine del XIX secolo ed essere celebrata da artisti e letterati famosi, che forse contribuirono anch’essi alla rinomanza della fritola.
Ne sono esempi il dipinto La venditrice di fritole di Pietro Longhi, del 1755, oggi custodito all’interno di Ca’ Rezzonico, o l’Insegna dell’arte dei Frittoleri attribuito a Gaetano Zompini, datato 1784, ospitato al Museo Correr. Di Zompini abbiamo già citato e riprodotto in apertura anche l'incisione La venditrice di frittelle inserita nella sua raccolta Le arti che vanno per via nella città di Venezia, 1753.
Anche Carlo Goldoni ci consegna una memoria di questo orgoglio di categoria ne Il campiello, (del 1756). La protagonista, Orsola, è una fritolera e, nell'Atto primo, scena 1, dove alcune donne litigano sui propri meriti, rivendica la propria profession
La ricetta | cucchiaio.it/ricetta/ricetta-fritole
Ripropongo un post dell'anno scorso - tra storia, arte e leggenda - per la "piccola estate di san Martino" di questi giorni («L’istà de San Martin dura tre dì e un pochetin») ...
«Far San Martin». In una società non più prevalentemente agricola e povera, l'espressione ha quasi perso significato, ma fino agli anni sessanta del Novecento rappresentava ancora un'esperienza patita con sofferenza dalle famiglie contadine e uno spettacolo struggente anche per chi osservava i loro forzati traslochi. L'usanza era atavica. Il quadro del pittore cremonese Vincenzo Campi, Il sanmartino, ritrae uno di questi traslochi nell'ultimo quarto del Cinquecento.
Nel calendario rurale l'11 novembre, ricorrenza di San Martino, faceva da spartiacque tra un'annata agraria, dopo la semina, e la successiva. Quando i contratti di mezzadria o affittanza venivano sciolti, segnava il termine ultimo per lasciare il fondo e il casolare. La disdetta, ricevuta solitamente a maggio, in anticipo di un semestre sulla scadenza, costringeva il capofamiglia all'ansiosa ricerca di un nuovo contratto e una nuova sistemazione nello stesso comune o, al più, tra paesi vicini - se questa riusciva - senza sicurezza di conservare o migliorare le condizioni lavorative e abitative che abbandonava.
Ernesto Sparago e Agostino Taboga hanno presentato sabato 11 settembre, all'interno degli appuntamenti del Terzo Festival Luchesi 2021, a Motta di Livenza, i primi due volumi della loro ricerca storica, codicologica e musicologica "Andrea Luchesi, il Kapellmeister di Ludwig van Beethoven", che intende analizzare criticamente e divulgare l'opera superstite del musicista di origini mottensi.
La prima pubblicazione (2020) è dedicata alle tre arie del repertorio luchesiano fino ad ora sconosciute, non identificate o, addirittura, disattribuite; la seconda (2021) alle sonate per tastiera, scritte tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60 del Settecento; la terza - in corso di composizione - avrà per oggetto i concerti.
La serata con la presenza dei due autori ha avuto il suo punto di forza e di estremo interesse nella limpida esemplificazione dei brani musicali analizzati attraverso la loro esecuzione al pianoforte per mettere in evidenza le caratteristiche compositive luchesiane appena illustrate e confrontarle con la musica attribuita ad altri autori (anche altisonanti) che si potrebbe ritenere di Luchesi stesso o da lui fortemente influenzata.
Non quindi la celebrazione di una gloria locale, o la recriminazione di non poter dimostrare il valore di Luchesi a causa della perdita di quasi tutta la sua opera, ma una sfida - a partire dalla sua musica superstite (forse non più dell'un per cento del totale stimabile) per intendere consapevolmente un'esperienza musicale che - se oggi patisce ancora la dispersione o la dimenticanza - non era inferiore ad altre "consacrate" nel suo secolo.
Il collaborazione con Provincia di Treviso, CGIL Treviso e La Tribuna, l'ISTRESCO (Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana) ha appena stampato Squadristi veneti all’assalto di Treviso. 12-14 luglio 1921, a cura di Lucio de Bortoli e Amerigo Manesso, con un'introduzione di Ernesto Brunetta.
La nuova pubblicazione è accompagnata da una presentazione (lunedì 12 luglio 2021, presso la loggia dei Cavalieri a Treviso) e dalla rievocazione storica degli eventi di un secolo fa (martedì 13 in Prato della Fiera) con la compagnia Metàz Teatro e la cantautrice Erica Boschiero che metteranno in scena la rappresentazione teatrale dell’assalto, in particolare di quello a Fiera con la resistenza degli abitanti (tratta dal libro “Assalto a Treviso – La spedizione fascista del 13 luglio 1921” di Francesco Scattolin).
Video | facebook.com/CgilTreviso/videos/343326410627468
Il libro sarà disponibile in allegato con Tribuna da martedì 13 luglio in edicola al prezzo di 13 euro invece di 22 + il prezzo del quotidiano.
Politica e memoria di Lucio De Bortoli e Amerigo Manesso (Introduzione al libro Squadristi veneti all’assalto di Treviso. 12-14 luglio 1921)
La spedizione a Treviso del 13 luglio 1921 è stata uno dei capitoli più rilevanti dello squadrismo fascista a livello nazionale. Lo è stata per numero di partecipanti, capillarità dei fasci coinvolti e capacità organizzativa. Lo è stata anche sotto il profilo strategico, come cerchiamo di dimostrare.
Un‘azione studiata sin nei minimi particolari, persino attraverso il rastrellamento dei mezzi militari ancora presenti sul Grappa – particolare già di per sé inquietante e rivelatorio – e che si è svolta mettendo a nudo non solo la totale impotenza delle autorità preposte alla pubblica sicurezza e alla difesa della legalità, ma anche forme di connivenza, se si enumerano i provvedimenti non assunti dal prefetto Pietro Carpani al quale erano pervenute le informative della prefettura di Padova su quanto si stava predisponendo.
Non è qui il caso di entrare nei dettagli a cui sono dedicati i saggi di apertura, se mai di sottolineare alcune singolarità.
La prima è di ordine politico. Nella stragrande maggioranza dei casi, come è a tutti noto, lo squadrismo fascista aveva nel mirino il mondo socialista: partito, organizzazioni, sedi, leghe e cooperative per l’evidente ragione che i socialisti avevano avuto, nelle diverse tornate elettorali (politiche e amministrative) precedenti, un grande successo. In subordine, l’onda squadrista si scagliava anche contro le leghe bianche della Pianura padana e il Partito popolare. A Treviso, a questi bersagli tradizionali, si aggiunse quello che sul piano locale stava diventando un problema ancor più grosso, vale a dire il protagonismo e il successo di Guido Bergamo e dei repubblicani trevigiani, rei di pescare in un bacino elettorale affine a quello fascista. Bergamo, per la verità, attingeva anche negli altri partiti di massa, ma ciò divenne persino un’aggravante, perché consentiva ai fascisti di affiancare al tradizionale epiteto di “traditore” o di “maddaleno” anche quello di “socialista”. Colpire Bergamo significava, peraltro, anche lanciare un esplicito messaggio all’amministrazione laica della città guidata dal sindaco Levacher.
Un’ulteriore valenza politica alla vicenda di Treviso è data dal fatto che rende evidenti le conflittualità interne al movimento dei fasci nel quale la leadership di Mussolini, proprio in quelle settimane di trattative per la pacificazione con i socialisti, tenta di imporsi sui ras locali come Marsich e Marinoni. L’operazione squadrista indica quale linea, quali alleanze e quali strategie finiranno per prevalere nel giro di pochi mesi.
La seconda singolarità è invece di ordine culturale e conferma, una volta di più, i percorsi tortuosi e non sempre lineari della memoria. In altri termini. Abbiamo pensato questo volume innanzitutto come un’antologia, una grande rassegna stampa. L’abbiamo pensato così perché l’Istresco aveva già editato, ormai vent’anni fa, l’ottima ricostruzione di Francesco Scattolin, ma soprattutto per porre in evidenza come un evento capace di produrre nel presente di allora una sterminata mole di articoli – la nostra è solo un’antologia e come tale una selezione – ha poi subito un pressoché totale processo di rimozione e ben al di là del ventennio fascista. Non è infatti un mistero per nessuno che sui quei fatti, anche in età repubblicana, sia sceso un oblio che, nella migliore delle ipotesi, va ascritto ad una progressiva e fatale disattenzione. Resta il fatto che in centro città non c’è nulla che testimoni e dia conto di quanto accaduto, fatta eccezione per un’intitolazione viaria piuttosto generica.
Questo volume offre la possibilità di prendere visione del dibattito politico di allora, restituisce i diversi gradi di comprensione degli eventi e fornisce criteri idonei per indagare lo scarto che separa, ma nello stesso tempo rende inscindibili, la cronaca e la storia.
Pensiamo inoltre, che da questa rassegna, che dà conto delle voci coinvolte, possa rigenerarsi un processo memoriale rimasto troppo a lungo e colpevolmente inerte. Si tratta di riconsiderare in che modo, dopo aver attraversato la lunga stagione del totalitarismo, siamo approdati all’oggi. Ogni approdo si raggiunge attraverso una navigazione. E se l’approdo è l’esercizio della democrazia, la navigazione è la consapevolezza e il progressivo ripudio della pratica della violenza. | Fonte: facebook.com/Istresco/
Collegati on line: associazionebancariaitaliana.webex.com
L’Università di Trieste sta sostenendo un progetto editoriale, Rei Nummariae Scriptores, diretto da Bruno Callegher e Filippo Carlà-Uhink, che mira a "ripensare la moneta" attraverso il confronto con opere della tradizione occidentale pre-industriale (di autori poco conosciuti o mai editi in Italia), in traduzione moderna e con un apparato critico che consente al lettore una riflessione di ben più ampio respiro economico e politico.
Al Trattato di Oresme e al progetto dell'Università di Trieste è dedicata una presentazione online mercoledì 30 giugno a partire dalle ore 10 a cui ci si può liberamente collegare dal seguente link: associazionebancariaitaliana.webex.com
Il volume Nicole Oresme. Tractatus de origine, natura, jure et mutationibus monetarum. Analisi introduttiva, trascrizione, traduzione e apparato critico a cura di Tommaso Brollo e Paolo Evangelisti, Edizioni Università di Trieste, 2020, e gli altri testi della collana Rei Nummariae Scriptores, si possono scaricare in formato pdf al seguente indirizzo: openstarts.units.it/handle/10077/30852
Come si arrivò formalmente alla proposta, approvazione e infine promulgazione della legge che sanciva la proclamazione di Vittorio Emanuele II a Re d’Italia? Eccone il sintetico iter.
Simonetta Fiori, Emilio Gentile: «Senza memoria, l'unità nazionale è in pericolo», «repubblica.it», 17/3/2021
Fonte: rep.repubblica.it/.../robinson/emilio-gentile-compleanno-d-italia-risorgimento
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Corrado Augias, A che punto è l’Unità d’Italia, «repubblica.it», 11/3/2021
Fonte: rep.repubblica.it/.../a-che-punto-e-l-unita-d-italia
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Abel de' Medici, Il Risorgimento: il tortuoso processo verso l’Unità d'Italia, «Storica / National Geographic», 25/1/2021
Fonte: storicang.it/.../il-risorgimento-il-tortuoso-processo-verso-lunita-ditalia
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17 marzo 1861: nasce il Regno d'Italia, «focus.it» | focus.it/cultura/storia
L'Unità d'Italia era fatta, ma per gli italiani del Risorgimento la conquista di un'identità nazionale fu un processo lento: come e quando siamo diventati "fratelli d'Italia"?→ LEGGI TUTTO →
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[a. m.] Sia il precedente carnevale (2020) sia quello attuale, con le restrizioni della quarantena antivirus, è come se non ci fossero (stati). La plurisecolare partita tra il Carnevale e la Quaresima non si gioca per due anni di fila. Così la quaresima vince facile, di fatto s'è presa anche il tempo del carnevale e senza carnevale è tutta quaresima. Quaresima-Quarantena poi sono sorelle gemelle, etimologicamente parlando. Nessuno stupore per la loro penitenziale alleanza.
A consolazione rivediamoci l'emozionante match ritratto nel 1559 da Pieter Bruegel il Vecchio. Quelli eran tempi!
Nella brulicante piazza di Anversa, in Belgio, "vista dall'alto" e dipinta con un'esplosione di dettagli sulle attività che si svolgono contemporaneamente, si scontrano grottescamente Carnevale (o Martedì Grasso) e Quaresima (o Frau Fasten, Signora Digiuno).
Nella scena in primo piano, agli elementi presenti sulla sinistra se ne contrappongono specularmente altri sulla destra di significato rovesciato.
A sinistra, un pingue e rubizzo macellaio (a dire dal coltellaccio che gli pende alla cintola) in camicia azzurra e calzamaglia rossa (colori dell'inganno e del peccato) cavalca un barile di birra rovesciato tirato da due ragazzi festanti, sul quale un secondo coltello tiene conficcata una coscia di maiale, e impugna per la tenzone uno spiedo con testa di porco, polli e salsicce infilzati e appeso un cotechino. Il barile poggia su una slitta azzurra, uguale alla barca che fa da insegna alla certo godereccia osteria “Al naviglio blu” (Dit is in d blau shut) [1].
Lo fronteggia una donna smunta e allampanata, di un pallore malaticcio se non cadaverico, dentro un frusto saio monacale, seduta su una carretta, che oppone a difesa a mo' di lancia una lunga pala da fornaio fornita di appena due aringhe (inconfondibile pietanza quaresimale dei giorni di digiuno e di astinenza dalle carni). Ha per copricapo un'arnia (anche il miele era alimento quaresimale) ed ha segnata in fronte una croce di cenere (secondo la pratica in uso il mercoledì delle Ceneri). Poggiati sulla carretta ci sono ancora altri alimenti di preparazione alla Pasqua: pani, Bretzeln, fichi in un canestro di giunco.
Due uomini in maschera spingono il Carnevale. Uno è vestito di giallo, nel medioevo colore dei giullari e per la rappresentazione di truffatori, imbroglioni, mentitori (come non avere davanti agli occhi la veste gialla di Giuda che dà il bacio a Gesù nel capolavoro di Giotto? [2]). Un frate e una monaca, invece, trainano la carretta della Quaresima tenendone la fune. Ognuno dei due combattenti ha dietro di sè o a lato la propria coda di degni officianti: a sinistra, con cibarie di carne, pane bianco, ciambelle dolci, bevande inebrianti, costumi burleschi, strumenti da musica e ballo, dadi e carte per giochi da bisca o da strada; a destra, ancora con un Bretzel e cialde salate, un cesto di cozze od ostriche, altre aringhe penitenziali, e, per musica, il suono secco e crepitante delle racole di legno [3] agitate da bambini e adulti, simmetriche al Rommelpot [4] (tamburo a frizione) rossastro suonato nel corteggio carnevalesco da un personaggio in mantello a fantasia nera che ne cava un suono cavernoso e lungo facendo vibrare tramite uno stecco la membrana forata che ricopre il recipiente in terracotta. Allo strepito del Rommelpot si somma il rumore emesso da una gratella e un coltello e da un paio di bicchieri strumenti usati dal giocoliere vestito in giallo.
Anche l'architettura contribuisce all'identificazione dei due gruppi: a sinistra un'osteria, a destra la chiesa.
I personaggi a sinistra sono intenti a mangiare, a bere e a rappresentare scene teatrali burlesche di strada, tipiche del festoso periodo carnevalesco, mentre a destra sono inscenate penitenze e mortificazioni, e personaggi abbienti elargiscono elemosine a ciechi, mendicanti e mutilati.
A sinistra, dai balconi dell'osteria si sporge un suonatore di cornamusa in atto di vomitare, più che sputare, e una coppia seminascosta è intenta ad amoreggiare; in strada si recita una farsa carnevalesca “La sposa sudicia” (Vuile Bruid), un matrimonio tra zingari [5].
Sulla via che arriva dalla parte alta del dipinto, sfila una processione di Mezzaquaresima [6], lasciandosi alle spalle un falò del fantoccio dell'inverno, acceso per ingraziarsi la speranza della stagione primaverile, [7] e sta entrando nella piazza una processione di mendicanti lebbrosi [Nota in preparazione] preceduti da un suonatore di cornamusa, mentre, accanto, dei ragazzi giocano intorno a un barile al “Re bevitore” [8] e si rievoca in maniera burlesca l'episodio (dal ciclo carolingio) dei due gemelli Ursone, l'uomo della foresta, e Valentin, il bel giovane. [9] Vicino alle botti accostate all'osteria, s'è formato perfino il corteo degli storpi, [10] capitanati da un Cruepelen Bischop (arcivescovo degli storpi) che s'è calcata una corona di carta in testa come una mitra e indossa un mantello adorno di code di martora.
Al centro - come luogo di "passaggio" dal Carnevale alla Quaresima - si erge intermedio un edificio, una panetteria. Sul davanzale del balcone, il fantoccio di pezza potrebbe essere un Butzemann [11], un caricaturale "babau-uomo nero" che serviva da ammonimento per chi trascurava le pulizie primaverili. Primaverile era anche l’antica usanza di rompere vecchie stoviglie come avviene nello spiazzo davanti alla panetteria.
Dalla chiesa escono in processione o vi fanno ritorno donne e uomini austeri, mesti e curvi, che indossano lunghi mantelli scuri da penitenti. All’interno un sacerdote, al confessionale, sta ascoltanto e assolvendo un peccatore e le statue coperte denunciano già l'imminente settimana santa.
Gli antagonisti Carnevale e Quaresima sono indubbiamente i personaggi-tema, ma un altro enigmatico terzetto, voltato di spalle e quindi imperscrutabile nei volti, si pone come fulcro della rappresentazione, quasi perfettamente al centro del dipinto (insieme al pozzo). È una coppia scortata da un giullare che regge una torcia. L'uomo sotto la veste bruna nasconde l'enorme rigonfiamento di una gobba sulla schiena. La donna, sorretta con sollecitudine dal braccio dell'accompagnatore, sembra totalmente docile alla mano che la sospinge. Porta abiti frusti e penitenziali e dietro le spalle le penzola una grande lanterna legata in vita, ma spenta. Intorno a loro non hanno nessuno dappresso. Sono incamminati verso una direzione, ma non è prevedibile quale. Spaesati, sembrano seguire solo la luce della torcia gestita dal giullare. Il costume che indossa reca i colori dell'inganno, il rosso e l'azzurro, e della follia, il giallo, e, nel panorama simbolico di Bruegel, ben potrebbe trattarsi del demonio stesso. Se, come alcuni interpretano, la coppia fosse l'allegoria (e la parodia?) delle due Chiese, Luterana e Cattolica, che hanno come propri campioni a battersi rispettivamente il Carnevale [12] e la Quaresima, potremmo leggervi - pur senza indizi di partigianeria del pittore per l'uno o per l'altra - la raffigurazione di una cristianità al buio, condannata dai contrasti tra cattolicesimo e riforma protestante, a seguire non la ragione ma la follia.
La gobba dell'uomo sarebbe il simbolo del carico delle colpe e delle debolezze umane, che non avevano modo d'esser perdonate, avendo la Chiesa luterana tolto il sacramento della penitenza; la lampada della donna, spenta e inutilizzata dietro le spalle, sarebbe simbolo di una cattolicità che, invece d'esser luce del mondo, ha dimesso la lanterna, contentandosi di seguire la luce di questo mondo.
Questi due "centrali" attori della scena non sono i soli al seguito di un folle. Entrambi i carri dei combattenti sono infatti guidati da follie e vizio. Unica porzione di umanità non risolta nella fantasmagoria deformata globale, i poverissimi mendicanti e gli storpi appaiono come figure reali, rappresentati senza caricatura nella loro misera condizione, sparsi qua e là nell'indifferenza generale di tutti gli altri. Neppure la coppia allegorica scorge la loro tragedia, eppure sta passando loro accanto. Fa eccezione a questa indifferenza una madre, in basso a destra, che riceve un'elemosina da un fedele appena uscito dalla chiesa, ma la veste rossa che indossa e la vistosa borsa rossa da cui pesca le monete (colori che simboleggiano spesso il peccato e l'inganno) legittimerebbero i dubbi sulla sincerità dell'atto caritatevole esibito davanti a tutti, ipocritamente inteso invece solo a "lavare" la propria anima, a sentirsi a posto. L'uomo accanto gli addita già un mendicante successivo per continuare questo rito seriale...
I duellanti si stanno affrontando in una battaglia dall’esito segnato, dato che la Quaresima segue cronologicamente il Carnevale ed è pertanto destinata a trionfare. Tuttavia, il grandioso compendio umoristico delle cose umane - fatto ruotare da Bruegel intorno al centro della composizione rappresentato dalla coppia di spalle e dal pozzo - è inscritto nella ripetizione ciclica del tempo e delle ricorrenze dell’anno, ritmata in modo corrispondente dalle liturgie sia religiosa sia popolare (soprattutto nel medioevo). Le concezioni e i comportamenti che dividono tutta la massa dei personaggi non sono in vera opposizione. Non lo è quella tra Carnevale e Quaresima, che fanno parte di un ciclo perpetuo: «come la sera del martedì grasso si celebra la morte del primo, la notte di Pasqua decreterà la fine della seconda, in un succedersi di trasgressione e penitenza, carnale e spirituale, sacro e profano, facenti tutti quanti parte della stessa liturgia popolare». Festaioli e penitenti ruotano tutti intorno allo stesso pozzo; chi oggi gozzoviglia domani digiunerà; chi oggi digiuna domani gozzoviglierà. Condizionata e a termine di scadenza è anche la vittoria della magra Quaresima (quadragesima dies) sul grasso Carnevale messo in quarantena al sorgere del mercoledì delle ceneri (Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris, come recitano i versetti della Bibbia (Genesi 3, 19) nella Vulgata: «Con il sudore della fronte mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!»). Le sarà concesso di regnare quaranta giorni all'anno ed una volta alla settimana. Nell'altro tempo «in tutto il mercato ricominceranno i balli e i salti, mentre i mendicanti rasperanno avidamente in terra, in cerca dei cibi sparpagliati e calpestati» [13].
Forse non ci allontaniamo dal registro dell'impietosa e non di meno indulgente narrazione di Bruegel [14] ...
[Per la descrizione del dipinto di Bruegel qui presentata ho tenuto presente, in gran parte, il testo di Alexander Wied, Bruegel, Il Carnevale e la Quaresima, Electa, Milano, 1996]
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I dettagli del dipinto | Gallery | Kunsthistorisches Museum Wien, Gemäldegalerie | bruegel2018.at/fasching-gegen-fasten
Pieter Bruegel der Älter, Once in a Lifetime (2/10/2018-13/1/2019) Mostra in occasione del 450° anniversario della morte di Bruegel | Bruegel - Once In A Lifetime (bruegel2018.at)
In occasione del 450° anniversario della morte del pittore, a Vienna, presso il Kunsthistorisches Museum è stata allestita una mostra dedicata a Bruegel comprendente circa 90 opere, i tre quarti dei dipinti e la metà delle stampe e dei disegni. Molti materiali e video sono ancora on line sul sito del Museo. Indipendentemente da questa specifica mostra, presso il museo di Vienna è depositata la maggiore collezione di dipinti di Bruegel al mondo.
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Claudio Strinati, L'opera del lunedì: La lotta tra il Carnevale e la Quaresima di Pieter Bruegel il vecchio
( ... in preparazione ... )
[a. m.] Stoccafisso o baccalà? Quanto alla materia prima non c’è differenza: è sempre il merluzzo nordico (gadus morhua), pesce dalla carne bianca e dal gusto delicato. Ad essere completamente diverso tra l’uno e l’altro è il metodo di conservazione: lo stoccafisso è essiccato ai venti del Nord Europa, il baccalà è conservato sotto sale, entrambi antichi ma ben distinti metodi di lavorazione per conservare il cibo.
Per un’inversione linguistica mai del tutto spiegata, a Venezia, nel Veneto e nelle zone appartenute alla Serenissima (Bergamo, Brescia, Friuli, Istria, Dalmazia) lo stoccafisso – dal norvegese stokkfisk oppure dall’olandese antico stocvisch, (stock = bastone e visch = pesce), oppure dall'inglese stockfish, cioè pesce da stoccaggio, scorta, approvvigionamento, comunque mutuato dall'olandese antico, con lo stesso significato di "pesce bastone" - viene chiamato bacalà.
I prelibati bacalà mantecato (veneziano) e bacalà alla vicentina sono dunque fatti con lo stoccafisso. Nel versante tirrenico, invece, si è conservata la denominazione originaria: baccalà è il merluzzo sotto sale, non quello essiccato.
Il personaggio storico che ha segnato le sorti culinarie dello stoccafisso nella tradizione italiana è Pietro Querini, mercante, navigatore, nonché Senatore della Repubblica di Venezia nel XV secolo.
[a. m.] Pietro Querini è il nobiluomo capitano della caracca "Cocca Querina" partita da Creta il 25 aprile 1431 con a bordo sessantotto marinai, carica di vino, spezie e altre mercanzie di valore, diretta nelle Fiandre, mai giunta a destinazione, scomparsa a settembre all’imbocco della Manica e finita alla deriva nell’oceano in pieno inverno. A Venezia lo si crede morto, ma sorprendentemente, trascorsi ventuno mesi dalla partenza, ritorna in patria con i pochi compagni d’avventura rimasti, dopo un lungo percorso a piedi e a cavallo attraverso la Svezia e la Germania.
Che cosa era accaduto? La "Cocca Querina", sorpresa da ripetute tempeste dopo aver superato Capo Finisterre, disalberata e resa ingovernabile dai danni al timone, fu portata fuori rotta al largo dell'Irlanda sempre più verso ovest, per diverse settimane, e sospinta dalla Corrente del Golfo nei mari del Nord sopra il Circolo polare artico. Parte dei marinai aveva già perso la vita. L'equipaggio, il 17 dicembre 1431, decise di abbandonare il relitto semiaffondato ancora capiente di «800 barili di malvasia, cipressi lavorati, pepe, gengiovo, ed altre ricche merci», e si divise in due gruppi tirando a sorte, 21 sullo schiffo (una piccola scialuppa), 47 su una lancia più grande, compresi i tre ufficiali: il capitano e i due luogotenenti, Nicolò di Michiel, patrizio veneto, e Cristoforoo Fioravante, comito. La prima barca di salvataggio sparisce presto col suo carico di uomini. La seconda scampa all'affondamento e, dopo altre settimane alla deriva fra razionamenti di viveri e morti continue, senza mai riuscire ad avvicinarsi ai sassosi scogli che intravedevano, approdano fortunosamente il 14 gennaio 1432 entro una «valle posta fra duoi prossimi monti» innevati dell'isola di Sandøy (un posto «in Culo Mundi» come lo chiamò con il suo linguaggio colorito nel diario il navigatore della Serenissima), nell’arcipelago norvegese delle Lofoten: non ci sono più che 21 sopravvissuti dei 47 saliti a bordo. Bivaccano sulla costa fino all'inizio di febbraio nutrendosi di molluschi e di un grande pesce spiaggiato, accendendo fuochi per scaldarsi, fino all'arrivo di soccorsi dagli abitanti dell'isola di Røst (chiamata Rustene dai veneziani) che, avendoli avvistati proprio grazie a quei fuochi, salvano gli ultimi 11 superstiti, essendo spirati nel frattempo altri loro compagni.
Rifocillati e curati, godono di disinteressata ospitalità nelle case dei pescatori («si dimostrarono molto benevoli – raccontarono Cristoforo Fioravante e Niccolò di Michiel nella loro relazione per il Senato della Serenissima – et serviziosi, desiderosi di compiacere più per amore che per sperare alcun servitio o dono»), convivendo in una per loro inusuale promiscuità di uomini e donne(1). Conoscono per la prima volta e assaporano i pesci secchi, duri come il legno, di cui si cibano gli isolani, i stocfisi, merluzzi fatti essiccare senza sale al vento e al sole propizi di quelle latitudini boreali e resi commestibili da un trattamento particolare: «quando i voleno mangiare l bateno con el roverso de la manara e fali come nervo, componeno butiro e specie per darli sapore». Lo stoccafisso è anche «grande e inestimabile mercadantia per quel mare de li Alemanii», perché una volta all'anno a maggio viene portato a Berge (Bergen) in Norvegia, «dove a quella muda di molte parti vengono navi ... cariche di tutte le cose che nascono in Alemagna, Inghilterra, Scoccia e Prusia, dico necessarie al vivere e vestire», per essere barattato con ogni genere di mercanzia di cui hanno bisogno.
A metà primavera, Pietro Querini e i suoi, rimessi in sesto dal generoso trattamento ricevuto, furono pronti per tentare di tornare a Venezia. Il 15 maggio del 1432, anch'egli s'imbarcò con i pescatori isolani diretto a Bergen, fornito di 60 stoccafissi essiccati come merce di scambio per assicurarsi le risorse per li viaggio, lungo e costoso. Fatto scalo a Trondheim, udendo che «gli Alemanni erano in guerra col re di Norvegia», ritenne prudente non andare più oltre e s'informò quale altra via più opportuna vi fosse per raggiungere la Germania oppure l'Inghilterra. Gli venne consigliato di andare a trovare un ricco veneziano di nome Zuane (Giovanni) Franco, fatto cavaliere dal re di Dacia (Svezia), proprietario di un castello a Stinchimborgo (Stegebord) nell'East-Gothland. Camminò cinquantatrè giorni verso levante per coprire i 700 km di distanza, sulla via che passava anche per Vadstena, terra natale di Santa Brigida(2). Accolto con simpatia e generosità dal concittadino, si trattenne presso di lui per quache tempo, finché alla «solenne festa e indulgenza di santa Brigida», celebrata ogni primo d'agosto (dove «innumerevoli persone da ogni parte come Alemagna, Olanda, Scozia, fin oltre da 600 miglia erano concorse»(3)) venne a sapere che al porto di Lodese, distante 8 giornate, «v'erano due navi, una per Alemagna ossia per Rostoch, l'altra per Inghilterra». Ricevuti aiuti e cavalli dal loro ospite, per primi partirono per la Germania Nicolò di Michiel, Cristoforo Fioravante e Ghirardo da Vinsescalco, e pochi giorni dopo, il 14 settembre, Querini con gli altri sette per l'Inghilterra. Sbarcati all'Isola di Ely, passarono per Cambris (Cambridge) e arrivarono a Londra, trovando ospitalità per due mesi presso l'allora potente comunità veneziana che risiedeva sul Tamigi. Venezia non era più un miraggio. La raggiunse finalmente il 12 ottobre 1432, cavalcando per 24 giorni attraverso l'Europa, via Basilea, accompagnato da Girolamo Bragadin, uno dei mercanti londinesi.
Non aveva dimenticato di essere un mercante, portando dai lontani mari del Nord alcuni esemplari di stoccafisso. Tentò di proporne al Senato acquisti massicci come provvista da imbarcare - per le sue caratteristiche di conservazione nel tempo - sulle navi della Serenissima Repubblica. Con scarso successo per la verità... Comunque, l'anno seguente, convinto che prima o poi lo stoccafisso avrebbe sfondato anche sulle terre controllate da Venezia, Querini tornò dai suoi amici di Røst(4) per scambiare vino e spezie con stoccafisso.
Note
I racconti originali del naufragio della Cocca Querina, tramandati dai codici manoscritti - quello di Pietro Querini, patrone della nave, dal Codice Vaticano Vat. Lat. 5256 (Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana) collazionato col frammento marciano It. XI 110 7238 (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana) e quello di Cristofalo Fioravante, uomo di consiglio, e Nicolò de Michiele, scrivano, dal Codice marciano ms. It. VII 368 (7936) scritto «per lo riferire», cioè raccolto, dall’umanista fiorentino Antonio di Corrado de Cardini - sono stati pubblicati per la prima volta integralmente e tra loro messi a confronto (Viella, 2019) con edizione, note e cura di Angela Pluda che ne aveva già fatto oggetto di tesi di laurea nel 2007 presso l'Università di Padova con la supervisione del prof. Manlio Pastore Stocchi. Il volume ancora facilmente reperibile è:
Le due relazioni di Pietro Querini e dei suoi luogotenenti sono state conosciute e lette soprattutto nella versione rielaborata sui manoscritti originali da Ramusio inserita un secolo dopo nel secondo volume della raccolta Delle navigazioni et viaggi, in prima edizione nel MDCLIX (1559) in Venetia nella Stamperia de Giunti: Il naufragio di M. Pietro Quirino gentilhuomo Venetiano, portato per fortuna sessanta gradi sotto la Tramontana. Ramusio è un «abile manipolatore» (Angela Pluda, p. 24): lingua, sintassi e contenuti sono spesso alquanto diversi, per volontà non certo di falsificazione, ma di normativizzazione linguistica (regolarizzazione della grafia, toscanizzazioni di desinenze verbali e lessemi, sistemazioni sintattiche, aggiunta di informazioni e dettagli, riesposizioni più ampie o più sintetiche di blocchi di testo, drammatizzazione di scene che originariamente sono di natura più prosaica, amplificazione del concetto della “misericordia di Dio” quando si determina una svolta del corso degli avvenimenti da negativo a positivo…) a garanzia di maggiore diffusione e leggibilità dei contenuti. Il veneziano popolare del Fioravante e del De Michiele come pure il dialetto più controllato di un nobile veneziano fornito di istruzione scolastica qual era Querini, unitamente a un certo disordine espositivo, non erano il veicolo più consono per raggiungere un pubblico non solo veneziano e non solo di medio-bassa cultura.
L'opera di Ramusio si può leggere nelle edizioni Cinquecentine o in quella curata da Marica Milanesi per Einaudi (1978-1988)
Prima che Ramusio lo desse alle stampe, il viaggio di Querini veniva ricordato nel famoso Mappamondo di fra’ Mauro (1457-1459): «questa provincia di Norvegia scorse misier Piero Querino come e noto». Nei secoli successivi il diario di viaggio fu segnalato dapprima nell'Ottocento (1818 e 1881) e successivamente negli anni Trenta del Novecento. Agli anni Cinquanta risale una mostra documentaria sui navigatori veneti insieme ai più famosi Pigafetta e Magellano.
In tempi recenti s'è registrato nuovo interesse per la storia del naufragio della Querina, legato alla duratura tradizione della narrativa di viaggio e alla cultura gastronomica. La rinnovata fortuna divulgativa del diario del comandante della Querina è infatti dovuta non secondariamente al racconto della pesca, della conservazione e del consumo dello stoccafisso. Di queste riprese "romanzate", che attingono ora dai manoscritti ma più spesso dal testo del Ramusio, restano godibili
A novembre del 1869, dopo dieci anni di lavori, fu inaugurato in Egitto il Canale di Suez. Realizzato dal diplomatico francese Ferdinand-Marie Lesseps su progetto dell'italiano Luigi Negrelli [1], il canale permetteva, con una navigazione di soli 116 chilometri, di raggiungere il Mar Rosso dal Mar Mediterraneo senza circumnavigare l'Africa.
Perché parlarne qui?
Già tre secoli e mezzo prima, nel 1504, lo scavo di un canale che tagliasse l’istmo di Suez per congiungere via mare il Mediterraneo alle Indie era un progetto veneziano. Il tempo per raggiungere le Indie con le navi si sarebbe drasticamente ridotto rispetto a quello impiegato dalle carovane sulla tradizionale via delle spezie [2]. Nel calcolo veneziano il canale era da proteggere «al una et l’altra bocha» con due fortezze per controllare l’accesso e impedirlo soprattutto ai portoghesi, che in quel momento storico erano la concorrenza più pericolosa agli interessi mercantili di Venezia e dell'Egitto nel commercio delle spezie dall'Asia all'Europa, dopo la nuova rotta aperta dai lusitani stessi che arrivava in India circumnavigando l'Africa.
Il progetto si legge nella minuta di un documento del Consiglio dei Dieci del 24 maggio 1504 con cui si affidava all’ambasciatore Francesco Teldi (in realtà a Bernardino Giova che sostituirà il Teldi ammalatosi), l’incarico di incontrare il sultano d’Egitto anch'egli impegnato a reagire alla minaccia economica.
«A impedir et del tutto interromper la navigation de portoghesi, videlicet che cum multa facilità et brevità de tempo se potria far una chava dal mar rosso che mettesse a drectura in questo mar de qua, come altre volte etiam fo rasonado de far: la qual chava se potria assegurar al una et l’altra bocha cum do forteze per modo che altri non potrian intrar ne ussir, salvo quelli volesseno el Signor Soldan. La qual cava facta, se potria mandar quanti navilij et galie se volesse a chazzar li portogalesi che per alcuno modo non potrian parer in quelli mari. Questa cava intendemo saria cum grande segurtà del paese del Signor Soldan et dovria dari infinita utilitade a quello, però volemo che non in la prima audientia che haverai dal Signor Soldan ma in una altra audientia cum grande dexterità et a qualche bon proposito rasonando dele provision necessarie ut supra tu devi dir che molti de qui recordano essa cava monstrando più presto de refferir le opinion de homeni periti in simel cose, che alcun fermo nostro obiecto et racordo azio el prefato Signor Soldan non prendesse alcuna ombra. Che fassamo tal rechiesta a nostra particolare utilità et danno del Signor Soldan e pericolo del stado suo, et però te forzerai proponerla cum tal modo che tal proposition sia aceptada in bona parte et supratuto li farai intender quanti beni succedarian dala cava predicta».
A parte le implicazioni economiche e politiche, è un’opera “faraonica” che non spaventerebbe tecnicamente gli ingegneri veneziani. Avevano già creato fosse e canali artificiali per deviare il corso dei fiumi e preservare la loro laguna dall’interramento. E neppure doveva apparire assurda dal momento che - nel grande revival di testi classici greci e latini e di studi umanistici del Rinascimento - a Venezia si era ritrovata la memoria di un antico percorso acqueo che congiungeva i due mari in tempi antichissimi, prova che l'opera era fattibile [3].
La proposta, che si può ben immaginare dibattuta anche nelle sale di Palazzo Ducale, resta però nel cassetto, come dimostrano i tratti di penna tirati sulla minuta [4], e non verrà avanzata - pur con tutte le cautele già preventivate - al sultano. Non figurò più fra le direttive impartite all'ambasciatore e non trapelò in Egitto.
A farla regredire a vaga possibilità, da riprendere eventualmente in altre congiunture, avranno influito sia valutazioni strategiche diplomatiche e politico-militari (se ne possono ricavare dalla minuta stessa) sia la stima dei reali andamenti commerciali. Un’ingerenza veneziana così smaccata poteva urtare il sultano. Il controllo della “chava” in mano ai mamelucchi poteva ritorcersi alla lunga contro i veneziani stessi, essendo il rapporto con la costellazione mamelucca e ottomana sempre esposto a possibili conflitti per preservare il dominio veneziano “da mar”. Un’aperta collaborazione - sia pure a soli fini mercantili – con l’Egitto poteva rinfocolare l’ostilità delle potenze europee e degli altri stati italiani già insofferenti per l’espansione veneziana quattrocentesca (lo “stato da tera”) nella terraferma lombarda, veneta, friulana e dalmata, e farla sfociare in atti di guerra contro Venezia, se non fosse stata più gestibile con la pur eccellente diplomazia manovriera da parte della Repubblica.
Secondo qualche storico, inoltre, all’immediata reazione preoccupata e totalmente pessimistica seguita all’apertura della nuova rotta transoceanica portoghese, si affiancava una presa d’atto più realistica che la circumnavigazione dell’Africa si sarebbe alla fine comunque imposta sulla via delle spezie tradizionale e, forse, non era difficile riposizionarsi all’interno dei nuovi equilibri “mondiali”, puntando sulla “qualità”, sul brand – come si direbbe oggi – e sulla fascia alta del mercato. I riscontri non tardarono a venire. Il pepe commerciato a Lisbona si attestava ad un prezzo che non faceva una concorrenza agguerrita a quello veneziano e risultava spesso di qualità decisamente inferiore, dopo aver viaggiato molti mesi in stive umide, a paragone di quello trasportato fino al Mediterraneo.
Il vero scacco geopolitico per la centralità mediterranea, e il dominio veneziano, sui traffici marittimi mondiali non sarebbe stato la mancata apertura del canale di Suez nel 1504 e il primato marittimo-commerciale portoghese sull’oceano indiano e pacifico, ma la scoperta e la valorizzazione delle Americhe, delle nuove Indie, con l’imporsi della centralità atlantica. Ma questo è il senno di poi.
Nel 1487-1488 Bartolomeo Diaz, navigando dal lato atlantico, aveva raggiunto il punto più meridionale dell'Africa, da lui denominato Capo delle Tempeste, e contemporaneamente Pêro da Covilhã aveva viaggiato per terra fino a Calicut, esplorando possibili fonti di approvvigionamento di spezie sul subcontinente indiano. Non rimaneva che cercare di unire i due segmenti del viaggio. Un decennio dopo, Vasco Da Gama, salpato da Lisbona l’8 luglio 1497, dopo aver doppiato il Capo delle Tempeste, da lui ribattezzato in forma più beneaugurante Capo di Buona Speranza, aveva risalito la costa orientale del continente fino a due città dell’attuale Kenia: Mombasa, dove i commercianti arabi tentarono di sabotarne il viaggio, e poi Malindi, allora in feroce concorrenza con Mombasa, dove invece il sultano gli mise a disposizione l’esperto navigatore yemenita Ahmad b. Majid al-Najdi per aiutarlo ad attraversare l'oceano Indiano e arrivare sulla costa sud-occidentale dell’India (attuale stato del Kerala), sbarcando al porto di Calicut (attuale Kozhikode, Calcutta) il 20 maggio 1498.
Erano le prime navi europee mai approdate nel subcontinente indiano. Si dischiudeva la “via marittima delle Indie” (cioè le regioni sud-orientali dell'Asia), così a lungo ricercata per sottrarsi all’intermediazione di commercianti arabi, persiani, turchi e veneziani, che gravava sul prezzo delle spezie orientali come il pepe, la noce moscata e i chiodi di garofano.
A Calicut Vasco Da Gama, sia pur dopo mesi di trattative per ottenere vantaggi commerciali con lo Zamorin (il principe locale), fortemente avversate dai mercanti arabi del luogo, ottenne una concessione. Ripartì l’8 ottobre, lasciandosi dietro alcuni dei suoi uomini con l’incarico di stabilire un insediamento commerciale.
La notizia arrivò a Venezia l’anno seguente. Nell’agosto del 1499, al mercato di Rialto si raccontava delle tre caravelle con le insegne del re di Portogallo approdate ad Aden e a Calicut. Fu a stento creduta. Si giudicava smisurata la nuova rotta, estremi i pericoli per avventurarvisi, assolutamente aleatorio il ritorno - quand’anche fossero riuscite ad arrivare - per navi cariche di preziosissime spezie.
Si intuiva però che - se la voce fosse stata vera – erano minacciati di crollo i commerci delle spezie che facevano la ricchezza di mercanti e nobili veneziani, ma anche dei mamelucchi d’Egitto.
Venezia non era certo inesperta di momenti di crisi commerciale ed economica, ma le turbolenze e i danni arrecabili dai concorrenti attivi sulla via alternativa aperta dai Portoghesi costituivano un pericolo molto più grave delle periodiche bolle speculative sui prezzi delle spezie, possibili anche a causa delle guerre intermittenti con gli Ottomani, come in quello stesso 1499, quando le galee allestite per commerciare furono requisite per andare a combattere e si erano creati scompensi fra stock immagazzinati e nuovi approvvigionamenti mancati.
Lettere da Lisbona nel luglio 1501 su arrivi di spezie direttamente dalle isole asiatiche attestavano che il traffico si sviluppava e sembrava non incontrare ostacoli importanti. Se da qualche parte si esorcizzava la minaccia, considerata ancora insufficiente ad affossare i commerci della Serenissima, altri – come il diarista Girolamo Priuli[5] – presagivano la rovina della città: i veneziani, ultimi di una trafila di intermediari, costretti a rifornirsi sulle coste del Levante di spezie sempre meno numerose in arrivo rispetto a un tempo, si trovavano a competere con nuovi rivali, acquirenti a basso prezzo nei porti dell’India e venditori diretti in Europa.
Lo scenario più pessimistico sembrava avverarsi quando a novembre si seppe in città dell’impresa recente del portoghese Pedro Alvares Cabral: bombardamento di Calicut, acquisto di spezie in un porto vicino, affondamento della flotta araba il cui carico diretto in Egitto era andato perduto privando di rifornimenti gli intermediari mediterranei. Il prezzo del pepe schizzò alle stelle. Per i mercati di Venezia, Alessandria e il Cairo ci furono alcuni anni di sconvolgimenti: irregolarità del ritmo dei viaggi e assottigliamento della quantità delle spezie che arrivavano dall’India. Veneziani ed egiziani si trovarono con interessi da difendere sempre più convergenti [6].
In Egitto, per reagire alla minaccia economica, il sultano mamelucco Bayezid II (1481-1512) mirava per il 1505 ad un’azione militare anti-portoghese insieme con il sovrano di Calicut. Teatro di scontro non potevano che essere Mar Rosso, Golfo Persico e Oceano Indiano - sedi fino ad allora più di scorrerie piratesche che di guerre navali - da riportare sotto un controllo più stretto, ma i sovrani mamelucchi erano sostanzialmente privi di flotta, avendo lasciato che del mare si occupassero le popolazioni rivierasche. Dovevano cercare - presso gli stati amici - tecnici navali, artiglieri e materiale strategico, come legno per imbarcazioni. Interpellata, Venezia preferì restare “coperta” lasciando intendere che «se gente dello Stato da Mar fosse andata volontariamente in Egitto non sarebbe stata trattenuta», ma non si sarebbe impegnata ufficialmente.
Roma, Francia, Spagna e persino Portogallo, furono “avvertiti” sulle possibili ritorsioni, se non si fosse bloccata la nuova via, come la chiusura della basilica del Santo Sepolcro ai pellegrini europei.
Quando Bayezid II ottenne dal sultano ottomano Qânsûh al-Ghawrî uomini e rifornimenti per allestire una flotta nel Mar Rosso, non pensò tuttavia di ridurre i prezzi, come proponevano i veneziani ad esempio per il pepe, ma anzi li aumentò nell’intento di lucrare un utile che bilanciasse la diminuzione delle merci arrivate. A dimostrazione della tutt'altro che agevole concertazione tra veneziani ed egiziani.
A partire dal 1517 la dinastia mamelucca fu scalzata da quella ottomana, col sultano Selîm I e poi suo figlio Solimano I (conosciuto come il Magnifico in Europa e il Legislatore in Turchia). Il gran visir Pargali Ibrâhîm pascià [7], amico del sovrano, inviato in Egitto, ebbe l'incarico di riorganizzare e dotare di nuovi ordinamenti le terre entrate a far parte dell’Impero ottomano. Nelle incognite della nuova situazione, i veneziani mantenevano accordi commerciali col nuovo potere per non interrompere il traffico delle galee da mercanzia, ma avevano trovato conveniente accordarsi anche con i portoghesi e con loro avevano firmato un trattato il 2 gennaio 1522. Per continuare a godere di una politica sufficientemente filo-veneziana da parte di Costantinopoli, ma senza dover esporsi, la Repubblica lasciava questo compito - senza quindi direttive cogenti – ad una rete di suoi uomini, a vario titolo presenti nell’Impero ottomano, come l’allora bailo a Costantinopoli, Pietro Bragadin, divenuto amico del gran visir, o come il corsaro Giovanni Contarini “Cazzadiavoli” e il capitano e costruttore navale Giovanni Francesco Giustinian, inviati come esperti navali - senza che lo stato ne fosse ufficialmente coinvolto - per sostenere la guerra che allora i turchi combattevano contro i portoghesi.
Nel periodo (1523-1536) in cui governò l'Egitto, Pargali Ibrâhîm pascià pensò anche ad una via d’acqua diretta tra Mediterraneo e Mar Rosso. L’idea, segretamente soppesata nelle stanze del Consiglio di Dieci nel 1504, riaffiorava nel divano imperiale d’Istanbul. Disponiamo della testimonianza di Alvise Roncignotto che in due successivi viaggi nel 1529 e nel 1532-33 constatò l'opera intrapresa per riaprire l’antico “canale dei faraoni” che univa il Mar Rosso al Mediterraneo (risalente secondo lui ai tempi dei romani) e vide circa 12.000 uomini impegnati nel lavoro. Con l'esecuzione capitale nel 1536 di Pargali Ibrâhîm pascià, divenuto inviso a Solimano che temeva per il suo stesso trono, il progetto decadde e lo scavo del canale non fu completato. Da ultimo, ne riconsiderò l'attuazione Sokollu Mehmed pascià, gran visir dell'Egitto tra il 1565 e il 1579, secondo una logica allargata e multipolare, data l'estensione vicina al suo apice che l'impero ottomano stava raggiungendo, dall’Europa, all’Asia e all’Africa. Perciò Sokollu a est «fece avviare i lavori per un canale che unisse il Don al Volga e quindi mettesse in comunicazione il Caspio con il Mar Nero» e a sud «fece riprendere gli scavi tra Suez e il Nilo come parte finale di una nuova rotta turca delle spezie, alternativa a quella che arrivava fino a Lisbona». Ma a pochi anni dalla sua morte, anche in questo caso, lavori e progetto vennero nuovamente sospesi.
Si dovranno aspettare la "Campagna d'Egitto" di Napoleone (dissuaso dal suo ingegnere Jean-Baptiste Le Père) e Metternich (ispiratore della Société d’études du canal de Suez, fatta di specialisti francesi, inglesi e asburgici, guidata da Luigi Negrelli), l'ex-diplomatico francese Ferdinand de Lesseps (incaricato dai governi egiziano e francese di occuparsene) e la nuova Commissione scientifica internazionale incaricata di selezionare il progetto migliore (presieduta dal veneziano Pietro Paleocapa, progettista di importanti interventi alle bocche portuali della laguna veneta), per riaffrontare il problema e creare le condizioni economiche e politiche del taglio di Suez.
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Venezia e l'Egitto
Sul canale di Suez
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