Senza nessuna intenzione di invocare restaurazioni riparatrici del perduto capodanno more veneto, oggi si può ricordare che, nel calendario della Repubblica di Venezia fino alla sua caduta, il ciclo dell’anno aveva inizio il 1° marzo, come nell’antico calendario romano che originariamente contava solo dieci mesi.
Ciò rendeva trasparente per es. come il conto di alcuni mesi fosse coerente rispetto alla loro denominazione: settembre (septem=sette + suffisso ber/brem=tempo), settimo arco di tempo, è il settimo mese a partire da marzo; ottobre (octo=otto + ber) l’ottavo; novembre (novem + ber) il nono; dicembre (decem + ber) il decimo, seguiti dai mesi di rinnovamento e morte, prima del nuovo inizio, Januarius (da Giano, il dio dai due volti, girati uno verso il futuro l’altro verso il passato, patrono delle porte e dei ponti, protettore di ogni forma di passaggio e di mutamento e propiziatore di ogni apertura e di ogni inizio) e Februarius, dal verbo februare=purificare, rimediare agli errori, in onore del dio estrusco Februus e della dea romana Febris (assimilata a Giunone stessa: Iuno Februa o Februata) invocata durante i Lupercali dell’ultimo mese dell’anno.
L'introduzione del calendario gregoriano (dal nome del papa Gregorio XIII, che lo introdusse il 4 ottobre 1582 con la bolla papale Inter gravissimas) [← it.wikipedia.org] non aveva stravolto l'uso ufficiale e il capodanno veneto, fissato il 1º marzo, rimaneva quindi una festività ufficiale della Serenissima Repubblica. Nelle date dei documenti si ovviava a possibili fraintendimenti affiancando la dicitura latina more veneto, ossia "secondo l'uso veneto". Una data generale come 27 febbraio 1720 corrispondeva al 27 febbraio 1719 more veneto, in quanto l'anno 1720 sarebbe iniziato in Veneto solo a partire dal mese seguente. Il 1° marzo 1720, invece, era tale sia secondo il calendario gregoriano sia more veneto.
A testimonianza dell'usanza resistono ancora tradizioni come il Bruza Marzo (o Bati Martho o Bati Marzo o ciamàr Marzo), che significa risvegliare l'anno nuovo, in alcune zone della pedemontana berica, dell'altopiano di Asiago e in varie feste locali del Trevigiano, del Padovano a Onara e del Bassanese. Non dissimile dagli appena trascorsi pan e vin dell'Epifania è l'accensione di falò per propiziare l'anno nuovo. Ha lo stesso significato il Fora Febraro a Valdagno nella valle dell'Agno in provincia di Vicenza (questo tuttavia anacronisticamente guastato con i "sciòchi col carburo", botti provocati dallo scoppio dell'acetilene, prodotto unendo il carburo di calcio con l'acqua: «i bimbi girano per le strade battendo su pentole e coperchi, o trascinando in bicicletta o a piedi delle lattine vuote (un tempo si usava trascinare la catena del camino, che così diventava lucida), con l'idea che il rumore scacci il freddo Febbraio». [← it.wikipedia.org]
Un’originale riprova di familiari formule beneauguranti per il nuovo anno è offerto dalle parole scambiate il 9 marzo 1510 nei pressi del "capitello della Madonna" a Motta (di Livenza) tra Giovanni Cigana e la misteriosa fanciulla (la Beata Vergine) in vesti candide e sfavillanti di cui ebbe visione, stando agli atti del processo canonico dell’epoca. L’uomo, per quanto sorpreso, le si avvicinò e la salutò familiarmente: «Dio ve dia el bon dì». Il suo saluto non solo venne ricambiato, ma la giovane aggiunse anche un cortese augurio di buon anno: «Bon dì e Bon Ano, homo da ben». Siamo a marzo, nello Stato veneziano, la Madonna parla in lingua veneta, lasciandocene un “autorevole” lacerto, e si ricorda di porgere all’anziano e devoto contadino gli auguri per l’anno nuovo da poco iniziato…
Questi auguri li rinnoviamo anche noi, a tutti gli homeni da ben. Un supplemento di auguri in giorni di quaresima e quarantene ...