Giovanni Girardini (Motta di Livenza, 1922 - Camino di Oderzo, 1944)

Girardini Giovanni
Fonte della foto: phaidra.cab.unipd.it
 

[a. m.] Giovanni Girardini nasce a Motta di Livenza (Treviso) nel 1922 da Silvia Marenzi e Aurelio, in una famiglia benestante tra le più in vista della città. Il padre avvocato ha una buona cerchia di conoscenze nell'alta borghesia trevigiana. Essere avviato agli studi è una prerogativa del ceto sociale di appartenenza. La prima formazione nella scuola locale, il ginnasio nel Collegio Brandolini di Oderzo presso i Padri Giuseppini, il liceo classico al Canova di Treviso. A diciassette anni può già iscriversi all’Università di Padova.

Nel 1940, quando il giovane è alla fine del primo anno di corso di laurea in medicina e chirurgia, il regime fascista porta l'Italia in guerra ed è egli stesso che fa domanda di essere reclutato nell'esercito. A febbraio del 1941, quando manca ancora un anno alla chiamata della sua classe, si arruola volontario nel 7° reggimento Alpini di Belluno. Per essere accettato deve fornire la dichiarazione di assenso dei genitori. Non fu subito inviato in Albania come avrebbe voluto, ma prima alla scuola di alpinismo, battaglione studenti universitari, di Aosta e poi al campo di Courmayeur. Ammalatosi seriamente, alla conclusione del periodo fu mandato in licenza, successivamente assegnato al servizio di sanità in diversi ospedali militari, infine congedato. Ripresi gli studi, era arrivato al quinto anno di corso, quando l'8 settembre 1943 fu proclamato l'armistizio fra l'Italia e gli Alleati. Il giovane, ormai in una nuova disposizione d'animo e ideale, decide per la seconda volta di abbandonare l'università, ma ora è per opporsi alla dominazione tedesca in Italia.

Diventato subito attivo nell'organizzazione dei primi gruppi partigiani nell'area del Livenza (Motta, Gorgo al Monticano, Meduna e altre zone circostanti), Giovanni Girardini fu uno dei due protagonisti - l'altro era Antonio Furlan (← Vedi | anpi.it) - attorno a cui si aggregarono le tipologie di resistenti locali: con il poco più che ventenne studente Girardini i "patrioti", come si autodefinivano, senza conclamate opinioni politiche o partitiche, nel solco semmai delle idee laico-risorgimentali; con il trentaduenne operaio Furlan i "garibaldini", politicizzati e spesso di sentimenti comunisti se non di radicata ideologia comunista. Girardini si era meritato il comando di una Compagnia del Battaglione "Livenza", Furlan era il commissario politico del battaglione (ridenominato Brigata "Furlan" dopo l'impiccagione di Antonio nell'ottobre del 1944). Sia l'uno che l'altro erano in contatto con l'organizzazione clandestina provinciale. Il primo attraverso Teodolfo Tessari (← Vedi), professore di storia e filosofia al liceo Pio X di Treviso, esponente del partito repubblicano; il secondo attraverso Pietro Dal Pozzo (← Vedi), responsabile provinciale del partito comunista e appartenente al CLN provinciale di Treviso.

Durante il 1944, anche Giovanni Girardini e Antonio Furlan rappresentarono dunque due figure emblematiche della duplicità della Resistenza, in cui convivevano e/o confliggevano due diverse visioni del futuro dell'Italia e - ancor più decisive nella quotidianità, data la situazione - due diverse metodologie di lotta al fascismo e ai nazisti. Le formazioni "garibaldine", a partire dalla scelta "non attendista" proclamata da Pietro Secchia fin dal novembre 1943, spingevano per azioni allo scoperto senza la preoccupazione per il sangue da versare e il condizionamento delle eventuali rappresaglie del nemico. Le altre formazioni, invece, erano su posizioni di attesa della congiuntura più favorevole alla lotta aperta e aderivano ad azioni di sabotaggio e di logoramento del nemico, purché meno gravose possibile di conseguenze per la popolazione. La diversità dei modi di agire e delle idealità che li animavano non impedì che Giovanni Girardini e Antonio Furlan, che si stimavano reciprocamente ed erano fra loro amici, a poco più di un mese l'uno dall'altro cadessero accomunati simbolicamente nella morte su un identico patibolo.

Nella zona dell'opitergino mottense, la barbara impiccagione di Giovanni Girardini il 12 settembre 1944 costituì un punto di frattura e di svolta per le dinamiche della resistenza locale. Gli esiti di due condotte partigiane di valenza completamente opposta generarono la peggiore delle concatenazioni per la sorte del giovane mottense.

Il primo è la cattura di Girardini il 5 settembre 1944(1), mentre si dirigeva verso Cessalto, da parte di un gruppo di militari tedeschi e italiani ad un posto di blocco al di là del passo sulla Livenza tra Villanova e Lorenzaga e il successivo imprigionamento nel carcere mandamentale di Oderzo. Il secondo, una settimana dopo, è l'attentato del 12 settembre di un gruppo di partigiani guidati da Attilio Da Ros ("Tigre") [← Vedi] nei pressi di Camino di Oderzo all'ufficiale nazista responsabile del presidio tedesco di Oderzo mentre viaggiava in automobile con un collega e due giovani interpreti italiane: nell'agguato avevano ferito a raffiche di mitra il comandante e l'autista e ucciso una delle due donne, originaria di Bolzano, ritenuta l'amante dell'ufficiale e una spia.

Girardini, pur consapevole dei rischi che correva, essendo ricercato, aveva deciso di andare a Cessalto perché fossero restituiti - e nessuno potesse perciò giudicarla una ruberia - degli oggetti di qualche valore, sottratti nel corso di una requisizione arbitraria da un partigiano alla famiglia fascista di un tale con fama di delatore. Sul posto aveva anche l'intenzione di incontrare altri compagni per accordarsi sulla possibilità di liberare dal carcere di Oderzo Mario Giandesin (un amico partigiano arrestato a Motta qualche giorno prima perché trovato armato) e per decidere se accettare l'eventuale scambio con un tedesco prigioniero dei partigiani.

Partiti in bicicletta, lui e la sorella Livia, erano incappati in un posto di blocco. La prima ad essere fermata fu la sorella, che lo sopravanzava a una certa distanza come una staffetta. Alle domande sulla loro identità rispose che il giovane che la seguiva era il frattello. Giovanni, dopo l'intimazione accompagnata da un colpo di fucile rivolta lui, mentre girava la bicicletta per riprendere la direzione di Motta, riuscì a sottrarsi - pur inseguito dai soldati che gli sparavano contro - prendendo una via laterale, attraversando un campi do granturco e, abbandonata la bicicletta, gettandosi nel canale Brian. Fallito l'inseguimento, i militi, in mano ai quali era rimasta la sorella, dapprima sembrò che si dirigessero verso Noventa di Piave, dov'era stazionato un comando germanico, invece, fermatisi in un'osteria a Santa Maria di Campagna, si attaccarono ai fili telefonici per chiedere istruzioni al presidio tedesco di Albano di Motta e un camion per il trasporto. Arrivato il mezzo richiesto verso le due pomeridiane, la ragazza fu sistemata tra il conducente e il maresciallo tedesco e fecero ritorno verso il luogo del precedente posto di blocco.

Anche il fratello, nel frattempo, era tornato allo stesso luogo insieme con due ragazzi per avere notizie della sorella. Alla vista del camion, cercano scampo per una strada laterale, Girardini si getta in un fosso ma è presto raggiunto. Riconosce che Livia è sua sorella e chiede che lei sia lasciata stare. Sono caricati entrambi sul camion e portati al presidio tedesco di Albano e al breve interrogatorio il ragazzo sembra dare risposte soddisfacenti. Vengono comunque trasferiti ad Oderzo, prima all'interno della casa del fascio (dove sono sottoposti a vari interrogatori e le risposte dell'uno e dell'altra, pur essendo riusciti durante il tragitto a concordare qualche particolare sulla versione dei fatti da sostenere, restano in difficile equilibrio rispetto alle accuse) e l'indomani in carcere. Si potrebbe pensare che gl'inquisitori non avessero sospettato subito che il giovane arrestato fosse il comandante di una delle compagnie del battaglione "Livenza", in caso contrario avrebbero dovuto consegnarlo immediatamente alla Kommandantur di Treviso. Ripetutamente interrogato, Giovanni Girardini aveva ammesso di essere antifascista ma non aveva palesato nulla della sua vita partigiana.

Verso la sera del 6 settembre(2) Livia fu rilasciata. Sembrava un primo risultato dell'interessamento dello zio Luigi Marenzi, avvocato penalista, che si stava adoperando per ottenere la scarcerazione dei nipoti. La stessa decisione per Giovanni non poteva essere più presa ad Oderzo, poiché erano già stati trasmessi a Treviso gli incartamenti che lo riguardavano.

Per ottenerne la liberazione, la famiglia preferiva percorrere canali diplomatici e contattare personalità che potessero intercedere. Insieme con il padre a parlare con il comandante della piazza di Treviso si recarono il commissario prefettizio di Motta, Zaniboni, e il fascista repubblicano maestro Bottegal. Talmente difficile si prospettava questa soluzione che quel giorno persino il padre fu incarcerato. I fascisti, compreso il federale di Treviso, erano ormai interlocutori deboli. Il vero potere con cui "trattare" erano i tedeschi. Si sperò anche nell'intercessione di Giuseppe Zaffonato, vescovo di Vittorio Veneto - non nuovo a interventi di questo genere andati predecentemente a buon fine - mirante a far accettare una reciproca scarcerazione di detenuti.

Parallelamente la resistenza locale aveva iniziato a preparare piani di evasione, non solo i compagni di Girardini ma anche altre formazioni, dapprima accettati dalla famiglia, poi rallentati in attesa degli sviluppi degli altri tentativi, infine fermati quando ormai certe azioni erano pronte, per la preoccupazione di conseguenze gravi e imprevedibili.

Giovanni Chiara, rappresentante del Pci nel CLN di Oderzo, ha lasciato testimonianza che fu chiamato in pretura dal cancelliere Fabrin, suo amico, e lì il pretore, l'avv. Bevilacqua e l'avv. Girardini gli chiesero se aveva la possibilità di liberare Giovanni. Chiara predispose l'incursione nel carcere portando con sè nel giorno fissato tre partigiani armati, ma poco prima di agire, fu richiamato in pretura e l'avv. Girardini lo pregò di non fare niente, temendo che gli avrebbero ucciso poi il figlio per strada. Sarebbe andato a Treviso, dove contava tante conoscenze e sperava di riuscire a farlo liberare.

I partigiani stessi valutavano non tanto i rischi dell'assalto al carcere, ma soprattutto l'effetto provocato dai vari tipi di azione. Sia il successo sia il fallimento dell'evasione sarebbero stati un'ammissione dell'importanza del prigioniero e avrebbero fatto scattare ritorsioni verso i famigliari stessi e i loro beni o provocato una più aspra repressione verso gli altri partigiani.

Nella memoria dedicata alla morte dell'amico Girardini, Franco Sanchetti - compagno di militanza nella stessa compagnia partigiana - narra anche dell'incontro avuto il 10 settembre da lui e Giovanni Martin, altro partigiano mottense, con il vescovo e della accettazione fatta trapelare a sera dalla Kommandantur di Treviso che lo scambio poteva fissarsi per l'indomani(3) nel rapporto di tre a uno, garante e tramite l'abate di Oderzo, mons. Domenico Visintin. Non era ingiustificato tuttavia nutrire ancora qualche dubbio se i tedeschi avrebbero mantenuto la parola. Nell'imminenza del possibile scambio i partigiani mottensi ricevettero persino la visita di Attilio Da Ros (Tigre) che si offriva di collaborare assicurando che nella zona a nord di Oderzo da lui controllata - dato che i tedeschi sarebbero dovuti venire da Conegliano - non accadesse niente che mettesse a repentaglio l'operazione.

Dei progetti partigiani per la sua evasione e delle trattative della famiglia per ottenere la scarcerazione sembra che Girardini fosse informato dalla madre che lo visitava in carcere ed avesse sempre esortato a non compiere gesti che inficiassero le sue affermazioni rese durante gli interrogatori o comportassero rappresaglie, contro il padre ancora trattenuto in carcere a Treviso o contro gli altri. Secondo la testimonianza della sorella Livia, la famiglia poteva contare sulla collaborazione del barbiere delle carceri perché lasciasse aperta la porta della cella in cui era rinchiuso per consentirgli la fuga, ma il fratello rifiutò di evadere.

La cronaca di Sanchetti riferisce che fino all'ultima notte prima dell'impiccagione di Girardini, tra l'11 e il 12 settembre, non furono esclusi i tentativi di liberarlo. Un gruppetto di compagni si erano appostati a poche decine di metri dalla cella, sugli argini del Monticano, per intervenire al tramonto della luna con un piano semplice: entrare nella prigione senza incontrare opposizione grazie all'unica guardia posta a vigilanza che loro conoscevano e confidavano che non avrebbe fatto resistenza. L'irruzione però fu bloccata dall'arrivo di Carlo Piva, da Motta, che portava l'ordine di rinunciare, perché Oderzo brulicava di tedeschi e di fascisti e l'operazione poteva danneggiare le trattative in alto loco giudicate ormai a buon punto.

Il mattino del 12 settembre piombò sulla scena opitergina l'attentato al comandante tedesco, voluto e guidato da Tigre. Anche se lo stesso comandante sopravvissuto era persuaso che gli autori, in camicia rossa, non c'entrassero niente con Oderzo(4) e nessuno avrebbe potuto seriamente affermare che vi fossero implicati uomini di Girardini, la sorte  del partigiano mottense risultò definitivamente compromessa. Le trattative per lo scambio di prigionieri non potevano più valere. Per la morte di uno di loro la rabbia tedesca era solitamente inarrestabile e la rappresaglia - di regola - non si faceva attendere ed era spietata: 10 partigiani da fucilare per ogni ucciso. Secondo uno storico di parte, Antonio Serena(5), i massimi esponenti fascisti di Oderzo, preoccupati che una strage di tale entità fosse controproducente in una città che aveva conosciuto un'attività partigiana fino ad allora abbastanza blanda, suggerirono ai tedeschi di fucilare solo i due già rinchiusi nel carcere di Oderzo, invece che altri ostaggi. Anche giudicando autoassolutoria tale ricostruzione, per la difficoltà di credere che nei fascisti vi fossero questi scrupoli umanitari, si ha la riprova che tutto ormai era sottomesso alla logica di guerra dei nazisti.

Precipitata così la situazione, senza più mediazioni possibili, nel tardo pomeriggio del 12 settembre 1944, pur assolutamente estranei all'attentato, furono prelevati e portati a morire sullo stesso luogo dell'attentato Giovanni Girardini e Bruno Tonello (← Vedi), un operaio di Crocetta del Montello, inquadrato nella Brigata "Mazzini", che dopo una lunga e sofferta prigionia a Treviso era stato trasferito dalla Brigate Nere ad Oderzo. L'esecuzione, coordinata da un gruppo di tedeschi del distaccamento di Codognè, avviene attorno alle sei pomeridiane: furono impiccati ad un traliccio della luce e poi finiti con due colpi di grazia perché il cappio non era bastato ad ucciderli. All'altezza dei piedi, inchiodato sul palo, un penoso cartello ammoniva: «Wirhängen hier, weil hier auf deutsche Soldaten geschossen wurde. SIAMO APPESI QUÌ PERCHÉ QUÌ FU SPARATO SU SOLDATI TEDESCHI».

Restarono a penzolare, senza che nessuno osasse avvicinarsi fino al mattino successivo, quando alcuni componenti del suo gruppo, con Piero Sanchetti, nonostante il prevedibile rischio, andarono a spiccarli e a ricomporne i cadaveri. Il corpo di Giovanni venne portato a spalla fino a Motta, dove si tennero i funerali con la presenza del picchetto d'onore armato, formato dai compagni di lotta del proprio comandante. I fascisti, pur sapendo, non fecero nulla per impedirlo e restarono chiusi nelle loro caserme, comprendendo che nessuno li avrebbe approvati né appoggiati.

Sulla condotta di Attilio Da Ros (Tigre) graveranno per sempre dei punti interrogativi molto severi, per un attentato di dubbia utilità che di fatto - anche se non ve ne fosse stata l'intenzione - rappresentò la causa prossima dell'eliminazione di un instancabile animatore - tutt'altro che comunista - delle formazioni partigiane della zona, un giovane energico comandante partigiano capace di attirare consenso senza quasi toccare le armi.

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Girardini Giovanni è stato insignito di Medaglia d'oro al Valor militare | quirinale.it
Nel giugno 1947 l'Università di Padova gli ha conferito la laurea honoris causa in medicina | phaidra.cab.unipd.it
Motta di Livenza gli ha intitolato la scuola media, ora istituto comprensivo.
Nel 1970 a Camino è stato eretto un monumento alla sua memoria e a quella dell'altro partigiano ucciso assieme a lui Bruno Tonello | Andrea Pizzinat, Camino e i da Camino: un paese, la sua gente, il suo casato, Edizioni Tredieci, Oderzo, 2009, p. 170 | Reperibilità: books.google.it/eNSZXBPz6XYC

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Note

  1. Le fonti contenenti notizie sulla cattura di Girardini non indicano date univoche.
    Quella del 5 settembre 1944 ha forti riscontri: il documento dattiloscritto s.d e non firmato ma prodotto nell'immediato dopoguerra da Livia Girardini, intitolato "Memoria sulle circostanze dell'arresto di Giovanni Girardini stesa dalla sorella Livia"; i certificati di detenzione di Giovanni e Livia Girardini, richiesti alla direzione della Casa Circondariale di Treviso, rilasciati a Livia il 10 aprile 1993; il "Diario" inedito di avvenimenti dal 29 giugno 1944 al 10 novembre 1945, scritto da una signora appartenente ad una famiglia antifascista del Mottense, riportato da Morena Biason nella sua tesi di laurea, Partigiani di pianura. La brigata Furlan tra Piave e Tagliamento (1943-1945), 1995, pp. 520-536; il documento dattiloscritto "Giovanni Girardini n. a Motta di Liv. il 13.8.1922 m. a Oderzo il 12.9.1944. Memoria di un suo compagno studente allora nella facoltà di Medicina e Chirurgia all'Università di Padova", presente nell'Archivio dell'Istituto veneto per la storia della Resistenza (Sez. I, b. 23, fasc. Giovanni Girardini), posseduto in versione manoscritta dalla famiglia Girardini (Biason, Op.cit, p. 66, nota 84).
    La data del 6 settembre è suggerita da "Sommario storico sull'attività svolta dalla Brigata Furlan", maggio 1945, Archivio dell'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea della Marca Trevigiana (b. Motta, fasc. Giuseppe Prosdocimo II); da Brigata Garibaldina "A . Furlan", già battaglione "Livenza", a c. Comitato Onoranze Martiri della Libertà, Tip. Vianello, Treviso, 1947.
    La data dell'8 settembre compare nel racconto di Piero Sanchetti, Il figliolo perduto, «Caledoscopio Letterario», 4/1991, pp.19-29.
  2. Della sera del 6 settembre 1944 parla Livia Girardini nelle proprie memorie. Dal suo certificato di detenzione risulta però che venne liberata il 7 settembre.
  3. Anche un altro documento - una relazione sul caso Girardini stesa dal SIM (Servizio informazioni militari) di Treviso - attesta la concertazione dello scambio di prigionieri, ma da realizzarsi il 13 settembre 1944, non l'11 come ricorda Sanchetti.
  4. Testimonianza di Giovanni Chiara, in Ives Bizzi,La Resistenza nel Trevigiano, 6. La Resistenza a Oderzo e dintorni, Giacobino Editore, Susegana, 2002, p. 43.
  5. Antonio Serena, La strage di Oderzo, Manzoni editore, Treviso, 2013, p. 99. Serena intende dimostrare che anche la fucilazione dei due imprigionati era stata comunque «imposta dai tedeschi in disaccordo coi fascisti», portando l'esempio del comandante delle Brigate Nere, Nestore Calò. «In contatto con i comandi repubblicani di Treviso si stava adoperando per la liberazione di Girardini e, fallito ogni tentativo, [ordinò] alle sue Brigate Nere di non presenziare al macabro rito». Venne «obbligato ad assistere all'impiccagione. Sconvolto per quando accaduto, si toglierà la vita».

Bibliografia

  • [1953] Settimanale «La Tribuna Illustrata», n. 8 del 22 febbraio 1953, p. 10
     
  • [1977] Abramo Floriani, La diocesi di Vittorio Veneto nella Resistenza (8 settembre 1943 - 30 aprile 1945), Vittorio Veneto, 1977 | Reperibilità: ...
     
  • [1987] Ivo Dalla Costa, Pietro Dal Pozzo. Un testimone del nostro tempo, Tipografia Artigiana Cappellazzo, Treviso, 1987 | Reperibilità: ...
     
  • [1993] I caduti trevigiani nella guerra di Liberazione 1943-1945, a cura di Elio Fregonese, Introduzione di Livio Vanzetto, Interventi di Ferruccio Vendramini e Mario Ulliana, II edizione con integrazioni, ISTRESCO, Treviso, 19972 (1a edizione 1993) | istresco.org
     
  • [1995] Morena Biason, Partigiani di pianura. La brigata Furlan tra Piave e Tagliamento (1943-1945), Tesi di laurea, Rel. Pietro Brunello, UniVe, 1994-95 | Reperibilità: ...
     
  • [1998] Marco Borghi, La dimensione politica della resistenza trevigiana. I verbali del CLN provinciale di Treviso 14 agosto 1944 - 24 aprile 1945, in I CLN di Belluno e Treviso nella lotta di liberazione, Atti e documenti, A cura di Ferruccio Vendramini, Marco Borghi, Istituto veneto per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea, «Annali», 19, 1998, Cleup, Padova, 1999 | Reperibilità: ...
     
  • [1999] Ulderico Bernardi, Un’infanzia nel '45 nel Veneto della guerra civile, Marsilio, Venezia, 1999, p. 120 Reperibilità: amazon.it/8831772791
     
  • [s. d.] Episodio di Camino di Oderzo, 12.9.1944, a cura di Federico Maistrello | straginazifasciste.it
     
  • [2001] Federico Maistrello, Partigiani e nazifascisti nell’Opitergino, Cierre, Sommacampagna (VR), 2001, pp. 65/68 | Reperibilità: edizioni.cierrenet.it
     
  • [2002] Ives Bizzi, La Resistenza nel Trevigiano, 6. La Resistenza a Oderzo e dintorni, Giacobino Editore, Susegana, 2002 | Reperibilità: ...
     
  • [2003] Gianni Favero, Inesorabile piombo nemico. Diciotto frammenti tra il 1943 e il 1945, Piazza editore, Treviso, 2003, pp. 34 ss. (di Giovanni Girardini si racconta nel capitolo "Mi raccomando i calzoni", dedicato ad Ugo Rusalen, altro valoroso partigiano di Motta di Livenza, a capo di una delle tre compagnie operanti del Battaglione Livenza) | roncade.it/eventi | roncade.it/download
     
  • [2010] Diari Storici dei Reparti partigiani della Provincia di Treviso, Archivio dell’Istresco, Treviso, 2010 | istresco.org
     
  • [2013] Antonio Serena, La strage di Oderzo, Manzoni editore, Treviso, 2013, p. 99 | Reperibilità: ...
     
  • [2014] Giacomo Graziuso, Gioventù e Università italiana tra fascismo e Resistenza: l’attribuzione delle lauree Honoris Causa nell’Archivio del Novecento dell’Università di Padova [1926-1956], Tesi di Laurea, UniPd, 2013-2014 | tesi.cab.unipd.it