«Far San Martin». In una società non più prevalentemente agricola e povera, l'espressione ha quasi perso significato, ma fino agli anni sessanta del Novecento rappresentava ancora un'esperienza patita con sofferenza dalle famiglie contadine e uno spettacolo struggente anche per chi osservava i loro forzati traslochi. L'usanza era atavica. Il quadro del pittore cremonese Vincenzo Campi, Il sanmartino, ritrae uno di questi traslochi nell'ultimo quarto del Cinquecento.

Vincenzo Campi, Il sanmartino
Vincenzi Ciampi (Cremona, ante 1536-1591), Il sanmartino (trasloco), databile dopo il 1572, pittura a olio su tela, cm 227 x 163 | Fonte: LombardiaBeniCulturali | Scheda completa SIRBeC
 

Nel calendario rurale l'11 novembre, ricorrenza di San Martino, faceva da spartiacque tra un'annata agraria, dopo la semina, e la successiva. Quando i contratti di mezzadria o affittanza venivano sciolti, segnava il termine ultimo per lasciare il fondo e il casolare. La disdetta, ricevuta solitamente a maggio, in anticipo di un semestre sulla scadenza, costringeva il capofamiglia all'ansiosa ricerca di un nuovo contratto e una nuova sistemazione nello stesso comune o, al più, tra paesi vicini - se questa riusciva - senza sicurezza di conservare o migliorare le condizioni lavorative e abitative che abbandonava.

Finiti i lavori dei campi, diviso e venduto il raccolto, passati i primi giorni freddissimi di Ognissanti e dei morti, non era infrequente una mitigazione della stagione grazie alla piccola "estate di San Martino", così detta dalla leggenda di Martino futuro vescovo di Tours(1), che vedendo un povero infreddolito – Gesù stesso, secondo alcune narrazioni – aveva diviso in due il mantello, mentre la temperatura dell’ambiente si alzava per evitargli il freddo, come gratitudine per il buon gesto. I contratti agrari tenevano conto del fatto che, attorno all’11 novembre, la temperatura si alzava di qualche grado e rendeva i trasferimenti più facili.

Si materializzavano allora per le vie i mesti cortei di chi "faceva San Martino": il tiro di cavalli o di asini, il carro sovraccarico e debordante di mobili, di masserizie, di attrezzi, della cassapanca col vestiario, della legna per l’inverno, di polli nella stia e di conigli nella gabbia, di bambini issati sopra a tutte le suppellettili alla meglio, gli adulti incamminati a piedi dietro le cose trasportate ...

 
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Note
 
  1. Si tratta dell'ufficiale romano Martino, proveniente da Sabaria Sicca (odierna Szombathely) in Pannonia. L'episodio che gli cambiò la vita, quando non era ancora cristiano, è il più ricordato e più usato dall'iconografia.

    La leggenda di Martino

    Il cavaliere Martino, distante ancora poco meno di quattro giorni di viaggio dalla sua casa alla quale stava tornando, aveva incontrato lungo la strada innevata un povero vecchio infreddolito senza neppure un cencio che gli coprisse le spalle e, impietosito, aveva diviso in due il proprio mantello donandogliene metà. Quel vecchio ignudo secondo alcune narrazioni era Gesù stesso, quello che dirà ai misericordiosi: «Ero ignudo e voi mi avete vestito». Nell'atto stesso che il soldato porgeva al povero la metà del suo mantello, tutta la neve che era in terra disparve, la terra si rasciugò, l'aria si fece calda, le piante sparsero la foglia, gli uccelli si misero a cantare: insomma una vera estate in pieno novembre. Durò così fino a sera, finché raggiunto l'albergo per pernottarvi ricominciò a nevicare.La mattina il mondo era nuovamente imbiancato.
    Martino sperimentò il "miracolo" quanto durò quel viaggio fino a casa, perché ognuno dei giorni successivi gli si sarebbe ripresentato un povero viandante bisognoso di vestiario nella morsa del freddo: al secondo donò l'altra metà del mantello; per il terzo, non avendo più mantello, si privò della sottoveste; al braccio nudo tremolante dell'ultimo incontrato offerse infine la camicia, l'ultimo avanzo dei suoi vestiti. Ogni volta si dissolveva la neve e scompariva il gelo, l'inverno cedeva improvvisamente all'estate.
    Martino, incredulo di ciò che capitava dopo ogni suo atto di misercordia, dubitava di sognare. Giunto finalmente a casa, Cristo gli apparve nottetempo: era ricoperto della metà del suo mantello militare e diceva agli angeli e ai santi che gli erano d'intorno: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro.

    (Rielaborazione da: Tito Casini, Al fuoco e all’ombra, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1934, pp. 19-23 | paginecattoliche.it).

Il dipinto di Vincenzo Campi

È il traffico colorito e nello stesso tempo dolente di un trasferimento di contadini il giorno di San Martino. Il soggetto è raro e non trova precedenti in altre composizioni cinquecentesche né italiane né straniere. Efficaci sono anche le soluzioni compositive.
Una famiglia, alla destra di chi osserva la scena, ha ormai radunato all’esterno della cascina in cui ha vissuto la passata annata agraria tutti gli oggetti e gli animali ed è probabilmente pronta alla partenza. In fondo alla strada un altro nucleo famigliare sta arrivando a destinazione e imbocca il portale di un edificio rurale.
Nella cosiddetta "estate di San Martino" le giornate sono tornate miti e sembrano una rinnovata primavera. Per rendere questa sensazione la donna ha braccia nude e le colombe tornano in amore. I colori sono ben contrastati, ancora fuori dal livellamento delle brume autunnali. In questo bizzarro giorno novembrino ancora caldo o tiepido il pittore fa contrastare «con il fondo scuro, quasi temporalesco, la luce del sole concentrata solo in un punto, quello in cui i contadini accumulano le poche cose, per poi partire».

Vincenzo Campi, Il sanmartino (particolare)

Vincenzo Campi, Il sanmartino (particolare)