[ di Giovanna Miolli | 31.3.2020 ]
 
Fonte dell'immagine: Federico Barocci, Fuga di Enea da Troia (1598), Galleria Borghese, Roma | upload.wikimedia.org
 

Dalla pancia del cavallo fuoriescono gli Achei, mentre i Troiani sono immersi nel «duro sonno».
Ettore appare in sogno a Enea, gli dice che ormai la città è presa, che deve fuggire con i sacri Penati e fondare nuove mura dopo peregrinazioni sul mare.
Le grida sopraggiungono, Enea si sveglia dentro la città sconvolta. Se lo prende quel sentimento che afferra i guerrieri: il furore della morte bella, la morte per la patria quando tutto è già perduto.
C’è una sola salvezza pei vinti, non sperare in alcuna salvezza.
Enea decide che combatterà fino all’ultimo, lo affiancano altri compagni, attraversano Troia nel tentativo di salire verso la rocca.
Accade di tutto, colli azzurri di serpente, armature lucenti, dardi, lunghi portici e atrii vuoti, cuori roventi, il mare che risplende per gli incendi.
Chi potrebbe narrare con parole la strage di quella notte; e le morti? Chi potrebbe trovare le lacrime, quante ne occorrerebbero ai nostri dolori? La città antica che aveva regnato per tanti anni rovina: qua e là giacciono senza vita corpi infiniti, lungo le strade, nelle case, sulla soglia dei templi.
Dopo aver perso quasi tutti i compagni, Enea arriva alla rocca di Troia. Nel palazzo reale risuonano pianti fin nelle stanze più intime. Le porte sono divelte, i Greci sono ovunque.
C’è questo Priamo vecchio, questo re consunto nel corpo ma ferreo nell’animo che come ultimo gesto impugna le armi di guerra «da troppo tempo deposte». Gli stanno come un vestito largo, una pelle lasca, che invece di rilanciare l’antica forza, sottolinea l’impietosa contraddizione.
Nel cortile al centro del palazzo, circondata da figlie e nuore, la moglie Ecuba lo ammonisce: “Che fai, infelice?”. Se ci fosse stata qualche speranza di vincere per mano umana, sarebbe bastato il figlio Ettore. Non possono più nulla. Solo abbracciare l’altare che si erge nel cortile.
Poco dopo arriva Pirro, figlio di Achille, che fa scempio di Priamo. Enea assiste e pensa al padre Anchise, al piccolo Iulo, alla moglie Creusa. Li pensa soli, nella casa forse già distrutta.
Vede Elena. Vorrebbe ucciderla: che almeno non possa tornare un giorno a regnare a Sparta o Micene, che non riveda marito, padre e figli, che non abbia al suo servizio schiave e schiavi troiani. Che non possa avere l’agio, il regno, la venerazione – lei, che è la causa di tutto.
Lo ferma l’apparizione della madre, Venere. Elena non c’entra, è l’ostilità degli dei. Che dunque Enea corra alla sua dimora, raduni i suoi e fugga; lei lo proteggerà.
Enea raggiunge la casa, ma Anchise, il vecchio padre, si rifiuta di abbandonare Troia. Preferisce la morte all’esilio. Chiede che lo lascino lì.
Enea non ne vuole sapere. Se Anchise non verrà, nessuno partirà. Torna quindi al suo proposito di morire in battaglia, difendendo la città.
Padre, speravi davvero che io potessi fuggire senza di te? Parole così tremende uscirono dalla tua bocca?
Arriva però un presagio divino: sulla testa del piccolo Iulo appare una piccola fiamma, poi rimbomba un tuono da sinistra e la scia di una stella percorre il cielo. Anchise intrepreta il segno e comprende che c’è ancora speranza per la discendenza di Troia. Acconsente a seguire Enea.
Da lì in poi: pene e vicissitudini, ma Enea arriverà nel Lazio.
Libro secondo dell’Eneide. Un Virgilio maestoso. Una storia di umanità, un’epica che ci si addensa nelle vene, che sta tra i miti fondativi del nostro spirito, della nostra cultura, della nostra penisola. Non importa che la narrazione sia vera o falsa, importa che dica. Che parli. Che testimoni. Che generi lacrime e brividi e pietas.
Nella fuga da Troia, Enea prende sulle spalle Anchise. Non ha dubbi. Salvarsi insieme a lui o piuttosto nessuna salvezza.
Ecco perché ci inorridiscono discorsi come “dovete prepararvi a perdere i vostri cari”. Ecco perché non dobbiamo lasciare un solo millimetro al pensiero biforcuto “tanto colpisce per lo più gli anziani”. Ecco perché ci opponiamo al calcolo dell’utilità, ai numeri asettici spogliati delle loro storie, alle stime basate sull’interesse.
La fragilità dei nostri padri è la nostra, la vulnerabilità delle nostre madri è la nostra. Ma anche la loro saggezza, la loro guida, la lunga vista che a noi manca.
Nelle nostre radici c’è la pietas. E la pietas legittima un solo pensiero: l’unica salvezza è salvarsi insieme.

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Le citazioni dal testo virgiliano (in corsivo) sono nella traduzione di Cesare Vivaldi (Eneide, Garzanti, 2010)
L'articolo di Giovanna Miolli è tratto da Diario del primo giorno, il blog "contingente" che l'autrice ha deciso di tenere durante l'emergenza del covid19, contingente perché «Ha un inizio e una fine. Precisi. Comincia oggi, 13 marzo, e si conclude a emergenza terminata. Perché sì: ci arriveremo» | diariodelprimogiorno.com